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6 marzo 2011 - 30 Adar 5771
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Benedetto Carucci Viterbi
Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

La nube che si posa sul tabernacolo, a dimostrazione della presenza di Dio in mezzo al popolo, è una sorta di "occhiale da sole" per proteggere chi deve entrarci dalla luminosità divina. La relazione con Dio - per quanto intima come nel caso di Mosè - non può mai prescindere da una certa misura di separazione. 


David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
In occasione del prossimo 8 marzo bisognerebbe trovare qualcosa da dire che non sembrasse troppo schiacciato sulla cronaca e che allo stesso tempo parlasse del nostro tempo presente in maniera pertinente. Qualcosa, in ogni caso che riguardi l’auspicabile parità tra uomo e donna. Per esempio si potrebbe dire che la parità tra uomo e donna sarà raggiunta, quando una donna stupida sarà chiamata a ricoprire un ruolo di rilievo. Questo, negli uomini già succede.

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davar
“Un altro passo nel dialogo”
Renzo Gattegna«Prosegue quel processo di riconciliazione iniziato nel 1965 con la dichiarazione Nostra aetate». Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei), intervistato da Gian Guido Vecchi sul «Corriere della Sera» del 4 marzo, commenta le anticipazioni dell’ultimo libro del Papa - il secondo volume del saggio di Benedetto XVI Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione - uscite sul nostro giornale. «Viene ribadita con forza - continua il presidente - l’infondatezza dell’accusa di deicidio che per secoli è stata usata per diffondere odio nei confronti degli ebrei».
Rispondendo alle nostre domande Gattegna aggiunge: «Nei rapporti fra ebraismo e cristianesimo molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare. Siamo in un mondo in continua evoluzione; la situazione di oggi non è più paragonabile con il passato. Siamo partiti da comuni origini; ai primordi del cristianesimo le catacombe di Roma venivano frequentate anche dagli ebrei. Oggi le sfide più impegnative del mondo vedono ebrei e cristiani dalla
Osservatore Romano, pagina 4stessa parte; ci avvicina il monoteismo, la lotta contro l’idolatria, intesa come la liberazione dell’umanità dalla tentazione dei falsi valori e da stili di vita che arrivano fino all’autolesionismo, la lotta contro il fanatismo e l’intolleranza, una chiara presa di posizione per la laicità dello Stato». È un punto che sta particolarmente a cuore al presidente dell’Ucei.
Ricordando quanto aveva scritto su «L’Osservatore Romano» del 10 novembre 2010 - nel quale auspicava coraggiosi e decisivi passi avanti nella reciproca comprensione verso un rapporto impostato sulla pari dignità e sul rispetto - Gattegna prosegue: «È indispensabile continuare così per un futuro di dialogo. Il passo ulteriore sta anche in un serio, impegnativo e approfondito lavoro teologico».
Analogo apprezzamento per il volume del Papa emerge dalle parole del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che in una lettera inviata a Benedetto XVI scrive: «La ringrazio per aver rigettato nel suo libro la falsa affermazione che è stata usata come base per l’odio contro gli ebrei nel corso di centinaia di anni».
E anche dall’Ambasciata d’Israele presso la Santa Sede giungono commenti positivi: «Accogliamo con tutto il cuore l’enfasi rimarcata dal Papa nel suo nuovo libro, in cui solleva gli ebrei dalla responsabilità per la morte di Gesù - si legge in un comunicato stampa - è una conferma della ben nota posizione del Papa a favore del Popolo Ebraico e dello Stato d’Israele. Non dovremmo dimenticare che senza la Nostra aetate non ci sarebbe stato un processo di riconciliazione tra ebrei e cattolici da una parte e Santa Sede e Israele dall’altra». Conclude l’ambasciatore Mordechay Lewy: «Speriamo che questo Suo atteggiamento positivo sia di ispirazione per più di un miliardo di cattolici sparsi in tutto il mondo».

Silvia Guidi, Osservatore Romano, 5 marzo 2011


Qui Ancona - Hollywood e gli ebrei
locandinaHollywood e gli ebrei: quale legame? E, come ci suggerisce il titolo del libro di Neal Gabler, “An Empire of their own: how the Jews Invented Hollywood”?
Nel '79 gli ebrei sono il 3 per cento della popolazione americana, eppure fra i comici se ne contano l'80 per cento! Nel '36, su 85 persone impegnate nella produzione, 53 sono ebrei.
A cosa è dovuto tanto successo?
Su questo interrogativo Enrico Fink ha guidato una piacevole e divertente serata ad Ancona, organizzata dal dipartimento Educazione e Cultura dell'Ucei insieme alla Comunità ebraica anconetana.
Tra una proiezione e l’altra, dalle scene più famose del cinema yiddish come del Der Dybuk, a quelle degli show di “varietà” di AL Jolson, da To Be or Not to Be di Ernst Lubitsch a Manhattan di Wood Allen, Enrico ha tracciato un lungo percorso da cui emerge almeno un filo rosso o una chiave di lettura.
Per gli ebrei, immigrati proprio quando il cinema americano diventava un'arte a se stante, Hollywood è stata per loro una homeland alternativa e creativa, una casa in cui sentirsi a proprio agio e dove rappresentare una parte di sé; ma quale? Ad essere rappresentato qui non è tanto l'”ebreo”, ma è l’immigrato spesso comicamente inadeguato, destinato a sostare e crescere in un territorio di frontiera, caratterizzato dall’equivoco e dall’ambivalenza di questa condizione, che aprono la strada a una nuova comicità colorita di un’allegra amarezza.
Gli ebrei qui hanno saputo fare dell’arte e della cultura che portavano nelle proprie valige, qualcosa di tremendamente “locale”, hanno saputo rappresentare una condizione tipica di una storia non solo ebraica, ma anche americana e comune agli altri connazionali. Per questo motivo è stato possibile “creare” un Woody Allen, così tanto newyorkese, abitante della grande terra e metropoli dei migranti, ma anche così ebreo. Non è stato solo merito del teatro yiddish quindi, ma è anche nell’aver saputo leggere creativamente la propria condizione, averla saputa raccontare e soprattutto condividere con i nuovi connazionali.

Ilana Bahbout

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pilpul
Davar acher - Insufficienza di prove
Ugo VolliSi sono lette nei giorni scorsi le anticipazioni del libro del papa che esonerano gli ebrei dal deicidio. Naturalmente da ebrei ne siamo lieti: hanno fatto certamente bene Netanyahu e le nostre autorità comunitarie a rallegrarsi, anche se in sostanza le stesse cose erano state dette con maggiore autorità da una celebre dichiarazione conciliare, la "Nostra Aetate" di quarant'anni fa: repetita juvant.
Se posso permettermi un'aggiunta personale, sono molto sollevato che il papa confermi che non mi consideri individualmente responsabile per un'esecuzione capitale di stile indubitabilmente romano avvenuta, a quanto sembra, 1978 anni fa; anzi per l'acclamazione che alcuni ebrei del tempo (o forse tutti, nei vangeli si dice anche questo, che però non si capisce come possa tecnicamente essere accaduto) ne avrebbero fatto allora, senza poterne peraltro decidere davvero dato che il giudice era romano. Il papa dice che erano solo alcuni, non tutto il popolo, il che è molto ragionevole per ragioni logistiche, e che questo comporta che non siamo tutti colpevoli, noi ebrei. Molto bene, è sempre bello che qualcuno riconosca la tua innocenza. Diciamo che mi sarei un po' meravigliato del contrario, dopo un'ottantina di generazioni dal fatto. Che dire, nel tempo capitano cose strane, magari anche papa Ratzinger potrebbe avere nel suo albero genealogico qualche goccia di sangue ebraico risalente chissà a otto o dodici secoli fa, come si può essere sicuri del contrario? Meglio applicare l'insufficienza di prove a tutti, a lui e anche a me.
In cambio di questa indulgenza, posso assicurare il pontefice che non lo ritengo personalmente responsabile dei crimini di Hitler, anche se i suoi padri e nonni facevano certamente parte del corpo elettorale che mise al potere quel criminale, più responsabili dunque comunque abbiano votato. Assicuro del resto che neppure se sono ad Atene mi guardo alle spalle pensando di stare nella città degli assassini di Socrate (la sua morta fu votata da un tribunale che in sostanza coincideva con l'assemblea della città), né a Parigi ho paura della frenesia ghigliottinatrice degli indigeni espressa maggioritariamente durante la Rivoluzione. E non serbo rancore agli abitanti della nostra capitale, solo perché gli inviati legali della stessa città condannarono circa 2000 anni fa a morti infami e dolorose molti ebrei fra cui Rabbi Akivà, i resistenti di Gerusalemme (quelli di Masada si suicidarono per non cadere nelle loro mani) e a quanto dicono le fonti cristiane anche Joshuah di Nazaret. Ecco, vi assicuro, non sono mai andato in giro per Campo de' Fiori gridando "assassini stragisti genocidi" ai passanti.
In realtà il brano di Ratzinger (e la "Nostra Aetate" prima di lui) merita rispetto proprio perché la tradizione cristiana - tutta la tradizione cristiana - non ha affatto applicato nei nostri confronti il criterio di buon senso della responsabilità personale di ogni delitto. Faccio un esempio protestante per spersonalizzare la cosa. Ancora nel 1948 in Germania il "consiglio dei fratelli" delle Chiese evangeliche protestanti (quelle per intenderci che al momento delle leggi razziali avevano espulso dalle chiese senza pietà e denunciato perfino i loro convertiti di origini ebraiche) non trovò miglior commento al proprio coinvolgimento nazista che dichiarare: "Crocifiggendo il Messia, Israele ha rifiutato la sua elezione e la sua vocazione [...] Che il tribunale di Dio segua Israele nel suo rifiuto fino ad oggi, è segno della sua pazienza [...] Israele sotto giudizio è la continua conferma della verità e dell'effettività della parola del Signore e il perenne ammonimento di Dio al suo popolo. Che Dio non si faccia schernire è il muto sermone che proviene dal destino degli ebrei". Capite, nel 1948, i capi della Chiesa protestante che era stata pesantemente complice del nazismo... Dei tedeschi che osano scrivere queste parole, quando Auschwitz è stato chiuso da tre anni, devono avere un gran pelo sullo stomaco; ma si sentivano giustificati proprio dalla leggenda che papa Benedetto rifiuta, e per questa smentita non possiamo non essergli grati.
E' giusto dire però che la dichiarazione del papa non è solo un po' storicamente tardiva, diciamo di una quindicina di secoli, ma anche insufficiente nel merito. Ho tratto la citazione qui sopra da un libro appena riedito da Einaudi, "Processo e morte di Gesù" scritto dal giudice israeliano esperto di diritto romano ed ebraico antico Chaim Cohn. Il libro di Cohn, uscito in ebraico nel '68 e in italiano nel 2000 con una bella prefazione di Zagrebelski, mostra che le versioni dei Vangeli sulla Passione non solo sono contraddittorie fra loro, come riconosce anche il papa, ma non reggono a un'analisi tecnico-giuridica, somigliano più alla propaganda che alla cronaca. Cohn dimostra inoltre che il processo, come l'esecuzione, è stato condotto secondo il diritto romano e che nessun ambiente ebraico, neppure quello delle "aristocrazie del Tempio" ancora incolpate da Ratzinger, poteva avere l'interesse e neppure il potere di decidere la morte di Gesù. Anzi Cohn ipotizza nell'azione del sinedrio un ultimo tentativo di salvataggio fallito per la fiera presa di responsabilità dell'imputato. Quanto alle grida sul sangue che dovrebbe ricadere su di noi, Cohn nota che è semplicemente inconcepibile dal punto di vista del diritto romano che un giudice facesse decidere un processo a una folla tumultuante, per lo più di non cittadini, com'erano gli ebrei di Gerusalemme.
In realtà la morte di Gesù va inquadrata nel pugno di ferro di una durissima potenza coloniale com'era Roma nei confronti dei sudditi ribelle, non certo in una scelta religiosa del popolo oppresso contro un leader religioso; l'ebraismo ha conosciuto tante pretese messianiche prima e dopo Gesù, da Bar Kochba a Shabbatai Zvi e non le ha mai trattate da reati. La responsabilità di quella condanna è ovviamente romana: una verità che il cristianesimo staccatosi dalla sua matrice ebraica e in procinto di diventare la religione ufficiale dell'impero romano non poteva accettare e che è stata velata nei diversi vangeli col tentativo di invertire le responsabilità fra oppressi ed oppressori, almeno sul piano morale e teologico, se non su quello storico. Una verità che ancora il Papa non riconosce.
L'attribuzione agli ebrei (e anche ad "alcuni" ebrei, come fa il papa) di una sentenza che secondo la lettera stessa dei vangeli fu pronunciata da un governatore romano monocratico che non rispondeva a nessuno se non all'imperatore, è una menzogna che ha suscitato un'infinita scia di sangue nella storia: qualcosa di cui la Chiesa ha bisogno di scusarsi, non ha certo l'innocenza necessaria per discolpare gli altri.
Non a caso Benedetto XVI cerca in questo suo scritto, senza badar troppo alla filologia, di privilegiare le versioni della storia della Passione meno aggressive nei confronti del popolo ebraico. Tutto sommato, la sua esegesi non ha lo scopo di assolvere gli ebrei dal "deicidio", ma piuttosto di esonerare i Vangeli dall'acredine antigiudaica che vi si trova e con ciò di difendere il cristianesimo dalle sue responsabilità nei confronti del popolo ebraico. Dal punto di vista storico-filologico e anche teologico, l'operazione è un po' goffa, perché è costretta a stabilire un gradiente di verità (o di falsità) fra testi di cui pure si difende l'ispirazione sacra, e anche perché non può, senza smentirsi, confessare pienamente il proprio fine (di esonerare il cristianesimo, piuttosto che l'ebraismo).
Nessuno ha titolo per accettare la richiesta di scuse implicita (in realtà molto implicita, direi nascosta) nel ragionamento papale, per tutte le orribili violenze che sono state compiute sugli ebrei col pretesto del deicidio, dai tempi di Costantino fino alla Shoah. Non vi potrà essere assoluzione in questa storia: non per il deicidio che non vi è stato, naturalmente, ma per tutte le stragi commesse in nome di esso, che sono consegnate alla storia, irrimediabili. Ma se il senso di questa dichiarazione non si legge come il tentativo di esonerare il cristianesimo dalla sua responsabilità, il che è storicamente impossibile; né di scusare "tutti gli ebrei" da un deicidio che avrebbero commesso solo alcuni, il che è falso e insensato; ma di dissuadere almeno in parte in futuro i cristiani dall'odio e dalla persecuzione cui si sono abbandonati in passato, dobbiamo certamente esserne grati.

Ugo Volli


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notizieflash   rassegna stampa
Netanyahu critica le Nazioni Unite.
Iran nella commissione diritti delle donne

Gerusalemme, 6 marzo 2011
 
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Della commissione delle Nazioni Unite e della recente inclusione dell'Iran nella commissione per lo “Status delle donne” ha parlato oggi il premier israeliano Benjamin Netanyahu nel corso della riunione settimanale del suo Consiglio dei ministri. “In Iran le donne continuano a essere lapidate, e i diritti umani vengono negati sia alle donne sia agli uomini - ha affermato il premier -  questo inclusione dimostra ignoranza”. Il premier ha quindi ricordato che di recente anche la Libia era un Paese membro della commissione per i diritti civili delle Nazioni Unite. "Da quella posizione - ha proseguito - la Libia ha condannato Israele mediante il Rapporto Goldstone" sull'operazione militare Piombo Fuso. "Allora fu il trionfo dell'assurdità, della menzogna e della ipocrisia. Oggi - ha rilevato Netanyahu - vediamo il vero volto della Libia".
 
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