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27
ottobre
2010 - 19 Cheshvan 5771 |
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Adolfo
Locci,
rabbino capo
di Padova
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““Ed Avraham era vecchio, “ba bayamim” avanti con gli anni...” (Bereshit 24:1)
Questo è il versetto che segue il racconto della morte e della
sepoltura di Sara e il Midrash spiega così questa vicinanza: siccome
Avraham aveva operato misericordia (con Sara occupandosi della sua
sepoltura) è stato meritevole di essere chiamato “ba bayamim – avanti
con gli anni” come il Signore è chiamato “‘attik yomin (lett. vecchio,
vegliardo; appellativo di Dio che indica, tra l’altro, il Suo essere
preesistente al tempo stesso)”. Il Signore vuole diffondere la Sua
grazia (chesed) in un mondo che, per sua natura, non può assorbirla
direttamente. Il nostro patriarca, che salva suo nipote Lot, che si
preoccupa degli abitanti di Sodoma e Gomorra, che ospita viandanti, che
si occupa della sepoltura della moglie, dimostra tutta la sua idoneità
per essere un “kelì kibbul”, un recipiente attraverso il quale il
mondo può assorbire la grazia che il Signore diffonde nel mondo.
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Alfredo
Mordechai
Rabello,
giurista
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Un po' di luce manda via molta oscurità. (Baal Shem Tov)
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Qui Lucca - Comics and
Jews su Pagine Ebraiche
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È
dedicato al fumetto e alla cultura ebraica un ampio dossier di
approfondimento pubblicato sul nuovo numero di Pagine Ebraiche in
distribuzione martedì 2 novembre. Intitolato Comics and Jews, il
dossier sarà presentato insieme al giornale ebraico per bambini Daf Daf
questo venerdì, 29 ottobre, alle 11.30 nella Sala Incontri della Camera
di Commercio di Lucca in occasione di Lucca Comics, la più importante
rassegna nazionale dedicata al fumetto e alla fantasia in tutte le sue
possibili declinazioni.
All’incontro con il coordinatore dei dipartimenti Informazione e
Cultura dell’UCEI Guido Vitale, parteciperanno grandi autori del
disegno italiano e internazionale, alcune firme che illustrano Pagine
Ebraiche e Daf Daf (ai giornali collaborano fra gli altri Giorgio
Albertini, Enea Riboldi, Vanessa Belardo, Paolo Bacilieri, Maurizio
Rosenzweig e Viola Sgarbi e il critico Andrea Grilli). Ha annunciato la
sua presenza anche il Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane con delega alla Cultura Victor Magiar.
Il dossier prevede un inedito itinerario alla scoperta dei nessi
esistenti tra comics e mondo ebraico in cui sono analizzati matrice
culturale degli autori, profilo dei personaggi e contenuti delle strip.
Quanti sanno che per
disegnare Batman, Bob Kane e Bill Finger si sono ispirati al Golem? O
che Superman può essere letto come la proiezione in calzamaglia di Mosè
e Sansone? O ancora che le avventure degli X-Men sono indissolubilmente
legate alla tragedia della Shoah? Queste e molte altre curiosità tra le
pagine del dossier, dove il lettore viaggerà alla scoperta dello
straordinario potere della matita in compagnia di Robert Crumb e Art
Spiegelman, entrerà nel mondo alla rovescia di Al Jaffee,
nell’immaginario della rivoluzione underground americana e scoprirà
l’unico Santa Claus che parla yiddish.
In apertura di dossier un’intervista con Vittorio Giardino, la grande
firma del fumetto italiano che ha dato vita a personaggi
indimenticabili come Max Fridman e Jonas Fink ricostruendo con
meticolosità luoghi e situazioni legate all’Europa ebraica
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Dossier - I falsi
dell'odio
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Quando
il risentimento diventa filosofia
Una nazione di ingannatori: è questo il modo
in cui Immanuel Kant
definisce gli ebrei nella sua celebre opera Antropologia dal punto di
vista pragmatico. Ma Kant non fa che rilanciare un’accusa che percorre
tutta la filosofia. Il popolo eletto e disperso, estraneo e separato
all’interno delle nazioni, suscita un odio profondo. La filosofia
abdica al senso comune e si rende anzi complice. Le eccezioni sono
rarissime - ad esempio Giambattista Vico. Per contro c’è un nesso di
salda continuità che attraversa i secoli e le diverse correnti
filosofiche. L’accusa della menzogna trova il suo apice in una nota dei
Parerga e paralipomena di Schopenhauer: “gli ebrei sono i grandi
maestri nel mentire”. La riprende Hitler in Mein Kampf: “nell’esistenza
dell’ebreo […] vi è una caratteristica che spinse Schopenhauer a
pronunciare la sua famosa frase: l’ebreo è un gran maestro di
menzogne”. Il risentimento antiebraico dei filosofi offre dunque una
legittimità alla soluzione finale della questione ebraica? Certamente
sì. Ed è questo un tabù che stenta a cadere, come se la ragione
filosofica non avesse mai potuto consentire la barbarie. Se n’era già
accorto Lévinas quando nel 1936 aveva scritto un libretto intitolato
Alcune riflessioni Filosofia dell’hitlerismo. Da un canto voleva dire
che il nazismo non andava preso come una follia passeggera, perché
scaturiva da una filosofia che rischiava di far accettare l’eredità
biologica come un destino, l’opposto dunque dell’esodo, e perciò
l’opposto dell’ebraismo. Ma Lévinas cominciava anche a riflettere sulle
idee filosofiche e teologiche che avevano portato al
nazismo. L’accusa di mentire aveva d’altronde un precedente
illustre in Lutero che nel 1543 pubblicò il violento pamphlet: Degli
ebrei e delle loro menzogne. Leggendo quelle pagine sinistre si
comprende perché il nazista Julius Streicher, sul banco degli imputati
a Norimberga, lo chiamò in causa. Il cristianesimo “spirituale” della
Riforma, religione moderna dell’interiorità, che mal sopportava il
“legalismo”, individuò nell’ebreo il nemico. L’odio affiorò negli
umanisti come Erasmo da Rotterdam, ma anche fra gli eretici come
Giordano Bruno, spesso icone della tolleranza. Dove si fa largo la
tolleranza aumenta anzi il risentimento. L’esempio eccellente è quello
di Voltaire autore del pamphlet Juifs. Per la religione laica, che
esalta l’universalità della ragione, l’ebraismo è lo scandalo della
schiavitù della Legge. La “tolleranza” mostra tutti i suoi tratti
intolleranti verso quel popolo che fa finta di essersi adattato alle
leggi dei paesi in cui vive, ma resta un popolo asiatico in Europa. Lo
dice Herder e lo ripeterà Fichte. Gli sforzi di Mendelssohn per fare
degli ebrei dei cittadini con uguali diritti sono vani. Come ha notato
Hannah Arendt “la moderna questione ebraica nasce nell’illuminismo; è
l’illuminismo, cioè il mondo non ebraico, che l’ha posta”. Il culmine è
raggiunto però dagli Scritti teologico-giovanili di Hegel per il quale
l’ebraismo è un particolarismo che va superato nell’universalità del
cristianesimo. Ma Hegel, che non può sopportare l’”estraneità” che
caratterizza il popolo ebraico, è però il primo a chiarire la questione
in termini politici. Gli ebrei considerano tutto “non come proprietà,
ma come un prestito”. La terra è infatti solo concessa; l’unico
“diritto di proprietà” è quello di Dio (Lev. 25, 23). Nel loro uguale
dipendere “dal loro invisibile Signore”, come cittadini sono “un
nulla”. Così viene pronunciata la condanna di annientamento del popolo
ebraico. Al contrario di quel che in genere si crede, non è Nietzsche
(il cui caso è ben più complesso) ma è Hegel a preparare il contesto
per l’antisemitismo. Tuttavia la parola “antisemitismo”, che spunta
solo nel 1879 nella stampa tedesca, si rivela del tutto riduttiva,
perché fa credere che si tratti di una forma specifica di razzismo. In
realtà la “razza” è solo una scusa, escogitata dall’Ottocento
positivista, per motivare il secolare odio verso gli ebrei. Quest’odio
non è però né semplice ostilità di una maggioranza verso la minoranza,
né semplice razzismo. Piuttosto è la ripugnanza suscitata dall’altro,
dall’ebreo che mina perciò l’identità altrui. La questione si era già
posta in Spagna con la Sentencia Estatuto, stipulata a Toledo il 5
giugno del 1449 per introdurre la distinzione dei “cristiani di pura
origine cristiana”. La filosofia che, pur nella sua autonomia, ha
tratto alimento dalla teologia cristiana, ne ha condiviso le
difficoltà. Prima fra tutte quella di spiegare la presenza della
sinagoga dopo la chiesa, il mistero di Israele che resta. Agostino
aveva cercato di risolverlo sostenendo che gli ebrei dovevano essere
protetti sia per testimoniare la continuità del cristianesimo, sia
perché, alla fine dei tempi, si sarebbero convertiti per
ultimi. Ma perché non eliminare già quell’estraneo che si
spaccia per europeo e invece è un ebreo? L’accusa di mentire si amplia:
l’ebreo che, come aveva detto Hegel, non ha nulla in proprio, a ben
guardare non ha neppure una “cultura propria”, afferma Hitler, cioè
riproduce quella altrui, non ha creatività né genio. Queste parole le
aveva già scritte Otto Weininger, che era ebreo, descrivendo nel suo
libro Sesso e carattere l’immagine di sé che aveva introiettato. Subito
dopo, nel 1903, si era tolto la vita a Vienna, a soli ventitre anni.
Rileggendole Ludwig Wittgenstein rielaborerà il suo rapporto con
l’ebraismo annotando “Il più grande pensatore ebreo non è che un
talento. (Io, per esempio)”. Ma alle soglie del Novecento emerge
soprattutto la “minaccia” del popolo ebraico, disperso e trasversale,
in grado di cancellare i confini, di minare dunque le nazioni e gli
stati, in procinto addirittura di costituire apertamente uno Stato
ebraico che dominerebbe il mondo: il monito di Fichte risuona, in modo
pedissequo, ma non meno insidioso, nel discorso tenuto il 24 settembre
del 2009 all’assemblea delle Nazioni Unite da Ahmadinejad. I filosofi
ebrei del Novecento, da Rosenzweig a Lévinas, sapranno non solo
rivendicare l’alterità ebraica, ma anche scorgere il tratto violento
dell’Occidente nella volontà di appropriarsi dell’altro, di inglobarlo,
di totalizzarlo. Perciò sapranno anche indicare una nuova via alla
filosofia.
Donatella Di
Cesare
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Qui Torino - Vittorio
Foa nei suoi scritti politici
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“Cifra del suo impegno
politico-intellettuale è un complesso, affascinante intreccio di
idealità e concretezza”. Nel centenario della nascita di Vittorio Foa
(1910-2008), la casa editrice Bollati Boringhieri pubblica un'antologia
relativa al periodo che va dalla giovinezza alla maturità del “padre
nobile della sinistra italiana”, come lo chiama lo storico Aldo Agosti,
chiamato a presentare il volume nella sede dell'Istituto piemontese per
la storia della Resistenza e della società contemporanea, nel centro
della Torino di Foa. Scritti politici, tra giellismo e azionismo
(1932-1947) è il titolo dell'opera curata da due giovani ricercatori:
Andrea Ricciardi, che a Foa ha dedicato anche Scelte di vita, edito nel
2010 da Einaudi, e Chiara Colombini. “Le oltre centoquaranta pagine di
introduzione – il professor Agosti elogia i suoi studenti, curatori del
volume – oltre ad essere una preziosa guida alla lettura degli scritti
di Foa, costituiscono un fondamentale capitolo della sua biografia
politica e intellettuale”. Vittorio Foa visse intensamente le diverse
stagioni della storia italiana del ventesimo secolo: crebbe negli
ambienti antifascisti torinesi, da cui provennero molte idee e uomini
per la classe dirigente che fondò la repubblica. La militanza nelle
file di Giustizia e libertà gli costò otto anni – spesi a studiare e
scrivere – nelle prigioni fasciste, uscito dalle quali partecipò alla
Resistenza nel Partito d'Azione. Dopo la guerra fu deputato
dell'Assemblea Costituente. Allo scioglimento del PdA si iscrisse al
Partito socialista italiano, impegnandosi parallelamente in una
frenetica attività sindacale, nella Fiom e nella Cgil.
Fu membro del Partito
socialista di unità proletaria, del Partito di unità proletaria e della
sinistra indipendente. A fianco dell'intensa attività politica non
trascurò mai lo studio, “il che – secondo Agosti – ci fa comprendere la
profondità della sua preparazione e l'acutezza sorprendente delle sue
analisi”. Massima autorità morale e punto di riferimento di una
sinistra disorientata, si è spento due anni or sono, poco dopo il suo
novantottesimo compleanno. Andrea Ricciardi spiega come “durante il
corso di tutta la sua vita Vittorio Foa si mantenne sempre fedele ad un
approccio critico: non era dogmatico, anche quando sosteneva posizioni
radicali". "La costante tensione critica e autocritica, la ricerca
della problematicità, fanno di lui un personaggio mai piatto, mai
risolto". Eppure sempre fondamentalmente ottimista. “Nutriva grande
fiducia nel popolo, nella partecipazione democratica, nelle autonomie,
nelle forme di autogoverno sperimentate durante la Resistenza –
argomentano i curatori – nelle spinte dal basso, vera linfa della
democrazia”. Accanto alla riflessione sul lavoro e all'analisi
economica, centrale in quest'opera, i giovani curatori ripropongono
alcune pagine in cui Foa si interroga sulla democrazia, pensata come un
equilibrio da ricercare incessantemente “tra potere e partecipazione,
democrazia diretta e delegata – spiegano i curatori – una democrazia
inclusiva, contro ogni privilegio ed elitismo”. “Il suo antifascismo –
continuano – è un netto rifiuto etico del conformismo, dell'inerzia
politica, del piccolo opportunismo, dell'acquiescenza alle
ingiustizie”. Acquiescenza è un termine – ricorda il professor Scirocco
– che ricorre molto negli scritti di Foa: "è sull'accettazione delle
piccole ingiustizie che si costruiscono quelle grandi". Scuotere le
coscienze intorpidite e difendere i diritti del lavoro: un obiettivo da
perseguire con studio e passione, etica e impegno, autocritica e
ottimismo. Questa la direzione indicata dalla riflessione politica di
Vittorio Foa, l'eredità morale che questo grande personaggio del
novecento lascia alla sinistra del ventunesimo secolo.
Manuel
Disegni
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Grandi scrittori,
visione irreale
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Confesso che, ogni qual volta
leggo su qualche giornale – e accade abbastanza spesso (da ultimo, in
occasione del discorso pronunciato alla Fiera di Francoforte domenica
10 ottobre, riportato ne la Repubblica del giorno successivo – i
commenti dedicati da David Grossman al conflitto medio-orientale, provo
sempre una sottile, indefinibile sensazione di disagio, le cui ragioni
appaiono a me stesso non pienamente chiare, ma sono essenzialmente
riconducibili alla spiacevole divaricazione tra due moti d’animo di
difficile conciliazione. Se è normale, infatti, essere in accordo o
disaccordo con qualcuno, e anche avere posizioni intermedie, critiche o
dialettiche, non è usuale nutrire, per la medesima persona, e nello
stesso momento, sentimenti di profonda ammirazione e di netto dissenso.
Ammirazione, innanzitutto, per il grande talento dello scrittore: per
quella prosa raffinata, leggera, soffusa di nostalgia, tenerezza,
dolore, che ne ha fatto meritatamente una celebrità mondiale. Ma anche
per la forza dei valori morali, e per l’infaticabile impegno profuso
nel difenderli, sempre e dovunque. L’aspirazione alla pace, in
Grossman, assume il carattere di un inderogabile imperativo etico, che
scuote la coscienza di tutti gli uomini, richiamandoli a rifuggire da
ogni forma di violenza, di sopraffazione, di rassegnazione, a
riscoprire un destino comune di fratellanza, a ricordare la dimenticata
appartenenza all’unica famiglia umana. Profondamente innamorato del suo
Paese, Grossman lega le sofferenze del suo popolo a quelle dei suoi
avversari, augurando a tutti un futuro diverso, con parole profetiche,
che richiamano le più nobili tradizioni dell’umanesimo e
dell’universalismo ebraico.
Quando, però, lo scrittore prova a descriverci, nello specifico, quel
conflitto che tanto lo addolora, la visione che ne deriva appare del
tutto irreale. La sua rappresentazione, infatti, è quella di due
popoli, ostinati, da sempre, a combattersi, contro ogni logica di
reciproca convenienza e utilità. Israele contro Palestina, israeliani
contro palestinesi: sono sempre questi due, nella raffigurazione di
Grossman, i protagonisti dell’assurdo, interminabile ‘duello’, e solo
un’oscura follia, fatta scendere dagli dèi nelle loro menti, per
offuscarle, pare impedire loro di raggiungere quell’obiettivo di pace
che sembra così semplice, così vicino: eppure, ogni volta che si
profila, finalmente, a portata di mano, viene sempre spinto,
perfidamente, “un po’ più in là”.
Difficilmente, nelle sue analisi, Grossman menziona altri soggetti,
quali la Siria, il Libano, l’Iran o, per esempio, la Malesia, e tutti
quegli stati, magari lontani, che pure – spesso, molto più della
Palestina – si dicono acerrimi nemici del suo Paese e del suo popolo.
Difficilmente parla dell’antisemitismo europeo, delle continue condanne
di Israele in sede di Nazioni Unite, delle dure posizioni
ecclesiastiche, degli innumerevoli gesti ostili anti-israeliani
compiuti da organizzazioni o gruppi che con i palestinesi non hanno
assolutamente nulla a che fare. Così facendo, egli sembra cadere in
pieno in quella specie di ‘trappola’ mediatica che, a partire dal 1967,
ha cambiato le carte in tavola, sostituendo alla contrapposizione tra
Israele e mondo arabo quella – propagandisticamente assai più efficace
– tra Israele e Palestina, solo Palestina. Gli altri antagonisti sono
come scivolati sullo sfondo, e la lotta, da uno contro venti, è parsa
diventare “uno contro uno” (con uno dei due, evidentemente, molto più
forte, e perciò più responsabile).
Un quadro monco, distorto, che deforma la verità storica, e non aiuta –
al di là di ogni buona intenzione – a raggiungere delle possibili
soluzioni.
Francesco
Lucrezi, storico
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Fedeltà e giuramenti
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Non me ne voglia Tobia Zevi e nemmeno
l'Associazione Hans Jonas a nome della quale pare intervenire da queste
colonne: non ho la vocazione a fare la sentinella ad alcuno.
Ciò premesso non entro qui nella questione che egli ha trattato
sull'opportunità o meno dell'istituzione in Israele di un giuramento
allo stato "ebraico e democratico", bensì sulla chiosa finale
dell'intervento che confido e sospetto, magari a causa di quello che
una volta si definiva "il maligno diavoletto della tipografia", sia
uscita monca.
Affermare infatti che " il primo passo da compiere è fare la
pace, non ribadire ciò che, fortunatamente, per adesso già è ",
riferendosi quindi ad Israele ed apparentemente addossando
esclusivamente a questo stato la volontà di non pervenire alla pace, è
assunto politicamente troppo povero, retorico e demagogico nei
confronti di una certa corrente di pensiero, peraltro così distaccato
dalla realtà da non costituire una ragionevole analisi politica.
La pace, come i matrimoni, richiede l'accordo tra le parti in causa ed
il panorama che Israele deve contrastare, peraltro non essendo nemmeno
chiaro chi dovrebbe sposare, non mi pare propizio alle nozze.
Gadi
Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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Fedeltà e giuramenti
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Fu Herzl a volere lo stato
Ebraico non uno stato confessionale naturalmente (Herzl era
perfettamente laico ma capiva quello che molti dei nostri ebrei laici
"liberal" non capiscono ossia che la nostra ragione d'essere è basata
sulla Bibbia senza di essa non abbiamo nessuna causa in capitolo) lui
volle uno stato per gli ebrei che avrebbero potuto esercitare la
propria cultura, la propria vita, anche la propria fede apertamente
senza essere perseguitati per la loro volontà di
volere mantenere la loro unicità socio-storico-culturale,
basta leggere le risoluzioni dell'ultimo Sinodo per percepire
l'importanza di questa sacrosanta verità.
Ora, caro Zevi, non dimentichiamoci che l'ONU stesso nella sua
risoluzione del 1947 decise di creare nella Palestina due stati uno
arabo (non Palestinese) ed uno ebraico.
Noi israeliani accettammo questa decisione intrernazionale gli arabi
non l'assecondarono, ci dichiararono guerra e la persero una, due, tre,
quattro… volte; le persero tutte le guerre da loro dichiarate ed
escogitate (da quando mondo è mondo chi perde la guerra perde i suoi
diritti ma noi ci comportammo con magnanimità e tornammo sempre alle
trattative) ora sono sempre loro a non volere riconoscerci come Stato
ebraico perché secondo loro noi si dovrebbe accogliere I loro profughi
causati dalla loro continua belligeranza nel nostro stato (si
tratta secondo loro di 4.5 milioni) e cosi annientarci definitivamente.
Se ci riconoscessero come stato ebraico il loro sogno del nostro
annientamento svanirebbe! L'unica assicurazione della nostra esistenza
è la dichiarazione del nostro territorio come territorio ebraico
naturalmente tutti quelli cha abitano in Israele seguiterebbero ad
essere cittadini israeliani in tutto e per tutto con tutti i diritti
che spettano a tutti gli altri cittadini e naturalmente anche con piena
libertà religiosa e culturale il fatto di essere uno stato ebraico
eviterà il ritorno di chi ci attaccò e volesse oggi ritornare loro o i
loro figli o I figli dei figli! Noi non li abbiamo attaccati sono stati
loro a volere la guerra sono stati sconfitti! Traggano pure le
conclusioni!!!
David Cassuto
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Centro Wiesenthal, il papa prenda le distanze dal vescovo melchita
Gerusalemme, 26 ottobre
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Il Centro Simon Wiesenthal in una lettera aperta diffusa a Gerusalemme
ha lanciato un appello al Papa affinché assuma "azioni immediate" per
sottolineare la sua distanza dalle affermazioni sugli ebrei fatte dal
vescovo melchita di Boston, Cyrille Salim Butros, a margine del recente
sinodo sul Medio Oriente. La lettera - firmata dai rabbini Marvin Hier
e Abraham Cooper, rispettivamente presidente e cofondatore del Centro -
denuncia con parole forti le dichiarazioni del vescovo melchita secondo
cui gli ebrei non possono più considerarsi il popolo eletto né possono
richiamarsi alla nozione biblica della Terra Promessa per "giustificare
il loro ritorno" in Israele. »
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Il fatto del giorno è sicuramente la condanna a
morte dell’ex ministro degli Esteri di Saddam Hussein, il cristiano
Tareq Aziz nato nelle terre curde; Cremonesi sul Corriere parla di un
Aziz stanco e malato, forse anche privo di quella voglia di combattere
che lo contraddistinse negli anni del suo ruolo istituzionale ed anche
in occasione dei precedenti processi, tutti conclusi con lievi
condanne. »
Emanuel
Segre Amar
continua
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Pagine
Ebraiche
è il giornale dell'ebraismo
italiano |
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Dafdaf
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
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