Il progetto di quattro
architetti italiani, Alessandro Cambi, Paolo Mezzalama, Ludovica Di
Falco e Francesco Marinelli si è affermato sugli altri 52 concorrenti
al concorso per la realizzazione del Museo dell'ebraismo e della Shoah
che sorgerà a Ferrara nell'area delle vecchie carceri. Lo ha annunciato
ieri in serata il Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it che
pubblica anche alcune immagini delle proposte avanzate dai
professionisti per conferire al grande complesso architettonico
ferrarese l'assetto definitivo.
Il consorzio che ha vinto la competizione (capogruppo Arco coordinata
dall'ingegner Mauro Checcoli), si è avvalso fra gli altri della
consulenza di grandi nomi dell'architettura, come il tedesco Michael
Gruber il thailandese Kulapat Yantra e del professor Ariel Toaff,
docente di storia all'Università Bar Ilan di Tel Aviv.
Fra i consulenti erano presenti anche Maricetta Parlatore, esperta di
recupero e restauro dei Beni Architettonici, e Luca Scarzella dello
studio Vertov, esperto di allestimenti museografici.
Il concorso era stato bandito dalla Direzione dei Beni Culturali
dell'Emilia Romagna, dal Comune di Ferrara e dalla Fondazione del Museo
Nazionale dell'Ebraismo e della Shoah di Ferrara.
Proprio riguardo alla
consulenza fornita dal professor Toaff, autore del discusso saggio
“Pasque di sangue”, e dalla interpretazione che a questo contributo
attribuisce la stampa nazionale di questa mattina, interviene ora con
decisione il Presidente della Fondazione Riccardo Calimani. “E'
necessario – afferma Calimani - fare chiarezza. Come è ben noto
l'autorevole Commissione (per parte ebraica era componente lo storico
Roberto Bonfil) ha esaminato i progetti in maniera totalmente
trasparente e senza conoscere prioritariamente i nomi degli autori e
dei loro consulenti al fine di assegnare la realizzazione all'ipotesi
più idonea. Proprio l'assegnazione dei lavori a un consorzio che si è
avvalso della consulenza di una figura ben nota e discussa come il
professor Toaff dimostra come la Commissione abbia agito esclusivamente
sulla base del massimo rigore scientifico. Gli elaborati, del resto,
dovevano necessariamente rispondere al progetto culturale elaborato
dalla Fondazione e il ruolo del consulente culturale di ogni progetto,
certo molto importante, non poteva comunque andare al di là di questi
contorni. Di qui ad adombrare che il consulente di uno specifico
progetto sia l'ideatore del museo e il responsabile, il direttore
scientifico dell'iniziativa, ce ne corre. In particolare un articolo
apparso sul Corriere della Sera di stamane suscita enormi perplessità e
ragionevole curiosità e il suo titolo (“Torna Toaff: il mio museo degli
ebrei”)ancora di più”.
“Chi ha offerto – aggiunge Calimani - la propria qualificata consulenza
culturale ai progettisti non può pretendere che il Museo sia cosa sua,
a meno di non prestarsi a un grande bluff. Il Museo non può essere suo,
né mio, ma si tratta di un'iniziativa che dipende al ministero dei Beni
culturali. Sarà il museo di tutti gli italiani, ebrei e non ebrei e il
frutto di un progetto a più voci di un gruppo scientifico altamente
qualificato.
Il Consiglio d'amministrazione, convocato entro il termine di febbraio,
procederà peraltro nelle prossime sedute alla nomina del nuovo
direttore
scientifico”.
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È giusto gioire quando il nemico cade?
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L’altra sera, nel Tempio
Maggiore di Roma, a conclusione delle manifestazioni del Giorno della
Memoria, si è tenuto un incontro con i sopravvissuti ai Lager nazisti.
Uno degli ex-deportati ha raccontato dell’immensa gioia che provò nel
vedere le decine di sentinelle tedesche morte nelle torrette attorno al
campo di Dachau, appena liberato dalle truppe anglo-americane.
Ovviamente, la riflessione che qui propongo non è un giudizio su questo
episodio, né sull’averlo raccontato davanti a migliaia di persone.
Nessuno si può permettere di giudicare gli atti, i pensieri, i
sentimenti di chi è sopravvissuto all’inferno, né durante la permanenza
nei campi né dopo. Neanche chi nei campi c’è stato può parlare riguardo
ad altri che hanno vissuto esperienze simili, perché ogni caso è sempre
un caso a sé. Tuttavia, ci si può chiedere se l’applauso che ha
fragorosamente accompagnato le parole dell’ex-deportato fosse
appropriato. La Bibbia scrive: “Non gioire mentre il tuo nemico cade e
quando egli inciampa il tuo cuore non si rallegri” (Proverbi 24, 17).
Si potrebbe obiettare che nel calendario ebraico ci sono,
apparentemente, diverse feste a ricordo della sconfitta dei nemici del
popolo d’Israele. In realtà, spiega Rabbi Meir Simcha Hakohen
(1843-1926) nel commento “Meshekh Chokhmà”, non è affatto così. Il
settimo giorno di Pesach è festa solenne e in questo giorno in effetti
avvenne il passaggio degli ebrei nel Mar Rosso con conseguente
sconfitta dei soldati egiziani che affogarono fra i flutti. Ma, scrive
il Meshekh Chokhma, la festa fu comandata ben prima dell’uscita
dall’Egitto (vedi Esodo 12, 16), proprio per insegnarci che il motivo
della festa non è la sconfitta del nemico. Dopo tutto, poteva anche
darsi che il Faraone decidesse di non ordinare al proprio esercito di
inseguire gli ebrei che fuggivano. In questo caso gli ebrei sarebbero
usciti in pace, gli egiziani non sarebbero morti, e il settimo giorno
sarebbe comunque stato un giorno festivo. Aggiunge il Meshekh Chokhma
che a causa della morte degli egiziani non si recita in forma completa
l’Hallel (i salmi di lode) negli ultimi giorni di Pesach, e cita il
noto midrash secondo cui D-o dice agli angeli (che avrebbero voluto
fare grande festa): “Le Mie creature affogano nel mare e voi cantate?”
(Talmud bavlì, Meghillà 10b). Discorso analogo si può fare per le feste
di Chanukkà e Purim, in cui non si festeggia la sconfitta dei nostri
nemici ma la riconsacrazione del Santuario di Gerusalemme e il
raggiungimento della pace e della salvezza.
D-o non gioisce quando i malvagi soccombono (e i nazisti non c’è dubbio
che fossero dei resha’im assoluti). Tanto meno lo dobbiamo fare noi,
anche quando assistiamo alla loro morte. Chi ha commesso colpe, deve
essere giudicato dai tribunali (e da D-o nell’aldilà). Se il nemico
muore in battaglia o per qualsiasi altro motivo, però, non possiamo
gioirne. Uno dei motivi per cui gli ebrei sono stati in esilio in
Egitto è per insegnarci tutta una serie di norme che concernono il
rapporto con gli altri uomini e affinché impariamo a tenere un
comportamento corretto.
rav
Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano
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Davar
acher - “Palestine Papers”
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Nella
grande inflazione comunicativa del Giorno della Memoria e naturalmente
anche nell'ombra delle agitazioni politiche e sociali che scuotono in
questi giorni il mondo arabo, pochi in Italia hanno fatto caso ai
"Palestine Papers" pubblicati congiuntamente dalla televisione del
Qatar Al Jazeera e dal quotidiano inglese The Guardian. Si tratta di
1600 documenti sottratti all'Autorità Palestinese, appunti, minute di
riunioni, messaggi diplomatici, che testimoniano, dal punto di vista di
Ramallah il negoziato sul Medio Oriente. Vale la pena di dedicarvi una
riflessione. Sull'onda di Wikileaks i "papers" sono stati presentati
come "rivelazioni esplosive", ma un po' come il loro modello hanno
detto poco di nuovo rispetto a quel già che si sapeva. E cioè che negli
anni scorsi c'è stata una trattativa fra Israele e Autorità
Palestinese, in cui si è discusso di una divisione fra i due stati
pressappoco simile alle linee armistiziali del '49 (quelli che alcuni,
sbagliando, chiamano "i confini del '67"), da correggere con scambi di
territori.
Di queste trattative, condotte durante il governo
Olmert, si sapeva molto, per esempio l'intenzione di dividere
Gerusalemme e i suoi dintorni secondo linee etniche – il che
costituirebbe una grande e difficilissima rinuncia da parte israeliana,
pensando per esempio alla città vecchia. La novità al proposito è
un'imprevista rigidità palestinese sullo scambio: chi pensa che la pace
sia a portata di mano immagina che i palestinesi siano già disposti
all'annessione a Israele dei cosiddetti "grandi blocchi" di
insediamenti ebraici, beninteso in cambio di altri territori, in modo
da limitare il problema dei trasferimenti di popolazione. Ma la
chiusura dell'AP su questi scambi nei "papers" è durissima anche
rispetto a città come Ariel e dunque la lontananza da qualunque
soluzione praticabile è ancora molto grande. Su un altro punto cruciale
come il "rientro dei profughi" invece emerge una maggiore
disponibilità, nel senso che i palestinesi sembrano rendersi conto che,
al di là di ogni questione di principio, Israele non può assorbire un
"rientro" di centinaia di migliaia o milioni di palestinesi. Si vede
infine che l'Autorità Palestinese non esita ad allearsi a Israele
contro i suoi nemici interni, coordinando l'azione contro i terroristi
di Hamas – ma questo era già stato concordato e apparso sul terreno in
diverse circostanze.
Gli aspetti più interessanti riguardano
dunque non le posizioni espresse ma il contesto di queste rivelazioni:
in primo luogo l'idea che ormai il furto di documenti è considerata una
legittima fonte di notizie e nessuna riservatezza privata o pubblica è
più veramente tutelata: il primato del pettegolezzo è un carattere del
nostro tempo su cui vale la pena di riflettere, perché corrisponde a
fatti tecnologici (Facebook), giornalistici politici e perfino
antropologici.
In secondo luogo è significativo il fatto che
spesso le rivelazioni consistono nello "strillo" di fatti noti: uno
strillo che però ha spesso un forte ed esplicito carattere
propagandistico, come in questo caso. Si raccontano dei "segreti" per
agire contro il loro depositario, sostenere un'opinione, far passare
anche la propaganda come un fatto nascosto dagli avversari e finalmente
rivelato. L'appoggio di "Al Jazeera" al terrorismo di Hamas è
stato spesso denunciato non solo da Israele ma anche dall'Autorità
Palestinese; quanto al "Guardian", è oggi il giornale più antisraeliano
di Inghilterra e forse d'Europa. Nonostante questo schieramento
esplicito, parte della campagna permanente di buona parte della stampa
per delegittimare Israele e dunque dunque nonostante l'ovvio sospetto
che le loro affermazioni siano funzionali a un disegno politico
anti-israeliano, le loro "rivelazioni" sulla grandezza delle
"concessioni palestinesi" e il "rifiuto israeliano di trattare" sono
state prese per buone da tutti i media. Il pettegolezzo legittima
l'ideologia.
Infine, bisogna riflettere che in casi del genere,
più che i fatti "rivelati" sono interessanti le reazioni alla
"rivelazione". Sia l'opposizione che il governo israeliano hanno
rifiutato di commentare i "Palestine papers", anche perché le posizioni
che vengono loro attribuite dai documenti in sostanza coincidono con
quelle sostenute pubblicamente dai diversi attori della politica
israeliana. Nei "Papers" come in Wikileaks non vi sono imbarazzi per
Livni, Olmert o Netanyahu, per il semplice fatto che il
governo
israeliano è democratico e la sua politica non può scostarsi troppo
dalle sue affermazioni pubbliche, perché il governo ha un parlamento e
un elettorato cui rendere ragione delle proprie azioni.
L'Autorità
Palestinese ha invece perso l'occasione per confermare al proprio
popolo la semplice verità che anche nella migliore delle ipotesi per le
posizioni palestinesi, gli scambi di territorio andranno fatti, almeno
parte delle "colonie" dovranno essere annesse a Israele, e il "rientro
dei profughi" non potrà avvenire in Israele se non in maniera
assolutamente simbolica. Ha invece smentito proprio questo aspetto
delle rivelazioni, quel tanto di realismo che aveva mostrato nelle
trattative ("mezze verità e menzogne" ha detto il loro negoziatore
Erkat), implicitamente confermando così la tesi di Hamas (e di Al
Jazeera e del Guardian) che il negoziato e gli inevitabili compromessi
necessari per concluderlo sono "vergognosi", che la terra non solo è
"palestinese" ma anche "sacra" e intangibile; mostrando insomma di non
avere il coraggio di guidare alle proprie posizioni il popolo che
governa, insomma di non essere pronta per la pace. Fra l'altro, dai
"papers" si vede che i governanti palestinesi hanno mostrato pubblico
scandalo e cercato di mobilitare il mondo contro Israele per le
costruzioni in territori che essi già consideravano israeliani: un
esempio considerevole di demagogia distruttiva.
Il popolo
palestinese infine, invitato alla rivolta da Hamas (e da Al Jazeera e
dal Guardian), non è affatto sceso per le strade, non ha protestato
come calcolavano i nemici di Israele (e della trattativa). Forse non
sono meno ipocriti dei loro governanti e meno ideologici e accecati
dall'odio dei loro fomentatori. Se c'è una speranza di trattativa coi
palestinesi, essa è riposta sul buon senso della popolazione e non in
una classe dirigente squalificata, corrotta, senza il coraggio delle
scelte che essa stessa considera necessarie.
Ugo
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Sorgente
di vita: l'omaggio a Tullia Zevi
e gli eventi del Giorno della Memoria
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La
puntata di Sorgente di vita di domenica 30 gennaio apre sulle
iniziative del Giorno della Memoria: il 27 gennaio sono stati premiati
al Quirinale dal Presidente Napolitano i vincitori del concorso “I
giovani ricordano la Shoah”. In viaggio premio a Roma i ragazzi di un
liceo scientifico di Torino, gli studenti di una scuola media di Casale
Monferrato e i bambini di una scuola elementare di Bari...»
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