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10
novembre
2010 - 3 Kislev 5771 |
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Adolfo
Locci,
rabbino capo
di Padova
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“Giacobbe
fece un voto: se il Signore sarà come, mi proteggerà, mi darà pane da
mangiare e abiti da vestire. E allora tornerò “beshalom - in pienezza”
alla casa di mio padre e l’Eterno sarà per me il Signore” (Bereshit
28:20-21) “Beshalom”: (lontano) dal peccato; che (in quel luogo) non
imparerò dal comportamento di Labano (Rash”y). Baruch Ha-Levi
Epstein (1860-1941) autore del commento “Torà Temimà”, spiega la
differenza tra queste due espressioni. Il nostro patriarca intende
affermare che la protezione fisica e la concessione delle sue necessità
materiali (cibo e vestiti) dipendono dall’azione e responsabilità
divina, mentre il rimanere integro dal peccato e, di conseguenza, il
ritorno alla casa paterna, sono determinati dalla responsabilità e
comportamento dell’individuo. Perché, come insegnano i nostri maestri
nel Talmud (TB, Niddà 16b): “tutto dipende dal cielo tranne che il
timore del cielo”...
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Marco Morselli,
docente
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Natan, il Saggio di Messina.
Avvicinandosi la data del Gerùsh dall’Italia del Sud, in onore alla
gloriosa storia di un ebraismo scomparso, vorremmo qui ricordare un
importante esponente della Qabbalah estatica: Natan ben Saadyah Harar,
l’autore de Le porte della giustizia (Adelphi 2001). Natan abitava a
Messina ed era uno studente di filosofia. Intorno ai vent'anni (ossia
verso il 1280) incontrò Avraham Abulafia (1240-1291 ca) e divenne suo
allievo. Intorno al 1284 Abulafia ebbe delle visioni e quasi tutti i
suoi allievi - tra cui Natan - lo abbandonarono. Dopo un paio d'anni il
legame venne ripreso, per altri tre anni.
Mosheh Idel conclude la sua lunga introduzione al libro osservando che
Abulafia dedica una sua opera, Or ha-sekel, all'autore de Le porte
della giustizia, definendolo Natan ha-Navon, ossia Natan il Saggio. In
quell'opera egli narra la storia delle tre perle, di cui una sola è
autentica, come allegoria delle tre religioni monoteistiche, proprio
come Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) utilizza la storia medioevale
dei tre anelli. Se Lessing è stato in qualche modo influenzato dal
libro di Abulafia, allora si potrebbe dire che Natan il Saggio di
Messina ha avuto maggior gloria nella letteratura tedesca di quanta non
ne abbia avuta, finora, nella storia della Qabbalah.
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"Mio figlio mi ha
aggiunto su Facebook" |
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Mio figlio mi ha aggiunto di
Facebook, l'ultimo libro di Alessandro Schwed, viene presentato oggi
alle 17.30 su Radio 3 a Farenheit e alle 18.30, da Francesco Cataluccio
e dall'autore, alla libreria Centofiori di Milano (piazzale Dateo 5).
Per cortese concessione di L'Ancora del Mediterraneo, editore del nuovo
romanzo dello scrittore italiano pubblichiamo un breve estratto dal
libro.
A Schwed e
alla sua opera (sono apparsi precedentemente Lo zio coso, Ponte alle
Grazie edizioni e La scomparsa di Israele, Mondadori), Pagine Ebraiche
di novembre dedica un'intervista.
Il mondo di
Facebook e la socialità giovanile sono i protagonisti in questi giorni
anche del film The social network cui il giornale dell'ebraismo
italiano dedica diversi servizi.
La vita virtuale degli ultracorpi
Si
potrebbe dire che internet e la playstation coincidono con la giornata
del Lungo, ma la scuola sbarra la giornata come il cancello di un bagno
penale dove la giovinezza espia se stessa. Ed è solo dopo che è
trascorsa la mattinata e i verbi semideponenti, i protoni e la
Costituzione sono alle spalle come un paesaggio nebbioso, che inizia la
giornata. Scoccate le tredici e trenta, da quel momento è pomeriggio, è
sera, è notte, è un’unica polpetta. La playstation e internet macinano
la vacua analisi strutturalista dei Promessi sposi, studio terroristico
dell’opera, istituito al posto del testo come penitenza, di modo che il
romanzo non debba iniziare con don Abbondio che incontra i Bravi in
quel viottolo, ma implodendo nella conta di ossimori e metafore,
plagiando le tenere menti con la moderneria che la penna del Manzoni
simula una macchina da presa che zuma sul lago e atterra su don
Abbondio mentre passeggia con il breviario. Ciò sino a inibire ogni
eventuale desiderio di lettura. Poveri ragazzi, al posto loro avrei
ribaltato la cattedra. Ma tabula rasa: c’è la playstation,
internet e la variabile perversa della playstation online. Per quanto
riguarda la consolle, a casa nostra il momento è critico: da dieci
giorni il Lungo sta tentando di uccidere Zeus e non ci riesce. Come vi
ho detto, il gioco si chiama God of War e comporta l’impegno continuato
di scalare il monte Olimpo, arrampicarsi sulle immani clavicole dei
Titani - anche loro poveretti tentano di scalare l’Olimpo - prendere
Zeus per la barba, tirarla e riempirlo di pugni prima che lo faccia
lui, e tu, giocatore, perda il duello finale e muoia, precipitando
nella frustrazione di essere destinato a perdere. Non so se fra voi
qualcuno ricordi i primi videogiochi di duelli di spada, calci e/o
pugni, ora chiamati nel neogergo playstationale i “picchiaduro”. Quando
la sfida veniva persa, una voce stentorea diceva: «You failed», “hai
fallito”, istruendo per tempo i ragazzi sull’allegria della società
adulta. Ecco, il finale di God of War è fatto per non vincere: Zeus ti
massacra e non si fa che fallire. Ucciderlo è uno stress, e la vita
familiare ne risente. Ogni giorno mia moglie e io ci informiamo su come
vada con Zeus, ma è una domanda retorica, sappiamo benissimo come sta
andando dal crescendo delle parolacce di nostro figlio: God of War sta
trasformando la tempesta adolescenziale in un tifone permanente, e sono
disperato. Personalmente, non mi vergogno a dirlo, rivolgo a Dio delle
preghiere magari improprie, ma necessarie. Spero che l’Onnipotente
collabori con il ragazzo per fargli mettere al più presto al tappeto
quell’esibizionista di Zeus, che gira in un perizoma che sembra la
reclame del Viagra. Al mattino, dopo che mio figlio ne ha buscate da
Zeus tutta la notte, pronuncio questa orazione: «Signore, dona la
dolcezza a questa nuova giornata: fa uccidere Giove a mio figlio». La
preghiera prosegue così: «Creatore dell’Universo, scusa, ma ti domando:
“Tu hai fatto rompere tutti quegli idoli di terracotta ad Abramo, non
capisco perché adesso fai durare settimane e settimane quel vecchio
dopato che sembra l’icona della lap dance”. La nostra famiglia ti
prega: fai schiantare il re degli dèi, così nostro figlio si rimette a
studiare almeno la chitarra elettrica. Amen». Nell’attesa che la
preghiera sia accolta, la vita è dura. Oggi ho incontrato mio figlio in
corridoio, aveva la fronte aggrondata. E così, Leo è fermo davanti a
una parete, non mi vede arrivare e sta colpendo il muro con un pugno. «Come va?» gli chiedo «hai una faccia». Lui si mette rapidamente la mano in tasca, come se non avesse mai colpito il muro. «Ciao pa’» mi fa. «Si può sapere che hai?» gli domando. E
lui: «Non riesco a uccidere Zeus, fanculo. Odio quel vecchio atletico».
Poi aggiunge, sommesso: «Fra l’altro ti devo dire una cosa…». «Dimmi» faccio. «Pa’, mi sento un po’ strano…». «Strano in che senso?». «A un tratto mi sembra che uccidere Zeus sia blasfemo. Tu che dici?». «Secondo
me, hai ragione, è una faccenda sporca: capisci, scalare l’Olimpo è un
po’ come pretendere di scalare il cielo e prendere il posto di Dio». E lui: «Bel modo di aiutarmi, pa’!». E io: «Ma come, se me lo hai chiesto tu il parere!». «Sì, te l’ho chiesto io, ma mica ho chiamato un prete». E io: «Non ti fai mai aiutare». «Allora, che faccio pa’? Continuo e lo uccido, oppure smetto?». E io: «Uccidi quel cartone animato, figliolo. E che Dio ci perdoni».
Alessandro
Schwed
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Qui Torino - "Scuola rabbinica attiva e da rilanciare"
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Come
presidente della Scuola rabbinica Margulies Disegni di Torino, voglio
intervenire riguardo all’articolo di rav Gianfranco Di Segni pubblicato
ieri, laddove si dice, a proposito della Scuola medesima, che ne
“abbiamo letto l’imminente riapertura”. Vorrei venisse precisato che la
Scuola ha sempre operato in tutti questi anni, sotto la direzione dei
Rabbini capo che via via si sono succeduti, con diversi allievi che ne
hanno frequentato regolarmente i corsi e sostenuto gli esami, e che
quindi non è mai stata chiusa. Quello che forse il rav Gianfranco
Di Segni intendeva facendo riferimento alle cronache più recenti,
riguarda piuttosto l'intenzione del nuovo direttore rav Birnbaum di
allargarne lo spettro delle attività – in collaborazione con la
Comunità di Torino - in un ampio programma di formazione culturale
ebraica rivolto ai giovani, alle donne, ai professionisti e destinato
anche ad attrarre studenti dall’estero.
Dario Disegni
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Il Collegio rabbinico fra centro e periferia
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Lo dico da ebreo di una
"piccola" Comunità e rischiando forse, credo però poco almeno su questo
tema, una piccola dose di impopolarità: le riflessioni di rav
Gianfranco Di Segni sul Collegio rabbinico italiano dipingono un quadro
realistico della situazione e, in linea con il personaggio,
sono tanto pacate quanto schiette nel tratteggiare anche ciò che si
dovrebbe almeno tentare di fare per migliorare l'attività di questo
istituto basilare per l'ebraismo italiano.
Non tornerò quindi su quanto ha fotografato rav Di Segni, pur
chiedendomi se la scelta di rabbanim non italiani da parte di alcune
Comunità, operazione più che legittima, possa essere
attribuita sempre ad assenza di "offerta" locale, come non credo:
auspico semplicemente che il prossimo congresso possa superare una
contrapposizione tra "grandi" e "piccole" Comunità che mi appare ormai
lontana nel tempo ed anche un lusso che, dinanzi ai problemi che
ha tutto il "piccolo" ebraismo italiano , non possiamo
permetterci.
Usando termini aziendali credo sia giunta l'ora di guardare ai nostri
due "grandi" (ma pur sempre "piccoli") poli come siti propulsivi che
riescono a produrre prodotti e servizi, spesso oggettivamente non
realizzabili altrove, dei quali potrà e dovrà beneficiare tutto
l'ebraismo italiano, nonchè poli nei quali potranno formarsi
professionalità ebraiche,non necessariamente quindi "solo" rabbini,
provenienti anche dalle altre realtà, alle quali potranno magari far
ritorno utilmente formati.
Ciò non è peraltro contrastante con l'idea di decentrare quanto fosse
utilmente decentrabile: si tratta di prendere atto,da parte di tutti,
del fatto che i "campanili" non aiutano ad andare lontano, nemmeno in
tempi di federalismo, vero o presunto che sia.
Gadi
Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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Memoria e oblio
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Due libri, recentemente
tradotti in Italia, risollevano l’antico problema del valore etico
della memoria, e della necessità della sua custodia. Il primo, La
storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere
alla guerra in Irak, di Fernando Bàez, da noi pubblicato dall’editore
Viella, ripercorre i numerosi casi di “massacri di libri” perpetrati
nelle varie epoche e nei vari luoghi, cercando di cogliere analogie e
differenze tra i vari casi (tutti, comunque, ascrivibili a una forma di
‘memoricidio’ decretato, per diversi motivi, dal potere del momento).
Il secondo, I brutti scherzi del passato. Identità, responsabilità,
storia, di Manuel Cruz (Bollati Boringhieri) affronta il problema
dell’ambivalenza del ricordo, e della possibile forza negativa della
memoria, in grado di schiacciare e annichilire sotto il suo gravoso
peso.
Il tema, ovviamente, è assolutamente centrale per la coscienza ebraica,
che vede nel dovere di ricordare un fondamentale elemento identitario,
e respinge i vari inviti all’oblio e alla dimenticanza (quando non alla
negazione e cancellazione del passato) come degli espliciti attacchi
contro la stessa identità del popolo d’Israele: attacchi rivolti non
solo – come potrebbe apparire – al diritto di custodire il ricordo, ma
anche a vivere un presente, e a preparare un futuro. Le ricorrenti
accuse di ‘strumentalizzazione’ della Shoah, e le esortazioni a
sganciare la percezione del presente e la costruzione del futuro dal
retaggio della memoria (per esempio, evitando di collegare le
preoccupazioni odierne per la sicurezza dello Stato di Israele alle
tragiche lezioni del passato) sono fondate sempre o sulla malevolenza o
sull’ignoranza, nel momento in cui vanno a incidere su quella
autocoscienza di sé che, per l’anima ebraica, è altrettanto importante
della stessa vita. Non è vita da uomini una vita inconsapevole, sospesa
nel solo presente, che prescinda dal legame con le generazioni passate,
così come con quelle avvenire.
È anche vero, però, che la memoria non porta consolazione, anzi:
“l’uomo dice ‘io ricordo’ – notò Nietzsche -, e invidia l’animale, che
dimentica”. E la stessa umana intelligenza, la necessità di elaborare
dati, nozioni e punti di riferimento, impone di scegliere tra i
ricordi, di decidere cosa conservare e cosa distruggere, attraverso una
continua operazione di filtro, nella quale anche l’oblio e la rimozione
assumono un ruolo essenziale (il personaggio borgesiano Funes, in
possesso di una memoria favolosa, che gli permetteva di ricordare
tutto, diventava in pratica un idiota, in quanto incapace di filtrare e
strutturare il sapere). Di fronte ad alcune particolari, terribili
esperienze, poi, ricordare – come notò Primo Levi – può significare
approssimarsi nuovamente ai cancelli della morte, col rischio di
restare pietrificati sotto lo sguardo della Medusa, di trasformarsi in
statue di sale, come la moglie di Lot in fuga da Sodoma.
Difficile condannare, pertanto, chi si trovi a contravvenire al
precetto mosaico di “non dimenticare Amalek”, o chi, dovendo
selezionare i ricordi, preferisca scegliere il bene, e non il male. Ma
proprio per questo, anche in nome di chi dimentica, chi ricorda è
doppiamente tenuto a farlo, perché, come disse il Ba’al Shem Tov, “se
la dimenticanza conduce all’esilio, la memoria è la porta della
gheullah”, della redenzione.
Francesco
Lucrezi, storico
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L'Osservatore Romano
di oggi pubblica un articolo del Presidente Gattegna dopo la fiction
presentata dalla Rai in due puntate: si tratta, pur sempre, soltanto di
una fiction, per di più ricca di inesattezze storiche, ed è importante
attendere la conclusione dei lavori della Commissione bilaterale di
esperti al lavoro da tempo; Emanuel Segre Amar
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