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27 dicembre 2010 - 20 Tevet 5771
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l'Unione informa
ucei 
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Riccardo Di Segni
Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma

Alla richiesta divina di andare a svolgere la missione di liberare il suo popolo dalla schiavitù, Moshè cerca di sfuggire con vari argomenti. Uno di questi è la sua difficoltà ad esprimersi: “sono pesante di bocca e pesante di lingua” (Shemot 4:10). La risposta divina è “chi è che mette la bocca nell'uomo o fa il muto o il sordo? ... sono Io, il Signore” (v.11). Sembrerebbe a prima vista un problema personale di Moshè e forse una sua scusa. La tradizione mistica allarga la prospettiva. Come c'è l'esilio della persona e del popolo, così c'è l'esilio della bocca e della parola. L'incapacità di mettere le parole al posto giusto, specialmente quando queste parole potrebbero avere un ruolo decisivo. Ma qualche volta, come per l'esilio, questa situazione può diventare una scusa. Bisogna sapere che come si è andati in esilio, così se ne può tornare, e Chi ti ha esiliato ti potrà far tornare. 


Anna
Foa,
storica
   

Anna Foa
La notizia non ha avuto molto risalto, l'ha riportata Il Sole 24 ore il 24 dicembre, e, almeno a leggere la Rassegna Stampa dell'UCEI, nessun altro. Ma è importante. La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso di un cittadino nigeriano, ha decretato che va riconosciuto lo stato di rifugiato a chi, per la propria fede cristiana, teme persecuzioni nel proprio paese sottoposto alle norme della sharia, il diritto islamico. E' una sentenza importante anche perché richiama direttamente una terribile vicenda ancora in atto, quella dei duecentocinquanta profughi eritrei, molti dei quali cristiani, prigionieri dei trafficanti egiziani nel deserto del Sinai. Un centinaio di questi sono stati respinti dall'Italia, senza dar loro il tempo di chiedere asilo, poi detenuti nelle carceri di Gheddafi, e infine abbandonati nelle mani dei pirati che li minacciano di morte e chiedono per loro un riscatto di ottomila euro a testa. Il silenzio dei governi, quelli coinvolti e quelli non coinvolti, è totale. La vicenda è stata riferita il 21 dicembre al Comitato per i Diritti Umani della Commissione Esteri della Camera dei Deputati nell'audizione di un sacerdote eritreo membro dell'Accademia Etiopica Pontificia ed è stata raccontata in un articolo su Il Fatto Quotidiano da Furio Colombo, presidente di quella Commissione parlamentare. La notizia è apparsa nello stesso giorno di quella sulla sentenza della Cassazione. Peccato che gli eritrei non abbiano potuto nemmeno tentare di presentare domanda d'asilo, una domanda che secondo questa sentenza il nostro paese avrebbe dovuto automaticamente accogliere.

davar
Facebook - Time incorona Mark Zuckerberg uomo dell'anno
copertina TIMECinquecentocinquanta milioni di persone. Un ex studente di Harvard ha creato in sette anni la terza nazione più popolosa del mondo dopo Cina e India. Una nazione virtuale in cui la cittadinanza si ottiene in modo facile e immediato. Niente ius sanguinis o ius soli, basta avere una connessione per far parte di Facebook, il social network che ha rivoluzionato il mondo della comunicazione. E per questo il suo creatore Mark Zuckerberg, classe 1984, è stato recentemente nominato dal Time, nota rivista britannica, ‘Uomo dell’anno’. “Questa nomina non è e non è mai stata un onore - spiega il direttore del Time Richard Stengel - ma è il riconoscimento del potere di alcuni individui nell’influenzare il nostro mondo”.
Facebook è, assieme a Google, il sito che registra il maggior numero di visite giornaliere in assoluto. Ha fatturato nel 2009 oltre 600 milioni di dollari e l’impero è in costante crescita. Tutto in mano a un ragazzo di ventisei anni, passato da genio sfigato dei computer a miliardario da copertina. La sua scalata verso il successo è stata raccontata, con qualche imprecisione, nel film The Social Network, uscito in Italia ai primi di novembre. Dalla pellicola hollywoodiana emerge la figura di un Zuckerberg presuntuoso, arrogante e con una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dell’elite americana. Come recita una battuta del film, “Mark tu non sei un bastardo, ma fai di tutto per sembrarlo”.

ZuckerbergNon la pensano così i suoi dipendenti reali, che parlano di una persona piacevole, allegra e soprattutto ne condividono fermamente la vision, la propensione verso il futuro. In un lungo articolo del Time, uno dei suoi collaboratori confida che, prima di ottenere il lavoro, considerava Facebook una cavolata commerciale che violava la privacy. “Ma dopo il primo colloquio - ricorda il dipendente in questione - tutti i miei pregiudizi sono caduti e ho sposato interamente la causa Facebook”.
L’idea principe di Zuckerberg (nell'immagine a fianco colto in un momento di vita quotidiana con indosso una tshirt con su scritto "tutti amano un ragazzo ebreo") è cercare di mettere in comunicazione le persone fra di loro. Permettere che gli ‘amici’ condividano esperienze, sensazioni, immagini, video e quant’altro. Persino lo spazio di lavoro del quartier generale di Facebook a Palo Alto incarna il concetto di abbattere le barriere: centinaia di persone lavorano in una stanza enorme senza divisioni; una sorta di arcipelago di scrivanie in cui ciascun dipendente, alzando la testa dal suo computer, può osservare i colleghi lavorare. Giochi da tavolo, playmobile giganti, palloncini creano un universo rilassato in cui probabilmente qualsiasi giovane, e non solo, vorrebbe lavorare. La formalità non è di casa; Zuckerberg spinge sulla creatività e l’ambiente che ha creato attorno a sé ne è la dimostrazione.
Ha un modo di fare schietto, profondamente razionale e spesso disarmante. “Ti guarda sempre negli occhi - scrive il giornalista del Time Lev Grossman - ti ascolta. Nel film emerge come una persona con un radicato senso di superiorità ma non è così. Sembra più che altro che stia costantemente sulla punta dei piedi nella ricerca di scovare qualcosa laggiù, lontano”.
Uno dei nuovi progetti dell’industria Facebook trova il suo fondamento nella serepidità (neologismo indicante la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un'altra - da Wikipedia). “Una fortunata coincidenza - afferma Zuckerberg - è andare al ristorante e imbattersi in un amico che non vedevate da tempo. Una fantastica occasione fortuita. Sembra quasi un evento magico è questo perché non capita spesso. Ma penso che in realtà tali circostanze non siano effettivamente rare. Probabilmente non sfruttiamo il 99 per cento di questi avvenimenti. La maggior parte delle volte tu e quel tuo amico siete nelle stesso ristorante, o ne sei uscito poco prima o ancora lui è in quello di fronte, ma semplicemente non lo sapete”. L’idea di Zuckerberg è di dare la possibilità, attraverso Facebook, di mappare la propria posizione così gli amici sapranno dove sei e potranno raggiungerti facilmente. “Un modo per render la propria vita più ricca - spiega Mark - per mantenere le relazioni sociali e le amicizie più strette”.
Una filosofia che non si addice a un sociopatico arrogante ma più a un’idealista della condivisione. E Facebook è la patria della condivisione.

Daniel Reichel 


Il timido con 500 milioni di amici

ZuckerbergIl malinconico paradosso del creatore di Facebook, diviso fra un mondo virtuale da 500 milioni di amici e una realtà fatta di solitudine e veleni. The Social Network, dal 12 novembre nella sale italiane, è il racconto romanzato della vita di Mark Zuckerberg (nell'immagine assieme al sindaco di Newark Cory A. Booker), lo studente di Harvard che nel 2004 ha inventato un programma capace di scardinare il sistema. Facebook è il prototipo della rivoluzione nelle comunicazioni: le barriere sociali si frantumano, tutti possono essere amici di tutti e ciascuno può sentirsi protagonista in questa realtà virtuale. Perché altrimenti postare (pubblicare) le foto del viaggio in Australia o la serata in discoteca con gli amici. Certo le persone vogliono condividere le proprie esperienze ma hanno anche bisogno di soddisfare il proprio egocentrismo. Facebook, in questo, è democratico: dà ai suoi iscritti le stesse possibilità di essere re o regine del proprio mondo. Non ci sono classi sociali. Se nella vita reale sei uno sfigato, nella realtà virtuale puoi trovare il tuo riscatto.
Su questi temi corre la stessa trama del film diretto da David Fincher e scritto da Aaron Sorkin. Zuckerberg, interpretato da Jesse Eisenberg, vorrebbe far parte dell’elite di Harvard, lui, giovane ebreo della medio borghesia americana, non vuole rimanere uno sfigato genio del computer. Desidera successo, donne e soldi. È un ragazzo frenetico, un po’ sociopatico e profondamente ambizioso. Almeno questa è l’impressione che emerge dal film, una biografia non autorizzata e chissà quanto veritiera del fondatore di Facebook. La pellicola, peraltro, si basa sul libro Miliardari per caso di Ben Mezrich, che, per far capire l’interesse che gravita attorno a questo fenomeno, aveva già venduto i diritti dal manoscritto prima ancora di finirlo.
Tornando a Zuckerberg, sarà poi così antipatico, egoista e solo? In un lungo articolo sul New Yorker, il giornalista Jose Antonio Vargas dà un quadro molto più tenero e forse umano del miliardario Mark. Un ventenne timido, introverso ma capace di ascoltare e che ammette di aver fatto diversi errori in passato. Probabilmente come dare il ben servito ai compagni di un tempo che lo aiutarono a realizzare la grande impresa. Non è infatti un mistero che il primo investitore nell’affare Facebook, nonché un tempo migliore amico di Zuckerberg, Eduardo Saverin sia stato estromesso quasi a sua insaputa dalla società. Più o meno stesso lo stesso destino dei compagni Dustin Moskovitz e Chris Hughes. Poi c’è la questione Naredra- Winklevoss che hanno più volte accusato Mark di avergli rubato l’idea e con cui è in corso un procedimento multimilionario per risarcimento danni.
Temi scottanti su cui il film di Fincher, autore del celebre Fight club, non può che soffermarsi. Lo stesso regista ama la figura del ribelle, di colui che riesce a sovvertire l’ordine delle cose e Zuckenberg, a suo modo, è sicuramente un rivoluzionario. Una figura difficile da ricreare sulla scena, svela Sorkin, noto sceneggiatore hollywodiano. Lo stesso Sorkin nega categoricamente l’eventualità che il film sia nato come un attacco al creatore di Facebook. “Lo Zuckerberg dello schermo – spiega lo sceneggiatore – appare inizialmente, per un’ora e cinquantacinque minuti, come un antieroe e negli ultimi cinque diviene un tragico eroe”.
Questa dualità è uno dei temi centrali del film: da una parte il multimiliardario spregiudicato, geniale e quasi demoniaco, dall’altra il ragazzo introverso che soffre di una solitudine interiore con cui ha difficoltà a confrontarsi. Un tormento umano e profondo che colpisce anche chi sembrerebbe aver raggiunto tutto nella vita.
Ma il regista non si sofferma solo sulla storia di Zuckerberg, prende spunto da essa per realizzare un quadro della moderna società dei giovani americani. Costantemente sotto pressione, spinti dall’obbligo di riuscire, di diventare uomini e donne di successo, non trovano altra soddisfazione che gonfiare il loro conto in banca. The Social Network non è la solita storia dei buoni contro i cattivi ma, almeno nelle intenzioni, è un analisi delle debolezze e delle difficoltà dell’uomo moderno. È il racconto di un ribelle che con la sua creazione ha sovvertito le regole, ha destabilizzato il mondo intero. Ma non si tratta dell’eroico rivoluzionario, bensì del complicato personaggio che trasportato dalla sete, dall’ambizione crea un intero mondo, restando però solo nella vita reale. E cosa pensa Zuckerberg del film? Sempre nell’intervista del New Yorker, dalla sua casa di Palo Alto, cittadina in cui sorge la sede dell’impero Facebook (oltre 600 milioni di fatturato nel 2009), Mark commentava secco “io conosco la vera storia”. Essere dipinto come un amante delle donne, dei soldi, un spietato calcolatore e uomo d’affari non deve essergli piaciuto molto.
Un genio, se ci fossero stati dubbi, lo è sul serio. Le prime dimostrazioni delle sue capacità in ambito informatico le dà in famiglia. Una sera il padre dentista torna a casa, siamo nel 1996, e parlando con il figlio dichiara di voler trovare una soluzione migliore per la comunicazione nel suo studio. Non ne può più di sentire la segretaria urlare a squarciagola “il paziente è qui!”. Mark prende nota e crea un sistema per mandare messaggi istantanei dal computer della segretaria a quello del padre: di fatto Zuckerberg realizza una forma primitiva del popolarissimo Messenger. Mark è un prodigio e riesce a entrare ad Harvard senza difficoltà. Forse non sarà sinistro come nel film, ma la pellicola di Fincher non sbaglia nel rappresentarlo come uno sfigato. A confessarlo è la fidanzata storica di Zuckerberg, Priscilla Chan che ricorda la prima volta in cui incontrò il ragazzo. “Eravamo a una festa della confraternita ebraica Alpha Epsilon Pi. Ci incontrammo davanti alla fila per il bagno. Ricordo che quando lo vidi, pensai ‘questo è proprio un pesce fuor d’acqua’. Aveva una di quelle magliette da nerd su cui compariva una barzelletta dallo humor tipico dei secchioni”. Genio terribile, sfigato solitario, implacabile affarista, rivoluzionario romantico? Una cosa è certa: Mark Zuckerberg siede oggi su un patrimonio da miliardi di dollari e il suo Facebook è entrato di diritto nella storia. Difficilmente un film potrà scalfire tutto questo.

d.r., Pagine Ebraiche, novembre 2011


Web 2.0? “Cospirazione giudaica”

logoDal 2007 fra i dieci siti più visitati al mondo. Oggi al secondo posto, dietro al gigante Google, nella graduatoria del traffico dei siti mondiali, almeno secondo Alexa, una delle compagnie più autorevoli che si dedicano all’analisi del mondo del web. Di chi stiamo parlando? Di Facebook naturalmente, la rete sociale globale che in pochi anni ha rivoluzionato il mondo della comunicazione.
Il suo inventore, all’epoca studente di Harvard, è Mark Zuckerberg (classe 1984), aiutato nella fase embrionale del progetto anche dai colleghi Andrew McCollum e Eduardo Saverin e dai suoi compagni di stanza Dustin Moskovitz e Chris Hughes (per l’iniziale promozione del sito). È così che Facebook ha dato il via alla sua espansione mondiale: conquistando prima l’interesse degli studenti di Harvard, raggiungendo poi l’università di Stanford, la Columbia university fino all’università di Yale. In soli sei anni è diventato il social network più popolare al mondo e Zuckerberg, con 500 milioni di amici, grazie alla sua idea, è diventato il più giovane miliardario della storia. Ma il successo si sa non è tutto rose e fiori e ha portato con sé complicazioni personali e legali.
Il giornalista e scrittore americano Ben Mezrich ha raccontato, in Miliardari per caso, la vicenda dei due amici, Saverin e Zuckerberg. Una storia di soldi e successo ma anche di amarezze e dissidi e un rapporto finito male, fra tribunali e recriminazioni. Al libro si aggiunge ora il film The Social Network, in questi giorni nella sale americane.
La regia è di David Fincher mentre la sceneggiatura è di Aaron Sorkin. Il film è giocato tra racconto fedele e romanzo sull’avventura del suo fondatore (interpretato da Jesse Eisenberg) e dimostra che con milioni di amici è inevitabile farsi dei nemici. Il film prodotto da Kevin Spacey, Scott Rudin, Dana Brunetti, Michael De Luca e Cean Chaffin, la cui fonte principale di ispirazione è stata proprio il libro Miliardari per caso, ha chiuso il primo weekend di programmazione con il primo posto al botteghino e un discreto incasso, 23 milioni di dollari, e arriverà in Italia il 12 novembre. Ma accanto alla fiction c’è la vita reale. Fra le altre complicazioni legali che hanno colpito Facebook e Zuckerberg in prima persona, si è aggiunta da qualche giorno, sulla testa del giovane miliardario, una pesante imputazione: il pubblico ministero pakistano ha accusato il social network, di aver violato il codice penale del Paese dal momento che uno dei milioni di utenti di Facebook ha pubblicato un’immagine di Maometto, mentre il codice penale del luogo lo vieta espressamente e prevede per atti di questo tipo la pena di morte. La Corte pakistana ha bloccato l’accesso al sito web (nonché ad altri 450 siti definiti dal governo antislamici). Decisione accolta con favore da tutte quelle figure estremiste del mondo islamico, convinte che l’ultima evoluzione del web, detto Web 2.0, che sta ad indicare l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono uno spiccato livello di interazione sito-utente, di condivisione e scambio fra utenti in rete, sia frutto di una cospirazione ebraica.
Ma i pregiudizi e le maldicenze hanno sempre un piccolo fondo di verità. L’inventore di Facebook, per chi non lo sapesse, è ebreo, come ebrei sono molti leader delle più famose aziende informatiche fra le quali: Google, Oracle, Wikipedia e eBay, fra i nomi di spicco ricordiamo Sergey Brin, Larry Ellison, Jimmy Wales.
Dietro a gran parte delle nuove tecnologie del Web 2.0 è ravvisabile la storia del popolo ebraico. Con la Diaspora e il sorgere di piccole Comunità ebraiche sparse in tutto il mondo nacque l’esigenza di mantenere vivi i legami o meglio l’identità e l’attaccamento ai valori religiosi ebraici di un popolo così disperso. E con la dispersione i canali di comunicazione e le gerarchie religiose si sono inevitabilmente frammentate e decentralizzate, dando spazio così a un confronto fra pari e democratizzando la comunicazione.
Fra i fondamenti dell’ebraismo infatti l’apertura al confronto, la discussione aperta e le varie interpretazioni sui dogmi rappresentano da millenni la logica che si cela dietro alla religione. Agli antipodi quindi degli estremisti musulmani i cui valori sono basati su di una forte gerarchia e chiusura totale a ogni ingerenza esterna. L’invenzione rivoluzionaria di Zuckeberg e il cambiamento radicale nel modo di comunicare promosse dai recenti sviluppi tecnologici risiedono perciò proprio in una delle massime ebraiche ma l’utilizzo del web per la condivisione e il confronto, in pieno spirito ebraico, può causare non pochi problemi a quei regimi totalitaristici e oppressivi caratteristici di alcuni ambienti islamici.
Per fortuna a giudicare dalle statistiche, che fanno di Facebook uno degli strumenti più utilizzati sul web, sembra proprio che ci sia chi sa apprezzare lo spirito del confronto promosso dall’ebraismo.

Valerio Mieli, Pagine Ebraiche, novembre 2010
pilpul
Monoteismo ebraico e residui pagani del cristianesimo
Donatella Di CesareRisuona in questi giorni, proclamata o solo suggerita, la tesi secondo cui i valori dell’ebraismo entrarono molto tempo fa in sintesi più vaste e furono perciò superati. Diffuso quanto paradossale verdetto quello che fa del monoteismo ebraico il balbettio dell’espressione cristiana di spirito e verità. Come se l’ebreo fosse dunque un fossile la cui stessa sopravvivenza mette in discussione il fondamento del cristianesimo.
E a ben guardare si dovrebbe capovolgere la prospettiva. L’ebraismo ha de-sacralizzato il mondo, nel senso che ha tolto la magia, ha rotto con l’idolatria. Perciò l’ebreo resta estraneo ad ogni riemergere offensivo del numinoso e del sacro. Il monoteismo ebraico distrugge numi e dèi mitici. Il Dio di Israele non è né la sommità né l’unificazione di una specie - è Altro, è l’assolutamente Altro.
Rispetto al divino che quegli dèi incarnano, rispetto al cedimento cristiano verso l’immanenza delle immagini, verso il sacro che si spazializza, l’ebraismo potrebbe persino assomigliare all’ateismo. Non è questo forse il rischio che si deve correre? Certamente sì. Il monoteismo ebraico richiede di intendere Dio da lontano, di cercarlo a partire dall’ateismo, di invocarlo a partire dalla separazione. Dubbio, solitudine, rivolta devono già essere attraversati. Come ha scritto Levinas: «il Dio per adulti si manifesta nel vuoto di un cielo infantile».

Donatella Di Cesare, filosofa

notizieflash   rassegna stampa
Lanci di razzi su Israele:
“Situazione inaccettabile”
Tel Aviv, 27 dicembre
 
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I lanci di razzi su territorio israeliano sono inaccettabili, siamo pronti a far fronte a ogni eventualità. Sono queste alcune delle dichiarazioni rilasciate dal capo di Stato maggiore israeliano, Gaby Ashkenazi, nel corso della cerimonia di benvenuto al capo di stato maggiore italiano,  generale Vincenzo Camporini, in visita in Israele. Ashkenazi ha spiegato che rispetto alla situazione che esisteva a Gaza prima dell'operazione Piombo Fuso quella attuale "è differente, è più calma, ma di tanto in tanto ci sono razzi che cadono su aree civili in Israele, cosa che noi non possiamo accettare. Riteniamo Hamas responsabile della situazione a Gaza, non vogliamo inasprire la situazione ma saremo pronti a far fronte a ogni sviluppo". 
 
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