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 11 febbraio 2011 - 7 Adar 5771
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l'Unione informa
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Roberto Colombo
Roberto
Colombo,
rabbino 

Ho letto, non ricordo dove, che il presidente di un’assemblea ha ripreso un oratore particolarmente prolisso, generando la stizza dello stesso. Ciò accadde anche al tempo del grande Rabbì Israel Meir di Radin che disse: “Non si deve riprendere un oratore noioso ma, al contrario, lo si deve lodare. Addormentando il pubblico egli evita che la gente faccia maldicenza almeno durante il sonnellino”. 
Sonia
Brunetti
Luzzati,
pedagogista


Sonia Brunetti Luzzati
Uno spot per l’Italia”? Ci hanno pensato sette dodicenni torinesi  molto creativi che con l’aiuto dei loro insegnanti hanno  partecipato  al concorso nazionale bandito dal Comitato Italia 150 vincendo il primo premio. Manca poco più di un mese al 17 marzo. All’infuriare delle polemiche sull’apertura o chiusura delle scuole i ragazzi della media ebraica Emanuele Artom di Torino vi offrono questo piccolo contributo. Buona visione! 

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davar
Mediterraneo - Amici e nemici
Sergio MinerbiUn vecchio proverbio dice: “Dagli amici mi salvi Iddio, poiché dai nemici mi salvo io”. Il proverbio mi è venuto in mente osservando il comportamento di Barack Obama e quindi degli Stati Uniti nei riguardi della crisi egiziana. Da 18 giorni Hosni Mubarak, vecchio amico degli Stati Uniti, è costretto a battersi contro enormi manifestazioni cercando di riportare l’ordine senza cedere il potere ai Fratelli Mussulmani. Da Obama giungono solo ingiunzioni ad andarsene immediatamente in nome di una presunta democrazia. Ma quale democrazia, quella delle sommosse di Piazza Tahrir? Chi ci garantisce che esse esprimano l’opinione anche dei contadini della Valle del Nilo?.
Mubarak ha detto nel suo discorso di ieri sera: “Annuncio in parole semplici, senza equivoci, che non mi presenterò alle prossime elezioni presidenziali. Annuncio che rimarrò in questa carica per far fronte alle mie responsabilità, proteggere la Costituzione, finché i poteri siano trasferiti alla persona che verrà eletta in elezioni libere.”
Il portavoce dell’esercito ha  dichiarato venerdì che lo stato di emergenza verrà abolito e saranno indette le elezioni non appena le condizioni lo permetteranno. “Non potremo mantenere tutto ciò senza prima riportare l’ordine”.
Mubarak ha trasferito i suoi poteri al vicepresidente di recente nomina. Omar Suleiman. Però Mubarak non è ancora scomparso dal giro politico, e preferisce effettuare i cambiamenti a ritmo più lento di quanto ingiungono gli Stati Uniti, non solo per salvare il proprio onore ma anche per permettere quei contatti politici con l’opposizione che possono portare ai nuovi schieramenti. La condotta di Mubarak mi sembra dunque calma e pesata, cioè la migliore possibile in questi frangenti. Egli non è fuggito sul primo aereo disponibile ma è rimasto in Egitto, ha usato l’esercito ma chiedendogli di non sparare. L’Arabia Saudita, altra nota amica degli Stati Uniti, lo sostiene, mentre lo criticano vivamente l’Iran e la Turchia di Erdogan.
La Turchia ha passato il Rubicone e si schiera ormai con l’Hezbollah in Egitto, con Hamas a Gaza e coi Fratelli Mussulmani al Cairo. Ma da Washington non viene nessuna critica alla Turchia islamizzata. Sono convinto che l’Egitto riuscirà a uscire dalla crisi, ma non sono affatto sicuro che lo strano comportamento di Obama possa giovare agli Stati Uniti e ai loro veri amici in Medio Oriente.

Sergio Minerbi


Nathan Sharansky, 25 anni di libertà 
Gheula Canarutto NemniAnatoly Natan Sharansky. Lei è in arresto. Da domani non sarà più un uomo libero. Per i prossimi 13 anni la sua dimora fissa sarà una cella buia di un gulag sovietico. Non le è permesso tenere nessun oggetto privato. Nemmeno la mia raccolta di poesie popolari ebraiche? Soprattutto quella è vietata.
Privo della libertà di camminare, di pensare e di lottare, Natan Sharansky a una cosa non vuole rinunciare. Alla libertà di pregare. Quel piccolo libro di Tehilim, di Salmi, fatti pervenire per vie traverse dalla moglie Avital, sono la luce quotidiana in una cella priva di finestre. Quei caratteri microscopici quasi impossibili da leggere per un uomo tenuto al buio giorno e notte, sono identità, legame col passato, ossigeno per il presente. E unica speranza di avere un futuro.
Perché tutte la forza per combattere per la libertà deriva dalla mia identità ebraica, pensa dentro di sé Natan quando domanda per tre anni, senza sosta, che gli venga restituito il suo libro. Anche se camminerò nella valle dell’ombra della morte, non temerò il male perché sei con me D-o. Sei nelle frasi, nelle lettere, nelle parole. Mi leghi a mia madre che piange in Russia, a mio padre che non ha avuto un kaddish dopo morto, a mia moglie che lotta disperata per la mia liberazione.
La libertà arriva nove anni dopo. Venticinque anni fa, l’11 febbraio 1986
(nell'immagine Sharansky mano nella mano con l'allora ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres, nel momento dell'arrivo a Gerusalemme, dopo la liberazione). Anatoly Nathan Sharansky è un uomo libero. Di essere ebreo. Di aprire un libro di preghiera, un Tehillim, e di pregare. Non rischia più 100 giorni di cella di isolamento per lo sciopero della fame indetto per poter rientrare in possesso del suo libro.
Quando ti privano di tutto lotti per ciò che davvero vale. Quando hai tutto talvolta dimentichi per cosa vale la pena lottare.

Gheula Canarutto Nemni


Qui Roma - Herzl, Mazzini. Risorgimenti a confronto
RelatoriUn'equivalenza di diritti e uno stesso fondamento che accomuna il patriottismo europeo di matrice democratica e il Sionismo. Questa è la tesi forte, secondo il semiologo Ugo Volli, espressa da Luigi Compagna nel suo ultimo libro “Theodor Herzl, il Mazzini di Israele” presentato ieri al Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Un'analisi storica che è di grande attualità, vista la ricostruzione filosofica che è alla base del dibattito politico attualmente in essere sia in ambito ebraico che europeo. Volli, infatti, consigliando la lettura di questo volume che è anche una dettagliata biografia del fondatore del Sionismo politico, lo contrappone alle tesi di Shlomo Sand secondo il quale le Nazioni sono un'invenzione delle classi dominanti e quindi un'orribile violenza verso i popoli il cui esito naturale sono stati regimi nefasti quali il fascismo e il nazismo. Anche in Europa la maggioranza dei governi tende ad anteporre il multiculturalismo agli interessi nazionali.
Al contrario, il libro di Compagna legittima l'idea della la politica nazionale-statale democratica e liberale come una forma di arricchimento e non di chiusura verso gli altri com'era appunto concepita alla fine dell'Ottocento.
I due movimenti politici risorgimentali, quello italiano e quello ebraico, erano legati da un filo sottile, ma importante: Herzl si ispirò a Mazzini e i due personaggi erano simili, come hanno ricordato sia Volli sia Luciano Tas, giornalista e scrittore, che ha moderato la serata, non nel carattere o nella personalità, ma nelle loro posizioni e nei loro scopi. Entrambi miravano a creare una nazione in cui i diritti liberali potessero crescere in maniera equilibrata. Tanti furono gli ebrei che parteciparono alla nascita dello Stato italiano e alcuni esponenti intellettuali, così come alcune forze politiche, laiche liberali e democratiche, hanno offerto e offrono uno spazio naturale di dialogo con l'ebraismo.
Si trova d'accordo con Volli, la professoressa Ester Capuzzo che ricorda che anche Mazzini era legato all'ambiente ebraico, che in diverse sue opere cita la Bibbia, che vede Mosè come guida della Nazione verso la libertà. Mazzini era legato anche al sionismo europeo, attraverso gli stretti contatti con Moses Hess che a sua volta si era interessato al risorgimento italiano nel suo libro “Roma e Gerusalemme”. E così come Mazzini mirava a trasformare la questione italiana in un problema europeo, Herzl trasformò il problema ebraico in una questione di diritto internazionale.
Per il rav Roberto Della Rocca, direttore del dipartimento Educazione e Cultura dell'Ucei, il libro di Compagna fornisce un quadro completo del dibattito sul Sionismo. Un dibattito tipico del pluralismo ebraico in cui sono presenti diverse anime che Herzl volle includere nel suo progetto. Rav Kook, primo rabbino capo dell'Yishuv e fondatore del sionismo religioso, per esempio, era un suo seguace. Il sionismo moderno è un movimento politico nazionale osteggiato e combattuto dai charedim che vi vedono una sorta di eresia, ma è anche un rapporto unico e speciale tra il popolo ebraico e la propria terra che, come ricorda sempre rav Della Rocca, nasce quando Dio dice ad Abramo di lasciare la terra dei padri e che porta ogni ebreo a tendere verso Israele.

Elena Lattes


Qui Milano - Grandi religioni, il tempo del dialogo
Pubblico manifestazione“Nel Trattato dei Padri è scritto che colui che afferma: ‘Ciò che è mio è mio, ciò che è tuo è tuo’, è portatore di una posizione intermedia, di non belligeranza. Ma un’altra interpretazione sostiene che questa sia invece la visione del mondo di Sodoma. Perché quello che sembra essere un principio di buon senso viene accostato addirittura a una città così tristemente nota per la sua violenza?”. Partendo da questo interrogativo rav Giuseppe Laras è intervenuto al convegno “Grandi religioni: il tempo del dialogo” organizzato dal Sole 24 ORE. All’evento, moderato dal direttore Gianni Riotta hanno preso parte, oltre al Rabbino capo emerito della Comunità ebraica di Milano, Franco Giulio Brambilla, vescovo ausiliare di Milano per la cultura e l’ecumenismo, Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano, il pastore valdese Paolo Ricca, Giuliano Boccali, professore di Indologia dell’Università degli Studi di Milano, e Giovanni Filoramo, professore di Storia del cristianesimo a Torino, e curatore della collana “Le grandi religioni” che sarà in edicola col Sole a partire da domenica 13 febbraio.
“Un’interpretazione così forte - ha sottolineato rav Laras - vuole metterci in guardia sull’assoluta necessità del dialogo con l’altro, dello sforzarci di accoglierlo, cosa sempre difficile, perché ciascuno vuole bene a se stesso. Per questo motivo il Trattato prosegue dicendo che chi invece afferma ‘Ciò che è mio è tuo e ciò che è tuo, è mio’ contribuisce al consolidamento della società”.
Dialogo, confronto, accoglienza dell’altro, materiale e spirituale. Temi quanto mai attuali in un’epoca difficile come quella che sta attraversando il mondo dei primi anni del XXI secolo. “Secondo il mio parere la religione può e deve occupare lo spazio pubblico - ha detto in proposito monsignor Brambilla - A patto però che si sappia mantenere un’identità aperta, e il dialogo sia qualcosa di attivo, perché questo può aiutarci a ricreare un’etica all’interno della nostra società”. “Mantenere un’identità aperta è però più difficile di quello che sembra - ha puntualizzato Paolo Ricca - il confronto identitario non deve avere come oggetto soltanto il rapporto con gli altri, ma anche il nostro stesso modo d’essere, che è per natura in continuo divenire. E penso che dialogare significhi soprattutto ascoltare gli altri, più che dibattere”.
Il dialogo interreligioso diventa così uno strumento per garantire una società accogliente e non escludente, in cui non ci si limiti a tollerare che l’altro esista senza volerlo cancellare, ma si sia invece capaci di imparare qualcosa.
D’altra parte si affaccia sempre più forte anche il tema del dialogo “intrareligioso”, cioè quello tra i vari modi di concepire uno stesso credo. Questione da sempre molto delicata nel cristianesimo, e che oggi si fa particolarmente pressante nell’Islam, come ha ricordato una signora del pubblico, rivolgendosi al professor Allam. “Dal mio punto di vista il problema più grande dell’Islam odierno è che negli ultimi decenni abbiamo assistito a uno scollamento totale tra la religione come complesso normativo di precetti da adempiere e la sua dimensione storica e culturale - ha spiegato - In questo modo è stato distrutto il ponte che legava l’Islam alla cultura e il risultato è il fondamentalismo. Questo meccanismo porta gravi pericoli”.
Se la prima missione del dialogo interreligioso deve essere conoscere l’altro, l’intervento del professor Boccali è stato particolarmente utile, come hanno sottolineato in molti, perché ha permesso di sfatare alcuni luoghi comuni sull’induismo, che lo descrivono come un credo attento esclusivamente alla spiritualità. “L’uomo indù ha tre scopi da raggiungere nella vita: in gioventù deve perseguire il piacere, in età matura deve concentrarsi sulla carriera, e solo quando vede girare per casa il primo nipotino maschio, deve ritirarsi dagli affari per dedicarsi alla preghiera e alla meditazione” ha raccontato.
E proprio per consentire di conoscere meglio le religioni, e capire con quali valori esse possano contribuire all’etica della nostra società, Giovanni Filoramo ha auspicato che uno spazio dedicato al confronto tra i credi possa essere trovato anche nelle scuole.
“In giornate come queste, in cui noi giornalisti passiamo il tempo a vivere e raccontare la crisi di valori in cui siamo immersi - ha concluso Gianni Riotta -vedere tanta gente fermarsi fino a tardi a discutere di questi temi rappresenta davvero un’iniezione di fiducia”.

Rossella Tercatin


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pilpul
Paradossi
Anna SegreAlla fine del primo quadrimestre siamo tutti obbligati a predisporre attività di recupero per gli allievi insufficienti; a quanto mi risulta non è previsto che si possa distinguere tra chi ha davvero difficoltà e chi semplicemente non ha avuto voglia di studiare. Se il recupero avviene fuori dall’orario scolastico costa un sacco di soldi e non è per tutti (un allievo, desideroso di esercitarsi in vista dell’esame di stato, è arrivato a chiedermi di dargli 5 di latino scritto sulla pagella anziché 6 per poter partecipare!). Se non si vogliono dilapidare le già scarse risorse rimane l’opzione del cosiddetto recupero in itinere, cioè all’interno dell’orario scolastico: può così capitare che due o tre alunni insufficienti costringano venti o trenta compagni a interrompere il regolare svolgimento del programma. A volte si predispongono attività più interessanti (per esempio incontri con ospiti illustri) riservate a chi non ha insufficienze da recuperare. Nella mia scuola tra queste attività-premio c’è anche la relazione dei ragazzi che hanno partecipato al viaggio ad Auschwitz (a loro volta scelti tra quelli con i voti migliori in storia). Quali messaggi stiamo trasmettendo? Che è giusto spendere di più per chi si è impegnato di meno? Che una minoranza ha diritto a prevaricare sulla maggioranza? Che il monito di Primo Levi “Meditate che questo è stato” è rivolto esclusivamente a chi va bene a scuola? O forse, semplicemente, che la scuola, come la vita, talvolta è un po’ bizzarra.

Anna Segre, insegnante

L'Egitto, Obama e noi
AssaelLe vicende egiziane stanno comprensibilmente mettendo in allarme tutto il mondo ebraico, sia la parte che vive in Israele, sia chi abita la diaspora, universi, del resto, uniti da un vincolo indissolubile e da un comune destino. Lo scenario egiziano si interseca con i profondi, per non dire epocali, cambiamenti impressi dalla nostra fase storica, che stanno rideterminando gli equilibri politici mondiali. Dall’avanzata dei cosiddetti Paesi emergenti (ma ormai “emersi”) come India, Cina o Federazione Russa, alla novità impressa alla politica statunitense dalla figura di Barack Obama, catalizzatore delle speranze di un nuovo equilibrio mondiale, che l’amministrazione W. Bush non è, in fine, stata in grado di costruire. Vorrei, qui, proporre una riflessione a partire da un articolo di Fiamma Nirenstein, apparso su “Il Giornale”. Onde sgomberare il campo da qualunque riferimento personale, voglio subito dichiarare il rispetto per l’esperienza di vita in Israele della dottoressa Nirenstein durante anni molto, molto difficili. Cercherò, quindi, di affrontare gli argomenti motivando il mio dissenso politico. Nell’articolo citato, la Nirenstein critica apertamente la politica estera del governo statunitense, reo di non aver assunto una posizione decisa nei confronti, non solo delle ultime vicende, ma di tutta la questione mediorientale, strizzando l’occhio a regimi mossi da un autoritarismo senza scrupoli. Contraddizione ancor più grave, se si tiene conto che la figura dello stesso Obama ha incarnato come nessun altro leader mondiale l’ideale dei diritti umani, tanto da ricevere un inaspettato e probabilmente immeritato Nobel per la Pace nel 2009.
Penso che l’articolo de “Il Giornale” punti il dito su una contraddizione che effettivamente esista nella politica estera statunitense, da un lato impegnata ad abbandonare una politica di esportazione della democrazia di sapore vagamente imperialista, dall’altro sostenitrice dei diritti civili e delle libertà fondamentali di tutti gli individui. Vediamo, quindi, un Obama che accoglie Hu JinTao a Washington con gli onori riservati a un imperatore (si è visto addirittura Joe Biden andarlo a prendere alla scaletta dell’aereo), ma che, contemporaneamente, lamenta l’assenza di Liu Xiaobo alla cerimonia di consegna di quello stesso Nobel che l’anno precedente era toccato proprio a lui. Troviamo, come dice la stessa Fiamma Nirenstein, una presidenza americana impegnata da un lato a sostenere i manifestanti egiziani, dall’altro ad aprire la porta a regimi islamisti che predicano la sottomissione della donna e la riduzione della libertà di ciascuno. Rilevata la contraddizione, credo, però, sia il caso di rifletterla, evitando il rischio di interpretare le dinamiche attuali con categorie di “scontro di civiltà”, che, per la velocità con cui si muove oggi la storia, sembrano già superate e non più capaci di offrirci un quadro veritiero di quanto accade oggi nel mondo, non solo quello arabo. Obama ha ereditato il fallimento di un paradigma politico che interpretava la democrazia occidentale come naturale sbocco di ogni civiltà, in quanto indissolubilmente legata a quella libertà verso cui ogni individuo anela. Mi permetto di definire la politica di Bush fallimentare, non per un giudizio ideologico sulla validità o meno della nozione di “diritti umani”, ma valutando più modestamente le sue conseguenze, a partire dal lascito di due guerre da cui non si sa come uscire e che hanno fornito ulteriore pretesto a gruppi di matrice islamista per radicalizzare lo scontro con l’Occidente in vista di una lotta egemonica mirante ad accaparrarsi le masse arabe. Partendo da qui, Obama ha tentato di condurre una sorta di esame di coscienza della cultura occidentale, riesaminando la sua pretesa di superiorità e ponendosi nei confronti delle altre nazioni in un atteggiamento dialogico, sostenuto da una curiosità intellettuale che afferma implicitamente la validità di culture secolari, per non dire millenarie. Un atteggiamento alimentato ulteriormente dalla sua biografia, che ne ha fatto un uomo attraversato da diverse culture, da quella statunitense, a quella keniota, passando per l’esperienza indonesiana. Sembrava una strada già tracciata, che avrebbe risolto i problemi lasciati aperti dall’amministrazione precedente e aperto nuovi orizzonti diplomatici. Le cose, però, si sono presto rilevate più complicate del previsto, vedendo come la legittimazione di altri universi culturali entrava in palese contraddizione con quel rispetto per tutti gli individui che animava quella stessa scelta politica. È qui che, a mio parere, Obama è entrato in imbarazzo, oscillando fra polarità apparentemente inconciliabili. Mi pare, però, che la politica estera statunitense cominci a ricevere una prima elaborazione, proprio a partire da queste difficoltà: l’Occidente è disposto a rivedere l’atteggiamento culturale che si è posto alla base delle politiche imperiali degli ultimi due secoli (ma che altro è il processo di evangelizzazione del mondo se non l’anticipazione delle battaglie prima napoleoniche e poi bushane?) e ad offrire il proprio contributo per la costruzione di una nuova fase diplomatica, ma è chiaro che contribuirà a questo obiettivo offrendo la propria esperienza di vita che ha sostenuto la legittimità della libertà di ciascuno. Si tratta, come per ogni area del mondo, non di un astratto dato culturale che può rimuoversi con uno schiocco di vita, ma di una convinzione profonda, prodotta da 2500 anni di storia. Ma un ebreo sa bene che gli anni sono 5771. Certo, si tratta di una politica tutta da elaborare, ma abbiamo alternativa alla luce del mondo attuale? Del resto, questa situazione non mette in scena contraddizioni della nostra cultura su cui i filosofi (e ce ne fossero oggi disposti ad un impegno politico in questo senso) dibattono da secoli? Non è, quindi, un problema dettato da contingenze storiche, ma una questione strutturale che le attuali vicende riportano alla luce.
Attenzione a far prevalere comprensibili rabbie personali sulla capacità di analisi. È un errore che pagherà chi verrà dopo di noi.

Davide Assael, ricercatore

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notizieflash   rassegna stampa
Egitto, Benyamin Netanyahu:
“Israele auspica stabilità e pace”

Tel Aviv, 10 febbraio 

 
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“Auspichiamo in Egitto stabilità e continuità e che sia preservata la pace con Israele, quale che sia il govern al potere", ad affermarlo è stato il premier israeliano  Benyamin Netanyahu, che ha aggiunto: “Noi comunque - ha aggiunto - ci aspettiamo che il governo in Egitto sappia tutelare la pace con lo Stato israeliano”. Da fonti governative trapela comunque la preoccupazione sulla situazione, per quanto riguarda le relazioni fra Israele ed Egitto avrebbero affermato infatti: "Stiamo passando da un'era di stabilità a una di grande incertezza". 

 
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