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17
febbraio
2011 - 13 Adar
5771 |
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Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma
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"...una
tradizione religiosa è frutto di commistioni, evoluzioni, digressioni.
Quando si ragiona del futuro dell'ebraismo, spesso con preoccupazione,
bisognerebbe tenerlo a mente: spesso si ottengono più risultati con
adattamento e flessibilità che non con una rassicurante rigidità". Così
scrive Tobia Zevi su l'Unione informa. Ma la rigidità è
tutt'altro che rassicurante, crea divisioni e resistenze e la nota di
Zevi lo dimostra. E se l'ebraismo si può permettere talvolta
adattamenti e flessibilità senza perdersi nel vuoto o negli ecumenismi
interculturali di qualsiasi tipo è perché c'è sempre qualcuno che
mantiene un'inquietante rigidità.
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Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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Alla lettera "L" troviamo
quattro parole.
L'insurrezione.
Quando una sommossa popolare inizia sotto l'impulso di una certa parte
della popolazione senza molta organizzazione ma con molta spontaneità,
ma i frutti finali della sommossa li raccoglie un'altra parte della
popolazione molto meglio irregimentata e con scopi completamente
diversi.
L'imprevedibilità.
Quando gli analisti del momento si lasciano trasportare dalle loro
ideologie, speranze, ambizioni e reti di interessi vissute da lontano,
e non da una sistematica, neutrale e impietosa conoscenza immediata
degli attori, dei loro obiettivi e delle loro capacità.
L'impotenza.
Quando la rivoluzione che è riuscita a rimuovere il tiranno è acefala -
perché non si è mai creata una dialettica politica e non ne esistono le
categorie mentali, le formazioni sociali, gli strumenti d'azione, i
leaders veramente rappresentativi - e non resta che delegare il potere
agli amici del tiranno uscente, o a un altro tiranno ancora peggiore.
L'ipocrisia.
Quando si critica sempre il tiranno uscente dopo che la sua debolezza
ha permesso la nascita dell'insurrezione, ma non lo si critica mai
prima, quando le sue bocche da fuoco puntate sulla folla impediscono
l'espressione della volontà popolare.
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I nomi
dell’emancipazione
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Il Centociquantesimo
anniversario dell’Unità d’Italia ripropone, insieme al discorso
sull’emancipazione degli ebrei e sul suo intreccio con il processo
risorgimentale, anche il dibattito ormai antico sull’“assimilazione”.
Come storica, vorrei intervenire sui nomi. I nomi intendo dati
all’emancipazione degli ebrei, il contesto in cui questi nomi si sono
affermati e il senso che hanno assunto, nella consapevolezza - una vera
e propria malattia professionale di noi storici - che i nomi sono delle
interpretazioni e in quanto tali nascono in un particolare contesto
storico, obbediscono a bisogni particolari.
Il più diffuso di questi nomi, “emancipazione”, appare per la prima
volta in riferimento agli ebrei già nella Germania della prima metà
dell’Ottocento, in seguito all’emancipazione dei cattolici irlandesi,
nel 1829. Anche il termine “assimilazione” appare nella prima metà del
XIX secolo e viene usato in alcune pagine di Heinrich Heine e di Moses
Hess, entrando nel dibattito politico però solo intorno agli anni ‘80
dell’Ottocento. Esso è, tra tutti i nomi usati per designare l’ingresso
degli ebrei nella società esterna, il più ambiguo e il più connotato
negativamente, perché suggerisce l’idea che tale inserzione abbia
provocato la perdita, veloce o progressiva, della loro identità
ebraica. Assai più recenti, degli ultimi decenni., sono invece i
termini, ormai molto usati, di integrazione, acculturazione,
modernizzazione, desunti dalle scienze sociali a designare l’entrata di
una minoranza, in questo caso quella ebraica, nella società esterna.
Nei loro studi sugli ebrei dei vari paesi d’Europa, gli storici fanno
molta attenzione a distinguere queste etichette e a precisare la natura
dei diversi processi, mentre nella vulgata storiografica sono termini
che vengono spesso usati in maniera indifferenziata a descrivere quelli
che sono in realtà processi di diversa natura, economico-sociale,
giuridico-politica, identitario-religiosa. Questa vulgata, pur
obbedendo a motivazioni diverse da quelle della storia risponde ad un
percorso storico assai specifico fatto dal mondo ebraico italiano nella
sua interpretazione del proprio passato: la costruzione di un paradigma
identitario dalla fusione, negli anni intorno all’inizio del Novecento,
di una precedente riflessione sulla necessità di tener saldo un
ebraismo passibile di disgregazione, frutto di timori soprattutto
religiosi e tale comunque da non mettere mai in discussione l’adesione
all’emancipazione e al processo risorgimentale, e la polemica
antiemancipatoria del sionismo, che vedeva in questa integrazione la
perdita dell’identità della diaspora. Si trattava di un modello
interpretativo della storia degli ebrei che si basava sulla netta
contrapposizione tra identità ebraica ed “assimilazione” e che è
rimasto a lungo egemone nella storiografia e nel senso comune
storiografico, fino a prender nuova linfa dalla riflessione del dopo
Shoah sull’inanità dell’emancipazione. Si tratta di interpretazioni che
hanno goduto di un’eccezionale vitalità nel mondo ebraico italiano,
anche se in anni recenti gli storici degli ebrei, a partire dalla
storiografia anglosassone ed israeliana, le hanno confutate e demolite
sulla base di attenti studi di storia sociale e culturale, fino a
proporre, come in uno studio sul caso tedesco dello storico Scott
Spector apparso nel 2006 sulla rivista americana Jewish History,
l’eliminazione pura e semplice del termine “assimilazione” dall’uso
storiografico: “Forget assimilation”, dimenticatevi dell’assimilazione.
Anna Foa,
storica
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Qui Torino - Il legame della musica
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La
Challah, o Chałka alla polacca, come simbolo dell’intreccio tra due
culture che per secoli hanno convissuto a stretto contatto,
influenzandosi reciprocamente: ebrei e Polonia è un binomio che,
nonostante la Shoah, non è possibile cancellare. E così i polacchi
continuano a trovare nelle proprie panetterie il tradizionale pane
ebraico intrecciato e dal sapore dolce; un tributo, consapevole o meno,
alle radici ebraiche di quella che fu una delle comunità più fiorenti e
numerose d’Europa. Altra e imperitura testimonianza del legame
ebraico-polacco è la musica, protagonista del mercoledì torinese con il
concerto organizzato dalla Comunità polacca di Torino in collaborazione
con la Comunità ebraica e il comune. Le note dei compositori e
musicisti ebrei polacchi Jozef Wieniawski, Ignacy Friedman e Aleksander
Tansman hanno, infatti, accompagnato gli spettatori in questo intreccio
di culture, tradizioni, suoni. “Abbiamo deciso - spiega il
console onorario di Polonia Ulrico Leiss - di raccontare in musica
questo rapporto secolare tra mondo polacco e mondo ebraico, in cui
ciascuno è debitore di qualcosa all’altro. Con Sarah Kaminski
(consigliere alla cultura della Comunità ebraica di Torino) abbiamo
pensato di proporre una chiave diversa da quella già nota al pubblico
italiano del kleizmer e dello Shtetl. E così - continua Leiss - si è
voluto raccontare dell’altro ebraismo polacco, quello colto borghese,
maggiormente assimilato, forse meno conosciuto ma ugualmente
importante”. Wieniawski, Friedman e Tansman, eseguiti ieri sera
dalla pianista Gaja Kunce, sono stati, a cavallo tra l’Ottocento e il
Novecento, l’espressione proprio di quella borghesia polacca un po’
romanica e nazionalista, musicalmente legata al mito di Chopin.
“Soprattutto Wieniawski e Friedman - spiega il musicologo Enrico Fubini
- traggono forte ispirazione dal celebre predecessore, riproponendo
mazurke, notturni, valzer. Tutti e tre sono stati, oltre a compositori,
dei grandi virtuosi del piano, addirittura Friedman pare abbia eseguito
oltre tremila concerti in tutto il mondo”. Oltre al cuore polacco e il
pianoforte, ad accomunarli c’è la stessa radice ebraica. “Questi
musicisti – continua Fubini – sono l’esempio di una realtà poco
conosciuta. Quando pensiamo agli ebrei di Polonia ci viene in mente
Singer con i suoi personaggi da barbe lunghe, caffettani e peot fino
alle spalle. Il mondo ebraico polacco, però, non era unidimensionale e
il retaggio alto borghese e nazionalista dei tre compositori ne è la
dimostrazione”. Ebrei ma anche viaggiatori, esuli, o
romanticamente “ebrei erranti”. Sia Wieniawski (1837-1912), quanto
Friedman (1882 - 1948) e Tansman (1897-1986), infatti, si esibirono in
tutta Europa, in America e il secondo persino in Australia, dove
peraltro morì, lontano dalle violenze della Seconda Guerra Mondiale. E
proprio per fuggire dalla furia nazista Tansman si rifugiò negli Stati
Uniti a New York. E lì dopo essersi definito per tanti anni un
compositore polacco, dichiarò di non esserlo più, ora era un
compositore ebreo polacco. Tansman, peraltro, è stato l’unico dei tre
ad attingere alla sua identità ebraica per comporre: scrisse, dopo
averla brevemente visitata, un’opera dedicata a Israele, un’altra al
profeta Isaia, ai dieci comandamenti o ancora l’opera “Eli, Eli, Lamma
Sabatchani in memoria di Auschwitz (1966)”. Nemmeno Friedman, un
enfant prodige del pianoforte, volle mai rinnegare il proprio legame
con la tradizione ebraica anche se non manifestò mai grande interesse
per la religione. Il suo stesso maestro, il cattolico polacco Theodor
Leschetizky, non faceva che ripetere che per essere un virtuoso del
pianoforte sono tre i requisiti indispensabili: “essere un enfant
prodige, essere slavi e, ultimo ma non meno importante, essere ebrei”.
Forse saranno le celebri parole del suo maestro a far dire a Friedman
una curiosa battuta. Si racconta, infatti, che alla domanda
sull’abilità di un suo giovanissimo alunno ebreo, egli rispose “un
prodigio dite? Come pianista ebreo avrebbe dovuto suonare meglio”. Tornando
alla serata, in apertura ha portato i suoi saluti l’assessore comunale
Giovanni Maria Ferraris, “senza il quale - ha ricordato Ulrico Leiss -
questa serata non sarebbe stata possibile”, che ha voluto sottolineare
l’importanza e la grande partecipazione alla vita cittadina torinese
delle due Comunità, ebraica e polacca. Comunità, come hanno ricordato
rispettivamente i presidenti Tullio Levi e Wanda Romer, che da tempo
hanno avviato una proficua collaborazione, basti ricordare il successo
dello scorso anno della mostra sul grande scrittore polacco Bruno
Shulz. E proprio da quella manifestazione, confessa Leiss, è venuta
l’idea del concerto. “Allora si avvicinò a me Giorgio Rosenthal che mi
espresse il suo interesse per il legame tra ebrei e Polonia,
chiedendomi se c’erano altri eventi in programma. E così, su quello
spunto, abbiamo iniziato a lavorare con Sarah e siamo arrivati al
concerto di stasera”.
Daniel Reichel
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L'ironia
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Il presidente Obama trova
ironico che mentre Teheran plaudiva alle manifestazioni egiziane contro
Mubarak, intanto reprimeva nel sangue le proteste del proprio paese.
Può anche darsi che la traduzione abbia lievemente tradito il senso
della frase e in realtà "ironico" fosse "buffo", oppure "curioso", o
addirittura "comico". Ma al di là delle risate, i differenti
aggettivi applicabili alla frase non cambiano la sostanza: stiamo
approdando ad una dimensione inedita della politica internazionale:
l'estetica estera. Con una punta di pedagogia, Obama ha fatto capire
che l'America si è accorta che l'Iran non è democratico come sembra.
Teheran è avvertita: un'altra bugia e vanno dal preside. Punto secondo,
con l'Amministrazione non si sgarra. Mano di budino, in guanto di
mozzarella.
Il
Tizio della Sera
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L'Ufficio scomodo
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L’ufficio per la promozione
della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni
fondate sulla razza o sull’origine etnica (UNAR, Ufficio Nazionale
Antidiscriminazioni Razziali), è un organismo istituito con decreto
legislativo nel 2003, presso il Ministero delle pari opportunità, in
conformità ad una specifica direttiva della Comunità Europea. Compito
della struttura è contribuire a rimuovere le discriminazioni e il
pregiudizio, attraverso rilevazione di dati, campagne di
sensibilizzazione e di prevenzione, segnalazioni agli enti locali.
L’idea, in altri termini, è quella di lavorare a garantire il principio
costituzionale della effettiva parità di trattamento delle persone (art
3 della Costituzione, ricordate?). Per esempio, si tratta di
intervenire laddove (come recentemente a Ciampino, vicino Roma) la
graduatoria comunale per l’assegnazione dei posti negli asili nido
preclude l’accesso agli immigrati, oppure dove (come a Pordenone) il
piano territoriale è in contrasto con la normativa antidiscriminatoria,
oppure ancora dove (come a Torino) appaiono manifesti che offrono
lavoro solo a italiani. E i casi non mancano certo, tanto che nel corso
del 2010 l’UNAR ha attivato circa 700 istruttorie per discriminazione
razziale, quasi il doppio che nel 2009.
Problema: tutto ciò configura un’attività eversiva, un progetto
destabilizzante, un pericolo per le istituzioni democratiche? Questo, i
senatori della Lega Nord, che fra le pieghe del decreto “Milleproroghe”
hanno in questi giorni proposto la soppressione dell’UNAR, non lo
dicono apertamente. Ma che si tratti secondo loro di un inammissibile
spreco di quattrini, questo sì, lo sostengono a chiare lettere,
frementi di indignazione. E forse, sotto sotto, c’è anche
qualcos’altro. “Questi oscuri burocrati da sei mesi a questa parte si
sono messi a fare politica - ha dichiarato fieramente uno degli alfieri
della chiusura - trasformandosi in maestrini dalla penna rossa. Qui
siete razzisti, lì xenofobi. Abusano del concetto di discriminazione
indiretta e pretendono una parificazione totale fra il cittadino
autoctono e l’extracomunitario ospite permanente”.
Pari diritti per davvero? Ma non scherziamo!
Enzo
Campelli, sociologo
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Peres
sprona Netanyahu
alla pace con i palestinesi
Gerusalemme,
16 febbraio 2011
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Leggi la rassegna |
Il presidente israeliano Shimon Peres, ha invitato il governo del Paese
a procedere per la via della pace. “Ci sono ancora i margini per
colmare le distanze fra israeliani e palestinesi e raggiungere un
accordo complessivo", ha affermato. Parlando dinanzi a una platea
influente come quella dei leader della Conferenza delle principali
organizzazioni ebraiche americane, riuniti a Gerusalemme, Peres ha
avuto parole di fuoco contro il leader iraniano, Mahmud Ahmadinejad,
accusato di servirsi strumentalmente della causa palestinese per
seminare "odio" e veleni antisemiti. Far ripartire il negoziato secondo
Peres è utile anche al fine di "togliere ogni pretesto" a chi potrebbe
sfruttare l'odierna situazione di stallo.
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italiano |
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