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19
settembre
2010 - 11 Tishrì 5771 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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...e ora, dopo essere sprofondati nell'abisso del sé come Giona,
possiamo e dobbiamo riprendere, rinnovati, la strada cominciata e a
volte abbandonata.
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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La prossima domenica saranno
70 anni dal giorno in cui a Port-Bou, sul confine franco-spagnolo,
Walter Benjamin sentendosi un uomo braccato che nessuno era disposto ad
accogliere, temendo di essere oggetto di respingimento, ovvero di
essere rigettato indietro nelle mani dei suoi possibili carnefici,
insomma sentendosi sfuggire tra le mani l’eventualità di poter vivere
libero, decise di porre fine alla sua vita. Molti ricorderanno la sua
genialità, i suoi scritti, il suo essere una figura intellettuale che
non riuscì a parlare a al suo tempo e che, con molta fortuna, e in
conseguenza della solerzia dei suoi amici, noi siamo stati messi in
condizioni di poter godere della sua riflessione in questo nostro
tempo. Tuttavia, sono proprio la scena e le circostanze di quella
morte, che molti guardano e non leggono, a essere forse il testo più
saliente di “questo nostro tempo” e anche, quello, non scritto, ma
costruito da Benjamin, che tutti i giorni, e più volte al giorno, noi
abbiamo di fronte a noi. Quella scena è parte dell’eredità che Benjamin
ha lasciato a tutti noi come anticipazione e premonizione di questo
nostro tempo.
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Qui Milano - Aragosta, colpo di scena e pace a sorpresa |
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Colpo
di scena e finale a sorpresa nel cosiddetto caso dell'aragosta, che
vedeva alcuni esponenti delle diverse anime dell'ebraismo milanese
contrapposti di fronte al Tribunale rabbinico della città lombarda. Con
un messaggio inviato nell'imminenza del Kippur ai leader della sinagoga
milanese Lev Chadash, il rabbino Shlomo Bekhor, affiliato al movimento
Lubavich, ha porto le sue scuse formali, affermando che non aveva
intenzione di “dire bugie” e che quanto accaduto è attribuibile al
fatto che fosse stato “informato male”. Ogni sua affermazione
precedente è stata quindi smentita e ritirata. Il rav Bekohr, in
un suo scritto, aveva accusato la sinagoga affiliata alla World Union
for Progressive Judaism di aver tenuto il Seder di Pesach offrendo ai
partecipanti un banchetto a base di aragosta, un crostaceo che la legge
ebraica considera inadatto e proibito all'alimentazione. Lev
Chadash aveva reagito con sdegno, negando recisamente ogni veridicità
delle accuse e sottolineando quella che era stata qualificata come
un'operazione meramente diffamatoria ai danni dell'intera congregazione. Della
vicenda e del ricorso al Beit Din milanese si erano occupati con
rilievo anche i media nazionali, riprendendo le anticipazioni
pubblicate in luglio dal giornale dell'ebraismo italiano Pagine
Ebraiche, che aveva sottolineato come dalla controversia, al di là dei
contenuti specifici, risultasse evidenziata proprio la centralità e
l'autorevolezza del rabbinato italiano, l'unica autorità che poteva
essere riconosciuta dalle parti in grado di dirimere un grave e
delicato contrasto. I leader di Lev Chadash hanno annunciato dalle
Tevà ai presenti nel corso della giornata di ieri il ricevimento del
messaggio, informando di aver già accordato il perdono e di considerare
quindi chiuso l'incidente. “Nello spirito di Kippur – hanno detto -
abbiamo ritenuto di accettare le scuse, e porgere le nostre per le
espressioni accese che sono emerse nella polemica”. Decade quindi
il procedimento di fronte al Tribunale rabbinico su cui era stato
sollecitato il rabbino capo di Milano rav Alfonso Arbib. Nel suo messaggio il rav Bekhor esprime fra l'altro l'auspicio di ulteriori “occasioni d'incontro”.
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Israele: "Trattative, un appiglio di speranza" |
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Lo
scetticismo domina nelle menti e nei cuori di israeliani e palestinesi,
nel mondo degli esperti e dei diplomatici, circa un esito positivo
della trattativa di pace appena avviata. Eppure è importante e
confortante che, dopo una lunga e deprimente fase di stallo dai
negoziati di Annapolis del 2007, costellata di episodi funesti, le due
parti abbiano ripreso a trattare, con la mediazione e sotto la forte
pressione degli Stati Uniti. I sondaggi di opinione e le
impressioni degli osservatori sul campo mostrano come nello stato
d’animo dei due popoli dominino due sentimenti contrapposti. Da un
lato, la consapevolezza che la soluzione di “due stati per due popoli”
è l’unica possibile, e che essa esige la spartizione concordata di
quella terra contesa e che il costo di un compromesso sui confini,
Gerusalemme, gli insediamenti e il diritto al ritorno dei rifugiati è
molto minore di quello del perpetuare lo status quo dell’occupazione e
della violenza. Dall’altro, un pessimismo rassegnato, fatto di
stanchezza, sconforto, frustrazione per i fallimenti trascorsi, circa
la possibilità vera di un esito positivo del negoziato, per
l’incapacità della classe politica delle due parti di pagare il costo
della pace. Per Israele, soprattutto, il momento è decisivo e la
mancanza di una convinta mobilitazione dell’opinione pubblica e di un
senso di urgenza per il futuro della nazione preoccupano. Nonostante
ambiguità, diversivi dialettici e la naturale tentazione al
procrastinare, dovrebbe essere chiaro che di tre cose – Israele come
stato-nazione del popolo ebraico, Israele come democrazia, continua
espansione delle colonie fino all’annessione di fatto della
Cisgiordania –due sole si possono conseguire in un futuro non lontano. O
Israele rinuncia ai territori, sgomberando le colonie ed eventualmente
negoziando uno scambio paritario di territori con il futuro stato di
Palestina per quanto riguarda gli insediamenti più densamente popolati
e prossimi alla “Linea verde” - Maaleh Adumin e Gush Etzion -, e
conserva quindi la sua identità di stato “ebraico e democratico”, di
stato, cioè, in cui gli ebrei sono maggioritari ma gli arabi godono
della pienezza di diritti politico-civili di una minoranza nazionale. Oppure,
perpetuando l’occupazione dei territori, dà luogo a uno stato
binazionale , in cui gli ebrei saranno minoritari in virtù della
demografia, sacrificando quindi le fondamenta ideali e pratiche del
sionismo. Oppure, infine, annettendo i territori ma privando i
palestinesi che vi risiedono di diritti civili e politici, conserva
l’ebraicità dello stato, in un senso rozzamente etnico, ma in un regime
di segregazione ed esclusione degli abitanti arabi che sarà bandito
dalla comunità internazionale e segnato dalla guerra civile. Per
queste ragioni etico-politiche e di portata storica, il negoziato è
oggi così decisivo e lo sforzo di mediazione degli Stati Uniti, con il
sostegno della comunità delle nazioni, così essenziale. Né credo che si
possa in questa occasione, diversamente dagli accordi di Oslo del 1993
e di altri successivi negoziati, mirare ad accordi interinali e
provvisori. Si può, e certamente si dovrà, dare attuazione agli accordi
con gradualità e con i necessari dispositivi di sicurezza; certamente,
evacuare l’esercito e le colonie dalla Cisgiordania sarà un processo
graduale. Il rimpatrio volontario dei coloni costerà molto al bilancio
dello stato; indennizzi materiali saranno necessari. Sarà molto arduo
evitare il confronto tra lo Stato d’Israele e i coloni più
intransigenti, negli insediamenti più remoti e negli outposts sorti qua
e là in contrasto con la stessa legge dello Stato. Ma l’accordo
dovrà riguardare lo “status” finale, e comprendere: i confini dei due
stati; lo status di Gerusalemme, capitale fisicamente unita ma
amministrativamente divisa dei due stati; il ritiro di circa 100 mila
dei 300 mila coloni israeliani che risiedono in Cisgiordania,
escludendo quindi coloro i cui insediamenti saranno oggetto di scambio
di territori con lo stato di Palestina e coloro che accetteranno di
vivere come minoranza ebraica in quello stato; il ritorno di una parte
dei rifugiati palestinesi nel loro stato, tranne un numero limitato e
già negoziato a Camp David e Taba nel 2000, che potranno unirsi alle
loro famiglie in Israele e un numero rilevante di cui i paesi arabi
dovranno accettare l’integrazione, invece della segregazione fisica e
politica alla quale li hanno costretti dal 1948, con i dovuti
indennizzi finanziari da parte di Israele. Insomma, un quadro
molto complesso. Sarebbe un forte e politicamente astuto atto di
coraggio da parte dell’ANP di Abu Mazen, per ottenere subito la cosa
principale - uno stato degno di questo nome -, offrire ad Israele di
accettare grosso modo quelle condizioni, senza insistere su istanze
massimaliste. La classe politica israeliana sarebbe costretta a scelte
nette, rispetto alla sua opinione pubblica, agli Stati Uniti,
all’Europa. La coalizione di destra al potere si sfalderebbe. Ne
seguirebbe un governo più orientato al centro. Le possibilità di un
accordo si farebbero più concrete. Ragione, ragionevolezza, non
solo il sogno utopistico della pace, spingono al negoziato, nonostante
le immani difficoltà. L’estremismo degli oppositori del compromesso
sarebbe sconfitto se il negoziato avanzasse. Per questo Hamas da una
parte, i coloni più oltranzisti dall’altra agiscono per sabotare il
negoziato. Ma, come disse Yitzhak Rabin nei primi anni ’90, occorre
combattere il terrorismo come se la pace già ci fosse e mirare a un
accordo di pace come se il terrorismo non ci fosse.
Giorgio Gomel
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Davar Acher - Il
percorso di Kippur
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Attraversando consapevolmente
il percorso umano e collettivo di Kippur, può esserci anche lo spazio
di fare attenzione al suo "progetto semiotico", per così dire: cioè
alla complessità e alla ricchezza della liturgia che lo sostiene. Sono
certamente osservazioni marginali rispetto al senso proprio della
ricorrenza, ma forse hanno la loro importanza per riflettere sul nostro
ebraismo.
Da un punto di vista funzionale, non si può non vedere che la
celebrazione di Kippur, più di ogni altra occasione ebraica,
costituisce una straordinaria, ricchissima e dettagliata tecnologia
psico-comunicativa, che a sua volta ha due aspetti: quello di condurre
l'orante a interrogarsi su di sé e ad aiutarlo in direzione di una
reintegrazione (anche questo può essere il significato di teshuvà) e
quello comune a tutte le ricorrenze di perpetuare la memoria collettiva
della comunità.
Lasciando da parte il primo aspetto più esplicito ed
evidente, bisogna dire che a Kippur la funzione di
esaltazione della memoria culturale è particolarmente accentuata dalla
rivisitazione della storia ebraica che compiono i brani poetici delle
selichot, e assume un aspetto centrale nell'accostamento fra tre
formulazioni della stessa ricorrenza. Sono quella antichissima
prescritta nel brano di Torah che si legge la mattina, la descrizione
particolareggiata del più tardo e più complesso rituale del Tempio che
si legge poco dopo, e infine la celebrazione che si sta svolgendo oggi
in quello stesso momento, e che a tratti riproduce simbolicamente
alcune azioni della seconda in aspetti marginali ma fortemente
simbolici, come la genuflessione che alcuni eseguono proprio al momento
in cui il testo racconta di come il popolo si prosternasse nel Tempio
sentendo pronunciare il Tetragramma, o la pronuncia a voce alta della
loro stessa risposta in benedizione del Nome, che di solito si tiene
sottovoce all'inizio della recita dello Shemà: straordinari
corto-circuiti della memoria, che danno alla richiesta delle teschuvà o
del ritorno anche una dimensione storico-simbolica. Tornare,
rispondere, pentirsi significa aderire a una tradizione, mantenerla
viva ricordandola. Perché l'individualità di un popolo è nella sua
memoria.
Sono dettagli che però si inseriscono in una trama di gesti, di parole,
di racconti e di immagini, insomma in una dimensione semiotica che ha
un forte valore simbolico e una grande capacità di influenza su chi vi
partecipa, pur non spostandosi mai nella dimensione dei "segni
efficaci" di altre religioni, che a noi appaiono a rischio di magia. E'
al contrario una semiotica esclusivamente ma riccamente simbolica, in
cui le immagini e le narrazioni si connettono per stabilire un senso
unitario e per dettare la partecipazione del singolo a questo lungo
percorso collettivo: una continuità del popolo e del suo rapporto col
divino attraverso lo spazio e il tempo che appartiene alla dimensione
profonda dell'ebraismo. A questo risultato contribuisce certamente
anche la grande bellezza di alcuni testi, tesori poetici che
meriterebbero un posto nella letteratura universale, e cui purtroppo le
traduzioni italiane non fanno un servizio adeguato almeno sul piano del
valore poetico, anche a causa della lontananza fra le lingue e le
tradizioni poetiche.
Purtroppo la trama dei gesti e delle storie, dei segni e dei
riferimenti poetici (a Kippur ma anche per tutte le feste e anche nella
liturgia di Shabbat e dei giorni feriali) risulta in genere abbastanza
oscura al pubblico ebraico medio, che la riproduce un po' ciecamente,
se è in grado di farlo, sulla base di una memoria del fare ricevuta per
esperienza diretta da bambini. Manca, che io sappia, almeno in
italiano, uno studio rigoroso della dimensione semiotica delle nostre
ritualità (ce n'è più d'una, come si sa, parzialmente divergenti
proprio al livello sensibile dei suoni, dei gesti, dell'ordine della
liturgia) come tecniche della memoria e del percorso spirituale del
fedele. E manca certamente una pedagogia matura della fitta trama di
azioni e di parole che segnano la nostra partecipazione al rito, che la
illustri e per ogni dettaglio metta in rilievo il valore e il
significato, insomma una "pedagogia adulta" della preghiera ebraica.
Eppure anche queste liturgie, anzi queste più di qualunque altra cosa,
sono beni culturali ebraici, la vita stessa della nostra cultura.
Ugo
Volli
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notizieflash |
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rassegna
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Mosca vende armi alla Siria La protesta di Israele
Tel
Aviv, 19 settembre |
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La Russia fa trattative con la Siria. Ha deciso di dotarla di missili
P-800 Yakont. Non sono serviti quindi i ripetuti appelli da parte di
Israele e Stati Uniti per evitarlo. Il quotidiano israeliano Yediot
Ahronot parla di una "crisi missilistica con la Russia" e sostiene che
Israele potrebbe decidere di fornire a sua volta armi sofisticate a
imprecisati "nemici" di Mosca. Concepiti allo scopo di colpire navi da
guerra, i missili supersonici P-800 Yakhont hanno una gittata di 300
chilometri, una testata di 200 chilogrammi di esplosivo e possono
volare a una altezza 5-15 metri, cosa che rende molto difficile la loro
intercettazione. “L'esperienza del passato - ha affermato l'ex capo
dell'intelligence militare di Israele Yaakov Amidror -
dimostra che essi potrebbero giungere in definitiva nelle mani degli
Hezbollah libanesi”. Il quotidiano filo-governativo Israel ha-Yom,
prevede che il governo israeliano estenderà una protesta formale nei
confronti della Russia.
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L'archivio
Rai "Sorgente di vita":
da
fine anno filmati e servizi
Il Corriere della Sera, 18 settembre 2010
I
Rom e un vuoto da colmare
Giuliano Amato, il Sole 24 Ore, 19 settembre 2010
La linea gotica di Pirani
“Forse è andata peggio”
Stefano Ciavatta, il Riformista, 19
settembre 2010
Il
piano nazista, e Hitler
sognò
New York in fiamme
Claudio Guidi, Il Secolo XIX, 19 settembre 2010
Bibbia
di Aleppo, intricata spy-story
Giulio Busi, Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2010
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