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31 dicembre 2010 - 24 Tevet 5771
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Roberto Colombo
Roberto
Colombo,
rabbino 

Oggi è il 31 dicembre del calendario solare. Stasera sarà grande festa. Siederemo, berremo, canteremo e mangeremo in compagnia e in allegria. A tutti va il mio personale augurio. La festa di cui parlo è, ovviamente, lo Shabbàt. Moshè chiese e ottenne dal faraone che fosse concesso a  Israele il rispetto dello Shabbàt. Sapeva che senza lo Shabbàt, che unisce padri e figli e i membri della Comunità in un atmosfera  particolare, gli ebrei, tra loro separati, non sarebbero mai usciti  dall’Egitto. E’ lo Shabbàt che ha mantenuto in vita la famiglia ebraica, dicono i Maestri. Qualcuno, probabilmente, sostituirà questa festa con un'altra ricorrenza di origini pagane. Me ne dispiace sinceramente.   
Daniel
Haviv,
alchimista


Daniel Haviv
Il ministro degli Esteri israeliano Libermann ha ragione: è Abu Mazen e non Netanyahu a silurare i colloqui di pace, ma sta procurando un grave danno all'immagine d'Israele, perché sta facendo apparire al mondo che è di Israele la colpa dello stallo della situazione. Non conoscendo le regole fondamentali di comportamento, ha dichiarato che non si dimetterà dal governo, nonostante che non accetti la linea politica decisa a maggioranza, e anche Netanyahu non pare lo stia licenziando, non volendo rinunciare ai quindici mandati di Israel Beitenu. Il governo israeliano sta parlando con due voci opposte: quella di Netanyahu disposta alle trattative e quella del ministro degli Esteri, dichiaratamente contraria. Il danno va anche oltre al fatto di far apparire Israele come il responsabile della mancanza di progressi nella trattativa: questa situazione anomala fa apparire Israele come un paese che non sa quello che vuole, debole e privo di timoniere, in balia degli umori di un elefante in un negozio di chincaglieria. Quanti cocci dovremo raccogliere prima che Netanyahu si liberi di questa zavorra e prenda il largo a capo di un governo di coalizione con Kadima? Una tale coalizione farebbe apparire Israele come davvero decisa a progredire e la responsabilità dello stallo, se necessario, ricadrebbe tutta sulla leadership palestinese. Un altro vantaggio sarebbe che in essa il partito laburista non farebbe da foglia di fico, come adesso, e riassumerebbe il suo ruolo naturale di partito guida nel cammino verso una qualunque forma di convivenza pacifica con i vicini. 
 
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davar
L’ebreo Giorgione
Pagine Ebraiche



Pagine EbraicheGiorgione ebreo? O perlomeno, se non di stirpe ebraica lui stesso, talmente vicino all’ebraismo da conoscerne lingua, cultura e studi, le cui tracce, opportunamente dissimulate, si troverebbero quasi dappertutto nei suoi meravigliosi ed ermetici dipinti? Una grande mostra, aperta a Padova fino al 16 gennaio, porta nuova linfa a questa tesi già tradizionale, sostenuta in passato da uno dei massimi esperti e studiosi di Giorgione, Enrico Guidoni, e oggi ripresa con convinzione dal curatore della rassegna Ugo Soragni. Una convinzione suffragata Riformistadalle relazioni e amicizie padovane dell’artista di Castelfranco, che la mostra indaga con speciale attenzione e metodologia innovativa, volta cioè non tanto a ricercare i “maestri” di Giorgione quanto a ricostruirne gli interessi, gli incontri e, genericamente, la cultura. E, a questo riguardo, la scoperta più importante che emerge dai nuovi studi è quella di un misterioso, giovane amico di Giorgione, fine erudito, ispiratore, pittore e dotato collaboratore delle prime imprese decorative affidate al maestro di Castelfranco. Il suo nome è Giulio Campagnola (1480/82-1516/17), figlio, naturale o adottivo, di Girolamo Campagnola, stimato uomo di legge padovano, e di un’ebrea tedesca da cui avrebbe appreso l’ebraico e un legame forte col proprio popolo (benché con ogni probabilità fosse stato battezzato), tanto da raffigurarsi anni dopo (nel 1506) nell’affresco che rappresenta lo Sposalizio della Vergine nella Scuola del Carmine di Padova, biondissimo, massiccio ed elegante ma “mezzo ebreo”, I tre filosofi (1504)contraddistinto cioè da un vistoso mezzo disco arancione bordato di giallo (il contrassegno obbligatorio a quell’epoca) che fa bella mostra di sé sotto al mantello bordato di ermellino. Campagnola, che aveva completato la sua formazione a Ferrara a fianco di Andrea Mantegna e Pietro Bembo ed era considerato quasi un ragazzo prodigio, avrebbe intrattenuto con Giorgione, poco più vecchio di lui (nato nel 1478 e morto nel 1510) un legame strettissimo, di natura intellettuale e personale, aprendogli le porte dei circoli intellettuali veneziani e iniziandolo alla filosofia naturale, al neoplatonismo, all’alchimia e alla Cabbala, in cui i due cercavano “una via di salvezza difficile nella complessa situazione storica del primo decennio del Cinquecento”, come scrive Franca Pellegrini in catalogo. Il riflesso di questa frequentazione è evidente nelle opere di Giorgione: a cominciare da quel Saturno in esilio (National Gallery, Londra - non esposto in mostra) in cui la critica riconosce la sua prima opera certa. Saturno, che anche Giulio Campagnola raffigurerà più tardi in una splendida incisione, perché un’interpretazione eterodossa del mito greco “lo vuole alla testa dell’ebraismo rifiorente nel suo segno”, sostiene la Pellegrini, “la figura di Saturno era solitamente collegata alla stirpe israelitica, sulla cui ammissione nel contesto sociale molto si discuteva all’epoca, in quanto entrambe defenestrate dai propri figli ed emarginate dalla relativa comunità”.
Giorgione, La nascita di ParideRaccontando di questa divinità malinconica omaggiata da due giovani paggi e dilettata da libri, musica e animali simbolici che popolano una specie di misterioso giardino, Giorgione prende implicitamente posizione a favore dell’ebraismo e del neoplatonismo sincretico. Idee che potevano comportare anche non pochi rischi, date le recenti persecuzioni che avevano colpito le comunità della zona in relazione all’uccisione di Simone Unferdorben (San Simonino) nel 1475. il ricordo delle spietate persecuzioni messe in atto dal vescovo di Trento Johannes Hinderbach ai danni della comunità ebraica cittadina (accusata collettivamente dell’omicidio), delle torture e delle violente esecuzioni sommarie, doveva essere ancora ben vivo a trent’anni di distanza: specie a Padova, nella cui cattedrale erano pervenute alcune reliquie di Simonino e si istituivano processi per attestare l’autenticità dei miracoli attribuiti al bambino.
Saturno in esilio 1496Giorgione, che frequentava Padova, secondo Ugo Soragno si sentiva toccato da tanto odio al punto da avvertire forse una “possibile identificazione spirituale” con Israele Meyer, miniatore e rilegatore di codici originario di Brandeburgo, giustiziato nel gennaio 1476 per aver cercato di avvelenare, così si dice, Hinderbach, con il realgar, una sostanza rossa usata comunemente dai pittori.
In questo clima di antisemitismo diffuso e latente c’è però da segnalare anche la “nuova ondata di studi ebraici di cui Venezia, con la sua rinomata comunità, fu un centro importante, specie dopo la cacciata dalla Spagna nel 1492”, scrive Giulio Peruzzi in catalogo.
Non a caso nel 1507 a Venezia arrivò anche Leone l’Ebreo (in realtà Jehuda Abrabanel, nato a Lisbona nel 1460 e morto a Napoli intorno al 1530), autore di quei Dialoghi d’Amore d’ispirazione neoplatonica che, pubblicati postumi nel 1535, ebbero un’immensa fortuna nella seconda metà del Cinquecento.
Forse Giorgione lo conobbe negli anni in cui dipingeva il suo ermetico capolavoro, La Tempesta ispirata secondo Calvesi, proprio a un passo dei Dialoghi. Comunque l’artista scomparve poco dopo, nel 1510, probabilmente contagiato dalla peste che aveva infierito in terraferma e in laguna in quegli anni.
La sua morte sarebbe stata rappresentata dal suo migliore allievo, Tiziano Vecellio, nell’affresco della Scuola del Santo, il Miracolo del piede risanato. “Sotto queste sembianze… Tiziano rappresenta quasi certamente la morte di Giorgione, ritraendo l’artista agonizzante …davanti all’ufficiale sanitario… circondato da amici e colleghi”. Fra cui spicca la chioma biondissima e la massiccia corporatura di Giulio Campagnola.

Martina Corgnati, Pagine Ebraiche, gennaio 2011

(Martina Corgnati è docente di Storia dell'arte all'Accademica Albertina di Torino)


Giulio Campagnola, l’amico del mistero

Opera CampagnolaGiulio Campagnola, nato a Padova nel 1482 probabilmente da una madre ebrea, è stato un incisore e pittore di notevole fama ai suoi tempi. Alcuni critici considerano le sue opere come la trascrizione in incisione del Rinascimento veneziano, così come espresso nelle opere pittoriche di Giorgione da Padova e del giovane Tiziano. Alcuni studiosi attribuiscono a lui l’invenzione della tecnica del punteggiato per attenuare i contorni, che comunque è riconosciuta da tutti come una caratteristica delle sue opere.
Formatosi prima a Padova, poi a Mantova e a Ferrara, dal 1507 svolse la sua attività soprattutto a Venezia, divenendo uno dei più fedeli seguaci di Giorgione e acquistando fama anche per la sua profonda cultura umanistica e musicale. Più che come pittore, Campagnola è importante per la sua copiosa produzione di incisore: inizialmente legato al senso lineare di Mantegna e Durer, si accostò in seguito ai modi di Giorgione e di Tiziano, scoprendo in una delicata tecnica puntinista l’equivalente grafico del tonalismo.
Amante anche della scrittura e della poesia, Campagnola si cimentò con il mondo delle arti in età giovanissima, facendosi ben presto la fama del bambino prodigio. Fu intimo amico, e spesso ispiratore, del pittore Giorgione da Padova. Pare che i due fossero entrambi seguaci di una setta neoplatonica di adoratori del Sole Invitto.
Campagnola muore nel 1515, lasciando dietro di sé un alone di mistero, oltre a un corpus di incisioni, di cui una quindicina arrivata ai giorni nostri. Tra questi si ricordano le più celebri: l’Astrologo, Il Vecchio Pastore e Il Giovane Pastore. Inoltre ha lasciato un figlio destinato a diventare famoso.
Opera CampagnolaGiulio Campagnola è infatti anche il padre adottivo del (forse più celebre) pittore Domenico Campagnola, che con questo nome cominciò a firmare le sue prime opere, in età giovanile, nel 1517, a soli due anni dalla morte del padre. Della sua esperienza pittorica giovanile non si conosce molto ma è accertato che abbia lavorato nella bottega del Tiziano. Inoltre ebbe modo di conoscere il Romanino ed il Moretto. Nelle prime opere di Domenico Campagnola, quali l’Incontro tra Anna e Gioacchino l’influenza tizianesca risulta evidente, mentre del 1532, subito dopo i tondi coi Profeti, per una decina di anni appare ispirato dal Moretto e dai maestri bresciani.
Nel 1533 viene affidato a Domenico l’incarico di dipingere l’affresco raffigurante il Beato Bernardino da Feltre all’interno del Monte di pietà di Padova. Tra il 1536 e il 1545 lavora presso l’oratorio di San Rocco a Padova dove realizza un ciclo pittorico che comprende vari soggetti. Nel 1540 affresca la Sala dei giganti. Dal 1541 le sue opere, quali il Battesimo di S.Giustina, acquistano una maggiore luminosità, grazie agli accostamenti a Salviati, operante a Padova in quegli anni. Di pregevole fattura gli affreschi dell’abside di Praglia e i lavori presso San Giovanni di Verdara. Muore a Padova il 10 dicembre 1564.

Il miracolo del piede risanato

Il miracolo del piede risanatoIl miracolo del piede risanato (o La morte di Giorgione), nel celebre affresco di Tiziano. Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1480 - 1485 - Venezia, 27 agosto 1576) è considerato da molti un allievo di Giorgione da Padova. Secondo alcuni l’incontro, fondamentale per la formazione del giovane Tiziano, risale al 1508.
In quell’anno infatti Giorgione realizzò la Venere dormiente per Girolamo Marcello, un olio su tela dove la dea è colta mentre dorme rilassata su un prato, inconsapevole della sua bellezza. Si ritiene probabile che sul dipinto vi sia stato un intervento di Tiziano che, ancora giovane, avrebbe realizzato il paesaggio sullo sfondo e un cupido tra le gambe della Venere.


Israele non guarda in faccia nessuno:
l'ex presidente condannato per stupro
Moshe KatsavUn momento fondamentale nella storia d'Israele, così è stato percepito da tutta la nazione il verdetto che ieri è stato pronunciato dal tribunale che ha riconosciuto il presidente della repubblica Moshe Katzav colpevole di un doppio stupro e di altri crimini sessuali nei confronti di varie donne capitate nella trappola del suo ufficio nel corso della sua insospettabile carriera. Benjamin Netanyahu, il primo ministro, ha espresso in poche parole il senso della percezione che il Paese ha di questo evento, del terribile shock ma anche del suo orgoglio: «E un giorno molto triste per Israele, ma anche un giorno in cui si dimostra che ogni cittadino è eguale di fronte alla legge e ogni donna è la sola padrona del suo corpo». Il verdetto è arrivato dopo quattro anni di indagini che hanno portato alla luce dell'informazione una mostruosa quantità di particolari su come, secondo le testimonianze delle vittime, un personaggio così simbolico e importante come il Presidente della Repubblica può approfittarsi del suo ruolo per compiere atti osceni e di violenza. La loro progressiva rivelazione ha seguitato a turbare un'opinione pubblica severa e sensibile sia alle regole che al carisma ormai infranto. Katzav si è difeso ferocemente rifiutando anche un accordo giudiziario che gli sarebbe stato assai utile, e tuttora si professa innocente mentre l'intera sua famiglia insiste sull'idea che si tratti di una montatura di stampa. Ma la fiducia nei giudici in Israele è incrollabile.
La sensazione generale quindi oggi è che sulla vicenda di Katzav si sia fatta giustizia. Ancora non è stata stabilita la pena, ma il prezzo minimo per la violenza sessuale è di quattro anni e di sedici secondo la nuova legge, e quindi Katzav potrebbe prendere parecchi decenni. Le accusatrici, dal primo momento in cui comparve una misteriosa "Aleph", sono diventate nove. Katsavè stato messo nell'angolo di un'umiliazione micidiale dopo aver sostenuto che le donne implicate nella vicenda erano più che consenzienti, anzi, innamorate e complici. Molte donne dei movimenti femministi ieri hanno commentato come si può immaginare lodando l'imparzialità e il coraggio della corte, ma questo niente sottrae a uno stato di shock che ha due ragioni principali.
La prima riguarda la storia personale di Katzav, una biografia miracolosa e tipica al contempo; un presidente che nel 2000, quando è stato eletto, aveva solo 54 anni, nato nel '45 a Teheran. Dunque, un bambino ebreo iraniano che aveva patito fame e persecuzioni, che giunto con la famiglia a sei anni da ragazzo aveva lavorato insieme agli altri poveri immigrati per costruire la nuova nazione ebraica, letteralmente mettendo in piedi Kiryat Malachi, la cittadina di cui era diventato sindaco a soli 24 anni. Con sua moglie Gila, un'insegnante, un tipo modesto e casalingo, avevano formato una famiglia di ferro. Katzav, che aveva battuto Peres alle elezioni dopo aver ricoperto svariate cariche ministeriali, ha incarnato il sogno di emancipazione di tanti ebrei orientali con la sua aria da sefardita signorile e religioso, quieto e deciso. Una figura che da tranquillizzante e paterna è divenuta minacciosa e violenta.
La seconda ragione del dolore di Israele è la rinuncia all'idea che il cursus honorum israeliano sia comunque un premio di assoluta eccellenza, di cui ci si può fidare a occhi chiusi. Se si pensa ai presidenti israeliani, subito vengono in mente figure torreggianti, speciali come Haim Herzog, intellettuali geniali come Yitzchak Ben Zvi o Zalman Shazar, storici e teorici autori di testi che tutti qui conoscono. E poi ci sono stati scienziati e politici come Ephraim Katzir, Yzchak Navon, Ezer Weizman, e oggi Shimon Peres, premio Nobel per la Pace. Katsav disse quando inizio il suo mandato: «Con l'aiuto di Dio, spero di influenzare per il bene». Ha fatto il contrario, ma la decisione della Corte suggerisce un comportamento severo e umanitario che serve da monito: qui non esistono signori feudali e sovrani assoluti. L'intoccabilità non è di casa.

Fiamma Nirenstein, Il Giornale, 31 dicembre 2010

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Chi se la prende con ebrei e studenti
Anna SegreForse mi è sfuggito qualcosa. Dare dei giudei agli studenti che manifestano per le vie di Roma è un’offesa per chi? Per gli studenti? A meno che non siano antisemiti non dovrebbero avere ragione di offendersi. Per gli ebrei? Sarebbe veramente triste se proprio noi, che ci vantiamo di essere il popolo del libro e dello studio, ci sentissimo insultati dall’accostamento con chi protesta pacificamente per difendere il proprio diritto a studiare. Anzi, potremmo chiederci, non senza una punta di orgoglio, che cosa abbia suggerito questo accostamento: la cultura? L’attitudine a pensare con la propria testa? O la tendenza a protestare di fronte a ciò che si ritiene ingiusto? Sarebbero tutte e tre ipotesi piuttosto lusinghiere, così come è lusinghiero verificare che ai fascisti continuiamo a non stare simpatici. Se chi invoca napalm, olio bollente, pece e piume o colpi di mortaio contro ragazzi colpevoli solo di manifestare le proprie opinioni dichiarasse simpatia per gli ebrei, allora sì che dovremmo preoccuparci. Intanto, tra le scuse per le assunzioni all’Atac, per l’uso di social network durante le ore di lavoro e per le battute antisemite, non pare (se non ho perso qualche passaggio) che il sindaco di Roma abbia trovato il tempo per scusarsi con gli studenti e ribadire il loro diritto a manifestare liberamente. Sarebbe un peccato se le giuste condanne dell’antisemitismo fossero usate per distrarre l’attenzione pubblica da altri fenomeni non meno inquietanti.

Anna Segre, insegnante

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Come da tradizione, anche quest’anno sono state distribuite le borse di studio della Fondazione Raffaele Cantoni. La premiazione ha avuto luogo nella sala degli affreschi adiacente al Tempio Italiano a Gerusalemme... »
 
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