La Comunità ebraica di
Milano ha ricordato un suo grande maestro, il rabbino David Schaumann.
Nato cent’anni fa nel villaggio di Kuty, in Italia dagli inizi degli
anni Trenta, rav Schaumann è diventato ben presto un punto di
riferimento della Comunità ebraica milanese, come giovane insegnante
negli anni bui della persecuzione razzista, e come preside della scuola
durante gli anni della ricostruzione e fino alla metà degli anni
Settanta, quando scomparve a soli 65 anni. La scuola ebraica cui rav
Schaumann ha dedicato anima e corpo è rimasta sempre la sua prima
missione di vita.
Nella giornata di studio a lui dedicata nella sinagoga di via
Guastalla, lo hanno ricordato il presidente e il rabbino capo della
Comunità, Roberto Jarach e rav Alfonso Arbib, il figlio Dani Schaumann,
Arturo Calosso e Marco Ottolenghi, rav Moshe Lazar e rav Elia Richetti.
Proprio rav Richetti, che di David Schaumann fu alunno, e che frequentò
anche fuori da scuola grazie all’amicizia che legava rav Schaumann a
suo nonno, il rabbino Ermanno Friedenthal, a capo della Comunità di
Milano negli anni della ricostruzione, ricorda alcuni episodi che
svelano molto della personalità del maestro. “A casa mia, rav Schaumann
era soprannominato ‘Rabbi ben haMidrash perché di qualunque argomento
si discutesse, lui era sempre pronto a tirare fuori un midrash”
racconta rav Richetti. È legato a rav Schaumann anche il suo ricordo di
un momento storico molto speciale, quello in cui i soldati israeliani
liberarono il Kotel nel 1967. “In classe seguivamo alla radio gli
sviluppi della situazione, quando il preside cominciò a parlare
all’interfono. In quel momento entrò in classe la bidella, la signora
Irma, per convocarmi in presidenza. Stupito, la seguii, e quando
arrivai, rav Schaumann annunciò all’interfono che avrei recitato la
Tefillah per lo Stato d’Israele. Mentre la leggevo, suonò la campanella
della ricreazione, ma a differenza del solito, nessuno fiatò. Soltanto
quando terminai, si levò in tutta la scuola un boato di gioia, e per il
resto della mattinata facemmo festa”.
Il rapporto che legava rav Schaumann ai suoi allievi è sempre stato
speciale. Grande ispiratore dell’eccellenza della scuola, si impegnò
per ottenere una sede più consona quando la palazzina di via Eupili
dimostrò di non essere più sufficiente per il numero di studenti. Nel
1961 il nuovo edificio fu pronto.
Sotto la guida di rav Schaumann la scuola continuò a prosperare, fino
ad ottenere, nel 1965, la medaglia d’oro assegnata dal Ministro della
Pubblica Istruzione, che poi riceverà anche il preside stesso nel 1970.
Molti dei ragazzi di allora, ricordano rav Schaumann per la sua
abitudine di concludere le loro visite all’ufficio del preside con
l’offerta di una caramella. Un’offerta in cui rav Schaumann celava un
piccolo segreto, che rav Richetti scoprì un giorno in cui, già
diplomato, passò a scuola a ritirare dei documenti e il preside lo
invitò a entrare nel suo ufficio. “Richetti, non sa cosa mi è capitato
- gli raccontò - Lei sa che quando i bambini che si sono comportati
male vengono mandati da me, offro loro una caramella, specificando che
se sono buoni sarà dolce, se sono cattivi, amara. Ebbene oggi un
bambino mi ha detto che la caramella era amara!”.
Rossella
Tercatin
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Il burka, la plastica e il volto delle donne
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Una
donna il cui volto appare coperto dal burka è una donna protetta,
difesa, venerata? Oppure è murata, chiusa, mortificata, decapitata? Per
quanto sia difficile rispondere, osservando da vicino la morfologia del
drappeggio, non si può fare a meno di vedere un guscio, anzi un
feretro. Dentro ci sarà una donna, ma sepolta viva. Questa
sensazione richiede tuttavia di essere chiarita e argomentata. Il tema
dell’uguaglianza dei diritti e dell’emancipazione potrebbe non bastare
più. Da più di trent’anni le donne occidentali hanno scoperto
l’importanza di salvaguardare, accanto al processo di liberazione,
anche la propria intangibile differenza. Emanciparsi non vuol dire
uniformarsi agli schemi maschili. Il problema del burka non si
riduce né alla vertenza legale sull’identificazione di chi lo porta, né
agli ostacoli di ordine pubblico che ne deriverebbero, e neppure alla
esibizione di simboli religiosi. La questione ha una profondità che non
deve sfuggire: riguarda il volto femminile, paesaggio deturpato della
nostra contemporaneità. Oggi qualcosa ne minaccia la fragilità
ontologica, ne impedisce il riconoscimento. C’è da chiedersi se il
volto plastificato, esito precario della chirurgia estetica, il cui
modello per eccellenza è quello esposto allo sguardo meccanico della
telecamera, non sia il polo opposto del volto coperto dal burka. In
entrambi i casi, sotto la maschera, il volto della donna è abolito,
condannato alla irrealtà. E mentre diviene irreale il volto, cancellato
nella sua abissale unicità, diviene irreale anche la donna e
soprattutto la sua dignità. Non è moralismo auspicare che si impari a
vedere corpo e volto femminili nella loro unità. La copertura del
volto è l’esclusione dalla reciprocità del «faccia a faccia». Alla
donna che passa per strada con il burka è consentito solo un «fianco a
fianco» e lei, a sua volta, consente solo un «fianco a fianco». Così
finisce per essere esclusa dalla comunità che si costituisce con gli
altri, quelli che le si fanno incontro, quelli che incontra negli spazi
pubblici. Il burka è uno dei modi (certo tra i più violenti) per
sancire l’esclusione della donna dal pubblico, per impedirne la
partecipazione. E se l’etica è anche un’ottica, a farne le spese
non è solo la donna, ma tutta la comunità. Perché ciascuno legge le
tracce del proprio volto nel volto degli altri. Non si può mai vedere
il proprio volto in modo immediato - tanto meno nello specchio che lo
riflette obliquamente. Il solo modo per vederlo è scrutarlo nel volto
di chi ci sta di fronte e ci guarda. Nella reciprocità si compie
l’esperienza umana fondamentale. Esclusa dal «faccia a faccia» la donna
non perde solo il volto e la dignità, ma rischia di de-umanizzarsi. Chi
percorre i sentieri della Torah sa che il termine «panim», cioè volti,
plurale singolarissimo che rinvia all’infinito in cui un volto si
apprende ed è appreso, indica il rapporto, l’incontro, è richiesta di
riconoscimento. Il volto della donna è come la meghillah della sua
anima, pergamena fragile che attende di essere accolta prima ancora di
essere letta e decifrata. La copertina del «Time», che esibiva
la diciottenne afgana Aisha con il naso mozzato, ha suscitato forti
reazioni non solo perché è un’immagine shock, ma perché in quel volto
deformato si riconosce la deformazione della nostra umanità.
Donatella
Di Cesare
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Quello
che abbiamo da dire
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Le vicende politiche che
stanno attraversando il nostro Paese nelle ultime settimane possono
offrire uno stimolo per una riflessione più generale riguardante il
ruolo delle comunità ebraiche della Diaspora. Una prima considerazione
viene offerta dal silenzio adottato da comunità di rilievo come,
appunto, quella ebraica, o quella islamica nei confronti delle vicende
personali che hanno visto protagonista il nostro Presidente del
Consiglio. Un silenzio tanto più significativo, se lo si accosti
all’esplicita richiesta di intervento rivolta da gran parte della
cittadinanza alla Chiesa cattolica, chiamata a rispondere sulla
coerenza fra la propria attività pastorale, con questo papato come noto
impostata su un conservatorismo volto a scongiurare il piano inclinato
della modernità, e le posizioni politiche assunte nei confronti delle
vicende parlamentari italiane. Coerenza a cui ogni istituzione
religiosa deve rimanere ancorata, pena la perdita di credibilità nei
confronti dei propri membri, oltre, elemento non secondario per un
approccio religioso, diffondere un’immagine cinica del potere in quanto
tale. Naturalmente, non mi sfugge il delicato punto d’equilibrio su cui
si installa l’azione politica di comunità che, per quanto più o meno
numerose, devono ancor meno offrire un’immagine di ingerenza nelle
faccende pubbliche, al fine di non alimentare ogni deriva xenofoba che
ricadrebbe in primo luogo sui propri iscritti. Ed ancor meno, mi sfugge
come questo delicato punto di equilibrio faccia parte costitutiva della
storia delle comunità ebraiche perché all’ebreo è, fino al 1948,
toccata la sorte di vivere straniero in terra straniera. Non credo,
però, che, nonostante queste enormi difficoltà, il mondo ebraico possa
non assumersi la responsabilità di pensare forse la più antica
dimensione della propria identità, in quanto, è sempre bene ricordarlo
ad ogni deriva statolatrica che si riverbera anzitutto contro Israele
rimuovendo la specificità della sua stessa natura, ancor prima di
Israel, l’ebreo è ‘ivri, colui che “attraversa” i confini etnici per
inaugurare un progetto universalistico capace di riconoscere eguali
diritti alle persone, al di là di specificità territoriali.
Personalmente, ritengo, come molti, che l’ebraismo si completi soltanto
in Israele, in quanto lì la cultura ebraica raggiunge una dimensione
comunitaria che la colloca a fondamento dello sviluppo identitario
delle persone. Ritengo, altresì, che se ogni ebreo dovesse trasferirsi
in Israele, non si potrebbe abitare tutti nei precisi confini indicati
dalla Torah, col rischio di tramutare l’universalismo ebraico in un
imperialismo cristiano che rimuove ogni specificità locale. Maggior
snaturamento di quello che, a mio giudizio, potrebbe definirsi il
“paradosso ebraico”, non potrebbe esistere. L’idea di una diaspora è,
dunque, necessaria e non a caso è il primo e mai eliso, elemento
identitario con cui l’ebreo ha dovuto confrontarsi. Forse, per
abituarci ad un destino e ad una responsabilità che mai si sarebbe
potuta rimuovere. Come definire, però, il compito etico della diaspora?
Come disinteresse per la vita civile del Paese in cui si vive col solo
obiettivo di preparare la strada per il “ritorno”? Oppure, come
un’immersione nella vita pubblica, come se il riferimento ad Israele
non facesse parte della nostra identità e noi non fossimo giudicati
anche per i comportamenti che Israele assume nel corso della sua
storia? Sono i due estremi del settarismo e dell’assimilazionismo in
cui è sempre oscillato l’ebraismo della diaspora, ancor prima del 1948,
semplicemente perché, anche non esistente, Israele andava “preparato”
ed ha, quindi, sempre agito come orizzonte etico delle nostre comunità.
Io credo che le comunità della galut, debbano porsi come una “siepe” a
protezione dello Stato ebraico, scongiurando nei propri paesi
l’affermarsi di ideali antisemiti che possano giustificare politiche
aggressive nei confronti di Israele, che si riversano poi sugli ebrei
che abitano il mondo in un legame che i logici definirebbero a doppio
nodo. Credo, dunque, a un “compito minimo”, ma da agire con fermezza e
senza sconti per nessuno, significasse anche un rischio di imprudenza
perché, se non si indica un obiettivo è allora inutile che una cosa
esista.
Tornando, in conclusione, ai nostri stimoli di partenza e sperando che
le mie parole non vadano intese in senso biecamente propagandistico,
vorrei porre l’attenzione sulla linea difensiva assunta da Silvio
Berlusconi per scagionarsi dalle note accuse che gli sono state rivolte
dalla magistratura milanese. Nel primo dei suoi videomessaggi, il
Presidente del Consiglio italiano, credo per giustificare sue assidue
frequentazioni con Lele Mora, personaggio della televisione già
accusato in passato di gestire un vero e proprio traffico di
prostituzione legato agli ambienti dello spettacolo, ha parlato di
un’antica amicizia e di affetto nei suoi confronti. Anche se forse non
tutti lo sanno, Lele Mora è un dichiarato filonazista (si badi bene,
non fascista!); nel celebre docu-film Videocracy, distribuito in tutto
il mondo e proiettato anche la Festival di Cannes, appare mentre mostra
in modo totalmente disinibito immagini del Duce, di svastiche, croci
celtiche, raduni nazisti, SS… che scorrono sullo schermo del suo
telefonino.
Non ho sentito una sola voce che denunciasse la frequentazione dei
palazzi del potere da parte di simili personaggi. Dove si può giungere
se si accetta anche questo? Non parlo del merito delle accuse che sono
state rivolte al Premier; anzi, dico esplicitamente che le istituzioni
ebraiche non devono e non possono emettere alcun giudizio in
rappresentanza dei loro membri. La Comunità ebraica, come ogni
comunità, è varia al proprio interno, comprendendo chi si schiera con
l’una o con l’altra posizione politica. Sarebbe oltretutto alquanto
strano che una tradizione che ha fatto del proprio vanto la pluralità
delle voci, si esprimesse in modo monolitico su argomenti che dividono
la pubblica opinione.
Penso, però, a quel “compito minimo” che deve essere agito al di là di
ogni comprensibile motivazione. Questa, credo, resti la responsabilità
di noi ebrei sparsi per il mondo. Siamo sempre alla sua altezza?.
Davide
Assael, ricercatore
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Sorgente
di vita: dal Medio Oriente
alla retata del Velodromo d’inverno
Roma, 14
febbraio 2011 |
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La puntata di Sorgente di vita, in replica questa sera, apre con un
servizio sull’Egitto: le dimissioni di Mubarak, l’incertezza della
situazione, le preoccupazioni di Israele sul rispetto del trattato di
pace, gli scenari possibili: ne parlano Stefano Silvestri, presidente
dell’Istituto Affari Internazionali e Menachem Gantz, corrispondente
dall’Italia del quotidiano israeliano Yedioth Aharonot...»
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