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10
febbraio
2011 - 6 Adar
5771 |
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Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova
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“...olio di oliva puro 'katit -
pestato' per l’illuminazione, per alimentare il lume perenne” (Shemot
27:20). L’olio per la Menorah doveva essere preso dalla
prima spremitura, a mano, delle olive. Il resto dell’olio estratto per
processo meccanico era idoneo per le offerte farinacee. Se pensiamo
alla simbologia della Menorah, possiamo capire la differenza halakhica
tra l’olio richiesto per la Menorah e quello per l’offerta farinacea.
E’ noto che la luce della Menorah simboleggi la Torah e siccome l’olio
che serve per l’accensione deve essere “katit”, spremuto a mano, cioè
acquisito attraverso una sforzo diretto dell’individuo, anche la Torah
si acquisisce attraverso una grande abnegazione e applicazione
quotidiana allo studio. “...Disse Rabbì Ytzchak: se qualcuno dicesse di
essersi affaticato (nello studio) e non di non aver trovato (saggezza),
oppure, di non essersi affaticato e di aver trovato, non gli si deve
credere. Se dicesse di essersi affaticato e di aver trovato gli puoi
credere...(Meghillà 6b).
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Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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Mentre continuano i disordini
in Egitto, e mentre le giravolte della politica americana fanno pensare
che qualcosa di molto importante si sia rotto nella capacità cognitiva
e strategica dell'Amministrazione, viene in mente un piccolo fatto
assolutamente autentico che aiuta un poco a capire le sensibilità delle
parti in Medio Oriente. In una tranquilla giornata a Hebron in
Cisgiordania - circa negli anni '80 - una camionetta dell'esercito
israeliano stava svolgendo un normale lavoro di pattugliamento nelle
strade della città occupata. A bordo, al comando di un sergente, il
guidatore e due soldati semplici, tutti di un reggimento della riserva.
Il sergente aveva dato l'ordine di montare il mitra pesante su una
fiancata, con il cinturone dei proiettili ben visibile accanto ma fuori
dalla canna, per evitare che un sobbalzo dell'automezzo potesse far
partire un colpo a vuoto causando una tragedia. A un certo punto si
avvicina un palestinese locale e puntando il mitra col dito dice: "Il
vostro esercito israeliano, il famoso Zahal, fa ridere. Quando qui a
Hebron, prima del 1967, c'erano i Giordani della Legione Araba, i
proiettili li tenevano dentro il mitra, non fuori. E quando c'era
bisogno, sparavano sulla folla senza preavviso. Quello sì era un
esercito, non quella buffonata della vostra occupazione".
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Rom e
Sinti in Italia - Solidarietà e fatti concreti
Lavoro e progetti confermano il ruolo delle minoranze
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I tragici fatti di cronaca
che hanno coinvolto in questi ultimi giorni le popolazioni rom presenti
in Italia sono stati oggetto di riflessioni e di prese di posizione
delle realtà ebraiche italiane.
Aprendo a inizio settimana i lavori della Giunta dell'Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane il Presidente UCEI Renzo Gattegna ha
ricordato il dovere degli ebrei italiani di manifestare concreta
solidarietà a chi soffre, ma ancora di più di opporsi con decisione
ogni sorta di discriminazione.
Anche il vicepresidente della Comunità ebraica di Milano Daniele Nahum
è intervenuto sull'argomento manifestando sdegno per le affermazioni di
Tiziana Maiolo (Fli - Milano). "Come Comunità ebraica non possiamo
ascoltare in silenzio le parole infami che Tiziana Maiolo ha rivolto al
popolo Rom, perché il silenzio ci renderebbe complici. All'indomani
della morte di quattro fratellini Rom in un campo nomadi a Roma, a
causa della situazione di disagio sociale in cui questo popolo è
costretto nella nostra società, queste parole suonano offensive della
dignità umana di ogni italiano".
Al di là delle dichiarazioni, la recente presentazione a Mantova del
terzo rapporto dell'Osservatorio Articolo3 (nell'immagini la copertina
del rapporto e i partecipanti alla giornata di studi), una istituzione
nata dalla
collaborazione fra Comunità ebraica di Mantova, Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane, enti locali mantovani, rappresentanze delle comunità
Rom e Sinte e molte altre minoranze, ha testimoniato l'importanza di
una collaborazione fattiva e concreta fra popoli e culture che
costituiscono il sigillo di garanzia di una società aperta e plurale.
L'Osservatorio ha raggiunto
in poco tempo un grado di efficacia e
un'esperienza che va ben al di là dei confini della realtà locale.
L'istituto offre un servizio insostituibile all'intera Lombardia e alle
comunità presenti sul territorio lombardo, realizzando, nel quadro e
con gli standard della Rassegna stampa dell'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane, un censimento di tutta l'informazione pubblicata su
scala regionale. Offre uno sportello che raccoglie e gestisce denunce
di casi di discriminazione. E offre un'analisi di come evolve la
società contemporanea a partire da un territorio particolarmente
sensibile come la Lombardia. Con la sua esperienza di monitoraggio
della stampa locale e controinformazione per combattere il razzismo, la
xenofobia e l’antisemitismo ha fatto nascere il network europeo “In
Other W.O.R.D.S” (Web Observatory & Review on Discriminations
and Stereotypes), il progetto recentemente approvato dalla Commissione
europea e impostosi nella classifica sui 1333 progetti concorrenti
presentati.
Il modello di
Articolo3 è ora all'attenzione di numerose autorità
nazionali e internazionali.
L'Ufficio nazionale Antidiscriminazioni razziali istituito per
adeguarsi agli standard europei da Palazzo Chigi ha sottoscritto negli
scorsi giorni un protocollo d'intesa con Articolo3 riconoscendone il
ruolo e dimostrando come da una realtà geograficamente marginale e
grazie a una Comunità ebraica gloriosa nella storia, ma piccola nei
numeri, è possibile realizzare progetti di grande prospettiva.
Alla base del lavoro dell'Osservatorio resta la consapevolezza che le
minoranze non sono solo un elemento di ricchezza e di varietà della
società contemporanea, ma anche la migliore garanzia e la maggiore
tutela dei principi che consentono la crescita di una società avanzata.
E soprattutto la coscienza che il terreno di incontro fra realtà
ebraica e società deve essere quello dei fatti, dei progetti, delle
iniziative, dei valori comuni e non solo quello delle affermazioni di
principio.
gv
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Qui Firenze - Passigli:
"Questa è la mia Memoria"
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C’è tutta la sofferenza del
ricordo, la paura e l’angoscia di quei mesi nascosto dalle Suore di San
Giuseppe sotto falsa identità, il dolore di un abbraccio con i nonni
paterni che non tornerà più, spazzato via dalla razzia del ghetto di
Roma che si prenderà per sempre Guido e Virginia Passigli, unici ebrei
fiorentini vittima delle SS di Kappler in quei tremendi giorni
capitolini. Ma c’è anche la consapevolezza di una vita che deve
continuare nonostante la perdita del padre Raffaello, morto di una
gravissima malattia alla vigilia dell’otto settembre. Nuova vita, nuova
famiglia, nuovi equilibri suggellati dall’unione della madre Albana con
Schulim Vogelmann, ebreo askenazita miracolosamente sopravvissuto
all’inferno di Auschwitz. Davanti al Consiglio del Comune di Firenze in
rispettoso silenzio per onorare la Memoria della Shoah, il presidente
della Comunità ebraica di Firenze Guidobaldo Passigli ha scelto di
parlare della sua storia di giovanissima vittima del nazifascismo. Un
racconto fatto nella consapevolezza che ogni ebreo sopravvissuto alla
Shoah ha la sua storia da raccontare. Storie di ansie e di paure, di
amicizie e di solidarietà, di tragici errori e di ingenuità, di
tradimenti e di delazione, storie di disperazione estrema. Storie che
scuotono ancora oggi le coscienze.
«Giuseppe Dalmasso, Giuseppe Dalmasso detto
Guido; così dovrai rispondere a chi ti chiederà come ti chiami».
Si era alla fine di ottobre oppure all’inizio di novembre del 1943. Io
non avevo ancora 5 anni quando per l’ennesima volta la mia mamma mi
fece questa raccomandazione, prima di varcare la soglia di un istituto
retto dalle Suore di San Giuseppe in via del Guarlone a Rovezzano. Lì
io restai con la mia nonna materna che però non doveva apparire tale,
tanto è vero che la madre superiora le fece indossare le vesti
dell’Ordine in modo da apparire agli estranei come fosse una suora.
Ricordo che c’erano molti bambini della mia età, qualcuno dormiva
all’interno in una camerata come la mia, altri la sera andavano a casa
per tornare l’indomani. Ricordo che c’erano anche degli adulti e pochi
ragazzi più grandi. Io rimasi lì con la mia nonna fino a dopo la
liberazione. Mio padre Raffaello Passigli, dopo parecchi mesi di
sofferenze per una gravissima malattia allora incurabile, era deceduto
il 3 di settembre, praticamente alla vigilia di quell’8 settembre che
avrebbe segnato un punto di svolta nel destino e nella vita di tutti
gli italiani.
La mia mamma, vedova a venticinque anni, aveva accettato di essere
nascosta in casa di parenti di una famiglia di Grassina nostra amica:
Elio Spicchi, operaio, la sua mamma e la moglie Gina con le loro due
bambine in tenerissima età, le fecero posto nel loro piccolo
appartamento in un seminterrato vicino a Piazza Gavinana. La accolsero
con calore e con amore disinteressato, dividendo con lei le limitate
risorse alimentari disponibili.
Non ricordo bene in quale momento, ma un giorno la mamma si ricongiunse
a me ed alla nonna dalle Suore di San Giuseppe; seppi successivamente
che la «caccia agli ebrei», anche a seguito di spiate, era sempre più
attiva e che era divenuto sempre più pericoloso e rischioso tenere
nascosti in casa propria degli ebrei. La madre superiora aveva perciò
accettato di accogliere una seconda persona adulta della mia famiglia,
anche se lo spazio ormai disponibile nell’istituto era ristretto. Anche
la mia mamma indossò le vesti dell’Ordine I miei nonni paterni Guido e
Virginia Passigli, di età intorno ai settantacinque anni, dopo la
lunghissima malattia di mio padre, la prognosi infausta della quale era
da loro ben conosciuta, erano psicologicamente, moralmente e
fisicamente distrutti. A questo si aggiunse il grande senso di
incertezza, di confusione generale che esplose in tutta Italia a
partire dall’8 settembre. Però ancora non si pensava minimamente al
pericolo per gli ebrei di essere catturati.
Essi non si sentivano più di vivere nella casa e nell’ambiente
fiorentino che aveva visto la lunghisima malattia, che si alternava a
periodi di quasi-normalità, e le sofferenze del loro figlio e pensarono
che avrebbe loro giovato di passare un periodo a Roma, dove viveva il
fratello del nonno e la sua famiglia. Così l’11 o il 12 di ottobre
partirono in treno per Roma, dove arrivarono dopo un viaggio disastroso
lungo dodici ore.
La tragica trappola del destino era ormai scattata. Il sabato 16
ottobre (il cosiddetto «sabato nero» degli ebrei romani) essi, credo
unici fiorentini, furono catturati dalle SS di Kappler nella prima
retata di ebrei di Roma. Si sa che tutti gli ebrei catturati furono
rinchiusi nel Collegio Militare; l’evento della loro partenza dipendeva
da quali parole sarebbero state pronunciate dall’altra parte del
Tevere.
Il convoglio lasciò la stazione Tiburtina il lunedì 18 ottobre e arrivò
dopo cinque interminabili giorni ad Auschwitz/Birkenau; la loro tragica
orrenda fine avvenne nella stessa giornata.
Tutto questo si seppe a Firenze solamente parecchio tempo dopo.
Schulim Vogelmann, nato in Polonia, arrivò quasi ventenne a Firenze
alla fine del 1921, per imparare il mestiere di tipografo, arte nobile
che lo avrebbe messo in contatto con il mondo accademico, con le
persone di cultura, e quindi ritenuto un lavoro che poteva dare
garanzie per il futuro. Qui era stato chiamato dal fratello, studente e
laureando in Lettere Classiche alla nostra università, ma anche docente
nell’allora esistente Collegio Rabbinico Italiano che aveva la sua sede
in Borgo Pinti, questo giovane, sportivo e pieno di energia, dopo aver
imparato la base del mestiere di compositore a mano in piccole
tipografie artigiane, si presentò a Leo Samuele Olschki, illuminato
uomo di cultura ed editore, ed anche valorizzatore della libreria di
antiquariato, ma soprattutto proprietario della Tipografia Giuntina,
dove forse c’era posto per lui. L’incontro fu proficuo, ed egli fu
assunto come operaio compositore. Quando alla fine del 1928 andò in
pensione il direttore, fu dato a lui quell’incarico. In quegli anni
aveva ottenuto la cittadinanza italiana.
Nel 1933 egli sposa Anna Disegni, figlia del rabbino di Torino, e nel
1935 nasce Sissel Emilia. Con le leggi razziali del 1938 Anna viene
allontanata dalla cattedra di Lettere Italiane dell’Istituto Duca
D’Aosta di via della Colonna; Sissel nel 1941 inizia la prima
elementare alla scuola ebraica accanto al Tempio di via Farini.
Nel 1940 Leo Samuele Olschki, prevedendo tempi molto difficili, decide
di lasciare Firenze e si trasferisce in Svizzera con la attività
editoriale e la libreria antiquaria, mentre mette in vendita la
tipografia. Schulim Vogelmann ne rimane direttore.
Alla fine del 1943 egli con Anna e Sissel di 8 anni tenta di andare in
Svizzera; essi viaggiano con documenti di identità falsi forniti
dall’avvocato Enrico Bocci. Vengono catturati alla frontiera e
riportati a Firenze, provvisoriamente internati per qualche settimana
nel campo di Villa La Selva al Ponte a Ema.
Verso la fine di gennaio 1944 vengono portati a Milano, con breve sosta
a San Vittore. Partono il 31 gennaio 1944 su un carro bestiame dal
binario 21 che si trova nel piano interrato della stazione centrale di
Milano; la destinazione è Auschwitz/Birkenau.
All’arrivo, dopo cinque giorni di viaggio drammatico, Anna con Sissel
vengono immediatamente selezionate per la camera a gas. Schulim viene
considerato abile al lavoro ed inizia per lui la durissima vita di
internato. Egli fu sempre molto avaro di racconti anche in famiglia;
quando qualcuno gli chiedeva dei particolari, egli rispondeva che si
era salvato grazie a quattro cose: la conoscenza della lingua tedesca,
la sua prestanza fisica di abile nuotatore, il suo mestiere di
tipografo, ma soprattutto una grande dose di fortuna nei momenti più
critici. Quando arrivò al campo egli pesava ottanta chili, quando ne
uscì pesava quaranta chili. Egli rientrò a Firenze nell’agosto del
1945, dove nessuno più si immaginava che sarebbe ritornato. Riprese con
energia il suo lavoro, rimettendo in piedi la attività praticamente
distrutta.
Nel dicembre 1946 egli conobbe la mia mamma; si raccontarono le loro
durissime tragiche esperienze, decisero di creare una nuova famiglia.
Io avrei così trovato quel padre che non avevo potuto avere. Nel 1948
nacque il mio fratello Daniel. Signor Presidente del Consiglio comunale
di Firenze, signori consiglieri. Io sono molto onorato di essere stato
chiamato oggi in questa solenne Seduta di Consiglio per parlarvi sul
Giorno della Memoria. Ho accolto subito la vostra richiesta ed ho
scelto che vi avrei parlato soprattutto di come la Shoah ha influito
sulla mia vita, cioè sulla vita di un qualsiasi bambino ebreo di
Firenze, che apparteneva ad una qualsiasi famiglia di questa città. Ho
pensato che questa testimonianza diretta potesse essere il giusto punto
di partenza per affrontare l’argomento. Ogni ebreo sopravvissuto alla
guerra potrebbe oggi raccontare la sua storia, le sue storie, come oggi
ho fatto io, storie tutte uguali e tutte diverse al tempo stesso.
Storie fatte di ansie e di paure, di amicizie e di solidarietà da parte
anche di estranei, storie di tragici errori e di ingenuità, storie di
tradimenti e di delazione da parte di falsi amici, storie di
disperazione estrema. Sono 248 gli ebrei della nostra comunità che
hanno trovato tragica morte per mano dei nazifascisti; ci sono altre
diverse decine di ebrei catturati casualmente a Firenze perché qui si
erano rifugiati provenienti da altre località europee dove le
persecuzioni e la loro cattura erano iniziate già nel 1941 e nel 1942.
I nomi di tutti loro sono scritti sulle lapidi nel giardino della
nostra sinagoga: tra di essi ci sono bambini anche in tenerissima età
ed anche gli anziani di ottanta e novanta anni che erano ospiti della
casa di riposo del viale che oggi è intitolato ad Amendola. Non posso
non citare
Carolina Lombroso Calò, che partorì la sua creatura durante il
trasporto ad Auschwitz/Birkenau.
Tutti loro furono strappati ai loro affetti, alle loro case, alle loro
attività e furono avviati verso la morte. E così avvenne in tutti i
paesi d’Europa per sei milioni di esseri umani. Il poeta yiddish
Yitzhak Katzenelson, originario della Bielorussia ma catturato in
Francia, anch’egli poi scomparso nel baratro di Birkenau, ci ha
lasciato un poema scritto nel campo di Vittel e fortunosamente
ritrovato perché lui lo aveva là sotterrato; il Canto IX “Ai cieli”
così esordisce:
… Cieli,
ditemi perché, perché!
Perché
dobbiamo essere tanto umiliati in questo mondo?
La terra,
sorda e muta, ha chiuso gli occhi…
Ma voi
cieli, voi dall’alto avete visto tutto e non siete crollati dalla
vergogna!
Non una
nuvola ha coperto il vostro vile azzurro, che come sempre mostrava il
suo falso splendore; il sole, rosso come un carnefice feroce, ha
continuato il suo corso; la luna, come una vecchia puttana, come una
peccatrice, è uscita di notte a passeggiare, e le stelle ammiccavano
luride come occhi di topi.
Basta! Non
voglio più guardarvi, non voglio più vedervi…
Primo Levi, nella introduzione alla edizione italiana, così commentava
questo canto: "Qui è Giobbe che parla, un Giobbe moderno più vero e
compiuto dell’antico, ferito a morte nelle sue cose più care, nella
famiglia e nella fede, orbo ormai dell’una e dell’altra. Ma alle
domande eterne del Giobbe antico si erano levate voci in risposta, le
voci prudenti e timorate dei «consolatori molesti», la voce sovrana del
Signore: alle domande del Giobbe moderno nessuno risponde, nessuna voce
esce dal turbine. Non c’è più un Dio nel grembo dei cieli «nulli e
vuoti», che assistono impassibili al compiersi del massacro insensato,
alla fine del popolo creatore di Dio".
Come è uso della tradizione ebraica quando si parla di defunti, diciamo
insieme: il loro ricordo sia di benedizione.
Guidobaldo
Passigli, presidente della Comunità Ebraica di
Firenze
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Qui Milano - “La mia Torah”,
patrimonio per tutti
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Un libro che non è
semplicemente un libro, ma un progetto che ha coinvolto tante persone e
istituzioni ebraiche differenti, dislocate in varie parti d’Italia (e
addirittura in Israele), con l’obiettivo di fare qualcosa per tutte le
Comunità ebraiche italiane e per i loro bambini. »
Rossella
Tercatin
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Qui Roma - L'artista israeliana Einat
Amir in mostra
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Sarà inaugurata questa sera
alle 18.30 al MLAC - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea,
della Sapienza la mostra dell'artista israeliana
Einat Amir, "Please", a cura di Giorgia Calò, con la collaborazione di
Alessia Tuzio, Cristina Nisticò, Geoffrey Di Giacomo e le studentesse
del Master individuale in Cura Critica...»
Lucilla Efrati
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Qui Roma - “Theodor Herzl, il Mazzini
d'Israele"
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“E' consolante per
un amico d'Israele quale io sono, leggere le pagine che Luigi Compagna
ha dedicato a Theodor Herzl, fondatore del sionismo. Lo è perché di
quel movimento ritenuto utopista e irreale, ma divenuto realtà storica
e politica, si parla ancora oggi e spesso malamente”...»
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Strano
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Terminati incongruamente i
discorsi sulla libertà, le dichiarazioni di Obama rientrate, evaporati
i distinguo tra Fratelli Musulmani e autentica rivolta popolare,
obliato il discernimento fra Facebook e Islam. Basta, stop, finito.
L'Egitto era un programma televisivo.
Strano, pensa il Tizio della Sera, che non abbiano pensato a mandare la
pubblicità durante la rivolta. Con il calcio lo fanno.
Il
Tizio della Sera
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
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