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13 marzo 2011 - 7 Adar Shenì 5771
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Benedetto Carucci Viterbi
Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino


Ogni volta che Dio vuole parlare a Mosè, prima lo chiama. Il Talmud impara da questo che non bisogna rivolgersi ad una persona se prima non la si è chiamata: la comunicazione non deve essere casuale e anonima ma personale, intenzionale e affettuosa.



David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Stiamo entrando in una settimana in cui tutti parleranno dell'unità nazionale, dei propri sogni, di una realtà che avrebbero voluto e che non c'è. Altri diranno di aver subito e che sarebbe stato meglio se quell'evento non fosse avvenuto. Vorrei che tutti noi avessimo presente un dato: all'alba del 17 marzo 1861 la realtà del paese era 78 per cento di analfabeti con punte del 90 per cento in Calabria. Il dato presente tra gli ebrei era conforme. Bisognerebbe avere uno sguardo più comprensivo, ma anche umile, sulla lunga storia, tormentata, sanguinaria, anche discriminativa che ci precede e domandarsi se, visto il punto di partenza, si poteva produrre una qualità migliore di quella che abbiamo davanti a noi tutti i giorni. Senza dimenticare che in Italia oggi, marzo 2011, ci sono ancora sei milioni di analfabeti. 

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davar
Tsunami - Organizzazioni ebraiche già in campo per gli aiuti
terremoto giappone“Israele ha offerto il suo aiuto appena la notizia del terremoto è stata divulgata”. Queste le parole usate dal console giapponese in Israele Mitoshiko Shinomya per ringraziare il governo Netanyahu dell’immediata offerta di un corpo di emergenza finalizzato a operare sul suolo nipponico nelle operazioni di salvataggio e assistenza necessarie in seguito al terribile evento sismico che ha letteralmente devastato il paese asiatico. “Garantiamo il massimo supporto ai nostri amici giapponesi” dice Netanyahu alla stampa. Intanto molte ong israeliane ed ebraiche sono al lavoro per riproporre il modello di assistenza che ha già operato con successo in vari scenari internazionali di grande drammaticità tra cui Haiti dove l’efficienza dell’ospedale da campo impiantato dall’esercito israeliano nelle vicinanze di Port-au-Prince suscitò l’ammirazione del mondo intero. L’organizzazione no profit IsraAID ha annunciato l’invio in Giappone di sei medici professionali e di uno staff istruito a operare in scenari di estrema criticità. “Si tratta in buona parte - spiega il presidente di IsraAID Shachar Zahavi - di persone che nel passato hanno fatto parte dei nuclei di ricerca e soccorso delle forze di difesa israeliane”. Il gruppo raggiungerà il Giappone dalla Corea del Sud nelle prossime ore: resta ancora da capire dove verrà dislocato e quali operazioni gli verranno affidate. “Al momento - prosegue Zahavi - siamo ancora in attesa di capire quale sarà il nostro ruolo. In contesti come quello attuale una delle principali esigenze è la bonifica delle acque. Va detto però che i giapponesi stanno affrontando il problema con grande professionalità. Se si renderà necessario in Israele ci sono comunque numerosi altri gruppi di soccorso pronti a partire”. Nel corso del weekend numerosi enti ebraici hanno manifestato solidarietà per le vittime del disastro naturale annunciando l’invio di uomini in loco e lanciando alcune raccolte fondi per aiutare chi versa in condizioni di bisogno. Tra le associazioni più attive in queste ore figurano American Jewish Committee e Jewish Federations of North America. Entrambe hanno assicurato il massimo sostegno possibile in termini di uomini e risorse economiche al pari dell’American Jewish Joint Distribuion Committee che ha provveduto a contattare le autorità giapponesi offrendo la propria consolidata esperienza nel campo. “In questi momenti di lutto le nostre preghiere e i nostri pensieri - dice il capo esecutivo del JDC Steven Schwager - vanno alle famiglie delle vittime del terremoto. Come abbiamo già fatto ad Haiti e in occasione dello tsunami del 2004 faremo di tutto per collaborare alle operazioni di salvataggio avvalendoci di quanto appreso in queste precedenti e tragiche esperienze”. Alla conclusione dello Shabbat anche due team dell’ente di soccorso Zaka si sono immediatamente attivate per partire con destinazione Giappone. Ad attenderli uno scenario devastante in cui potrebbero essere rimasti tragicamente coinvolti anche sei cittadini israeliani di cui non si hanno ancora notizie a quanto riferiscono le autorità di Gerusalemme.

Adam Smulevich


Qui Roma - Il ricordo di Tullia Calabi Zevi z.l.
Tullia ZeviL'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane dedicherà oggi, alle 18 nella sala del Centro bibliografico UCEI, un incontro al ricordo di Tullia Zevi z.l., in cui fra gli altri interverranno il presidente Renzo Gattegna, l'ex vicepresidente UCEI Dario Tedeschi, i giornalisti Josè Luis Gotor ed Ezio Mauro, il presidente della Comunità di Sant'Egidio Marco Impagliazzo e la psicoanalista Silvia Rossellini. Pagine Ebraiche di questo mese dedica a Tullia Zevi il testo che segue.
All'incontro del Centro bibliografico verrà proiettata un'intervista video al senatore Oscar Luigi Scalfaro e un'intervista che Sorgente di Vita fece a Tullia Zevi. 



Tullia Zevi: “Le minoranze sono il sale della democrazia”


Tullia Zevi e il presidente Ciampi“La famiglia è l’ubi consistam, ti dà lo spessore, ti dà il senso di appartenenza, ti dà un senso di dare e ricevere, ti dà tutto la famiglia... Con i nipoti ho un rapporto meraviglioso, sono la vita che continua, l’allegria, con il loro interesse per tutte le cose”. Non fu un’intervista come le altre, né fu un’intervista semplice: era il gennaio 2006 e l’obiettivo era quello di realizzare un profilo di Tullia Zevi per un servizio di Sorgente di vita. Ci accolse con la consueta cordialità nella bella casa in via del Portico d’Ottavia: ero già stata lì molte volte, ma mi colpì ancora una volta per l’originalità e l’eleganza.
Mentre il cameraman e il fonico preparavano il set e le luci ci intrattenemmo con lei insieme ad Alessandra Di Marco, la collega regista della Rai. Mi chiese un consiglio sulla blusa da indossare - meglio quella sul viola- blu? Quella rosa di seta “spara” troppo in Tv? E quali orecchini? Poi un po’ di cipria per togliere il lucido dal viso. Civetterie di una signora di 87 anni. Più che giornalistica o televisiva l’atmosfera era salottiera. E più che un’intervista fu un racconto.
“Mamma era una Bassani, cugina di Giorgio Bassani, e la sua famiglia era più tradizionale di quella di mio padre. Papà (l’avvocato Giuseppe Calabi ) era un laico liberale, era stato anche massone, repubblicano. Grazie a lui in tempo di fascismo mi sono accorta molto presto che esisteva anche l’antifascismo e che gli ebrei erano numerosi nelle sue fila. Avevano formato un gruppo proprio intorno a Toscanini, suo caro amico, e si riunivano in una libreria, la Baldini e Castoldi, in Galleria”.
“In casa, eravamo quattro figli (Enzo, Ornella, Tullia e Eugenio) e a tavola, di ritorno da scuola, parlavamo di tutto. Un giorno - raccontava divertita la signora Zevi, imitando le voci dei familiari - mio fratello Eugenio, che essendo più piccolo era più sensibile alla propaganda fascista, disse: ‘papà ma tu non credi che Mussolini sia un grand’uomo?’ e papà guardando sul piatto rispose 'per adesso non ha fatto che delle fesserie'’’.
Fu la prima lezione di politica, in una famiglia che cercava di dare il meglio a tutti e quattro i figli: liceo, università, educazione musicale. “Suonavamo tutti uno strumento: dopo i compiti, nel tardo pomeriggio, mio fratello suonava il piano, mia sorella maggiore l’organo che, se Dio vuole, andava a suonare nelle chiese; io suonavo l’arpa e mio fratello piccolo il violino. Suonavamo tutti contemporaneamente, ognuno nella sua stanza, una vera cacofonia. E quindi botte e musica, si suonava e si litigava”.
L’educazione dei fratelli Calabi comprendeva anche lo studio delle lingue. Per questo nell’estate del ‘38, alla promulgazione dei primi provvedimenti sulla razza, erano in villeggiatura in Svizzera dove frequentavano anche dei corsi. “Stavamo facendo le valigie per tornare a Milano quando papà telegrafa ‘aspettatemi che vi raggiungo’. Arriva e dice ‘non si torna più’. Toscanini lo aveva avvisato. Gli aveva detto, parlavano in milanese tra di loro, ‘Pepin, ti te ciapen.’ Peppino, guarda che ti pigliano”.
Rimasero in Svizzera, a Lugano, poi un anno in Francia, dove frequentarono i gruppi dei fuoriusciti antifascisti. E nell’estate del '39 si imbarcarono dal porto di Le Havre verso New York. Tullia interruppe gli studi universitari e si iscrisse al conservatorio. “In America si capì subito che bisognava lavorare. Per me l’arpa divenne uno strumento di lavoro: suonai in orchestra, con Frank Sinatra e con Leonard Bernstein. Non era difficile trovare lavoro, molti musicisti uomini erano in guerra, e si guadagnava bene. Gli spettacoli di Sinatra erano abbinati a un film, lui cantava tra una proiezione e l’altra. Prima di ogni spettacolo entravo nella piattaforma dell’orchestra per accordare. Una volta una ragazzina si infilò come un gatto e mi disse ‘ti devo toccare perché tu sei vicina a Sinatra’. ‘Ma sei matta’ dissi io. Conobbi allora per la prima volta il fanatismo collettivo per un divo dello spettacolo. Che poi Sinatra era un ometto da niente... Quella di Bernstein invece era un’orchestra seria, sinfonica. Lui era un uomo di grande cordialità, molto serio, molto coscienzioso, anche un bravissimo pianista, con lui ho imparato molto”.
Il racconto di Tullia Zevi proseguiva con vividi ricordi, i momenti importanti del passato fissati per sempre. Così ricordava l’incontro con Bruno Zevi a casa della cugina Serena, sposata con Franco Modigliani, premio Nobel per l’economia nel 1985. “Mi avevano detto ‘vieni a cena da noi, c’è una persona che è appena arrivata dall’Italia’; quella persona era Bruno Zevi. Bruno sosteneva che quando dissero ‘adesso deve arrivare Tullia Calabi’ lui avesse detto ‘adesso arriva mia moglie’: ma nemmeno ci conoscevamo. Ci siamo sposati nella sinagoga spagnola-portoghese sulla Settantesima strada nel ‘40”. Insieme gli Zevi erano entrati nella Mazzini Society e avevano lavorato per la propaganda antifascista. In quel periodo Tullia iniziò a collaborare con una radio a onde corte rivolta soprattutto agli italo-americani, e poi con la Nbc nelle trasmissioni per l’Italia e per la Resistenza. Tornò nell’Europa liberata nel ‘46 come inviata del Religious News Service al processo di Norimberga. La musicista si era ormai trasformata in giornalista.
Al ritorno in Italia nacquero i figli, Adachiara e Luca: famiglia, professione, impegni sociali, un equilibrio difficile da mantenere.“Facevo i salti mortali. Avevo capito che l’espressione di me stessa passava attraverso il lavoro; l’autonomia, l’indipendenza, la capacità di crescere delle donne, specialmente se avevano impegni familiari, passava attraverso il lavoro”. Corrispondente di varie testate e del quotidiano israeliano Maariv, Tullia Zevi viaggiava in tutto il mondo. Seguì il processo Eichmann, incontrò Golda Meir e Ben Gurion, papi e presidenti. Intervistò Krushev, Nasser, Bourghiba, Senghor e Hussein di Giordania.“Hussein aveva accettato di darmi un’intervista sapendo benissimo chi ero. Era consapevole che sarebbe stata pubblicata nei giornali di Israele: fu un segno che si potevano aprire degli spiragli, capii che bisognava cercare il dialogo con gli arabi”. Parallelamente al lavoro di giornalista negli anni ‘50 Tullia Zevi iniziò il suo impegno nel mondo ebraico italiano, spinta da Raffaele Cantoni, allora presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. “Un grande ebreo e un grande antifascista che operò il passaggio dell’ebraismo dal periodo fascista verso una società democratica. Lui fu il mio grande elettore al secondo congresso dell’Unione dopo la guerra (nel 1951): andava dicendo, in dialetto veneziano ‘votè, votè per Tullia, la zè una dona ma la capisse tutto’”. Fu l’inizio di un lunghissimo impegno nell’Unione, prima come consigliere, poi come vicepresidente e, dal 1983 al 1998, come presidente.
In quegli anni la signora Zevi arrivava quasi ogni giorno all’Unione con un appunto scritto a mano o battuto a macchina per un comunicato o un discorso. E insieme ad Emanuele Ascarelli correggevano, riscrivevano. Attenta a ogni parola, con competenza e diplomazia cercava di conciliare le varie anime dell’ebraismo italiano, fronteggiando anche i numerosi oppositori interni. Come Ufficio stampa e come redazione di Sorgente di vita abbiamo avuto con la signora Zevi una consuetudine professionale fatta anche di stima e di affetto. Da lei abbiamo imparato molto, osservandola di fronte a vicende gravi e importanti, dall’attentato alla sinagoga di Roma alla visita di papa Wojtyla, dalla fuga di Kappler al processo Priebke.
Uno dei momenti più importanti fu la firma dell’Intesa tra l’Unione delle Comunità e lo Stato italiano, con il presidente del Consiglio Bettino Craxi il 27 febbraio 1987, che lei ricordava così: “Craxi era un grande decisionista, un uomo molto spicciativo, capì che l’Intesa era una cosa necessaria. Furono molto interessanti anche gli scambi di vedute con i valdesi (che avevano già firmato l’Intesa con lo Stato). Ricordo che presi tutti i nostri testi di elaborazione dell’Intesa e andai a Torre Pellice. Allora c’era un grande giurista, Giorgio Peyrot, e con lui studiammo articolo per articolo mettendo a confronto le due intese. Eravamo consapevoli che in un paese al 98 per cento cattolico l’affermazione dell’esistenza dei diritti e dei doveri di altre confessioni religiose era molto importante”.
Riflettendo sulla situazione dell’ebraismo italiano aggiunse: “L’impressione è che ci sia un arricchimento della consapevolezza del nostro ebraismo. Specialmente nelle giovani generazioni c’è un interesse in crescita. Io vedo la differenza tra l’impegno nell’ebraismo della generazione dei miei figli e quella dei miei nipoti”. “Seguo con estremo interesse e molto amore la vitalità di questa minoranza che si rinnova continuamente. Penso che questa continuità dell’ebraismo sia una grande lezione, questa capacità di esistenza, di coesistenza e di tenacia nel mantenere i propri valori. Nel mio impegno nell’ebraismo ho capito che le minoranze sono il sale della democrazia perché attraverso il modo in cui vengono recepite, accettate e garantite le minoranze si misura la temperatura della democrazia di un paese”.

Piera Di Segni, Pagine Ebraiche, marzo 2011

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pilpul
Davar Acher - La nostra solitudine 
Ugo VolliLeggendo le notizie della strage di Itamar, mi tornano in mente immagini viste da bambino, più di cinquant'anni fa, prima dell'"occupazione": terroristi venuti dall'Egitto o dalla Giordania, che entravano nelle case e sterminavano i nostri fratelli, anche loro "coloni"; e prima ancora le stragi di Ebron e Zfat negli anni venti, con i bimbi estratti dal ventre della madre per ammazzarli meglio; e le Olimpiadi di Monaco e le esecuzioni naziste di vecchi, bambini, famiglie intere, fatte sul posto con la volonterosa collaborazione di ucraini e lituani, polacchi e ruteni, prima che i campi di sterminio entrassero a regime; e i pogrom dei tartari e l'Inquisizione e le stragi arabe del Medioevo.
Ma se si resiste alla vertigine dell'orrore e si resta al quadro di Eretz Israel, resta una guerra condotta con una ferocia inaudita, che non ha pietà o rispetto di nulla e di nessuno, che coinvolge volentieri gli innocenti, colpevoli però di essere della razza nemica.
Resta anche la straordinaria freddezza di fronte al crimine dell'Occidente che distoglie lo sguardo e certo non si scandalizza per cinque ebrei sgozzati come di una casa costruita in una "colonia" o di una sentenza di tribunale che restituisce la sua proprietà a un ebreo in un quartiere che si vuole per qualche ragione "arabo". 
Si dice che quella palestinese è una causa di liberazione nazionale, una sorta di Risorgimento: ma chi potrebbe immaginare Garibaldi o Bixio o perfino Oberdan, che effettivamente progettò un atto terrorista contro l'Imperatore Francesco Giuseppe, entrare in una casa austriaca e sterminare una famiglia? Si parla di "Resistenza" ma qualcuno è in grado di pensare a Longo o Galimberti che prendono un neonato e lo sgozzano con le loro mani, come un agnello?
C'è qualcosa di così orrendamente sanguinario in questo gesto di sgozzare (che è rituale, lo stesso che fu applicato a Pearle e a Fabrizio Quattrocchi, l'italiano sequestrato in Iraq e a tanti altri). E' la trasformazione del nemico in bestia, la sua eliminazione rituale oltre che fisica. Al valore rituale del sangue versato corrisponde una esaltazione del gesto: essere "martiri", cioè assassini è un onore vicino alla santità. Ai martiri non solo la "violenta" Hamas, ma anche la "pacifica" Autorità Palestinese consacra piazze, scuole, impianti sportivi, li esalta nei libri di scuola e in televisione, educa i bambini a imitarli. Con gli accordi di Oslo l'OLP si era impegnato a smetterla, ma non l'ha mai fatto. Su questo Palestinian Media Watch ha raccolto una documentazione imponente.
E' possibile fare la pace con gente del genere (che considera "occupazione" tutta Israele non solo la Giudea e la Samaria? Io non credo. Non per il tempo prevedibile, come pensare di avere per "buoni vicini" una popolazione che ha questo culto della morte, come fare con loro "ponti e non muri"? Ma tutto il mondo la vuole, chiede insistentemente "concessioni", abbattimenti di "muri", rinunce a strumenti difensivi come i check point o la barriera di sicurezza, aperture delle zone come Gaza, dove si annidano i terroristi più organizzati.
Alcuni ci dicono apertamente che "Israele è una parentesi destinata a chiudersi" (Chirac) o che gli ebrei debbono "tornare a casa in Europa", dove peraltro sono sempre meno benvenuti. Sono gli stessi che titolano sui "coloni" uccisi, come se abitare in una casa al di là della linea armistiziale del '49 fosse un crimine capitale.
In tutto questo vi è di nuovo una grande, terribile solitudine ebraica, paragonabile a quella delle persecuzioni cattoliche, o della seconda guerra mondiale, quando sembrava non esserci davvero dove andare. E' raggelante il sostanziale silenzio, la freddezza con cui i giornali italiani, i politici europei, i grandi intellettuali che parlano contro "la violenza israeliana" e la paragonano al nazismo, per non parlare dell'opinione pubblica araba, per esempio delle caramelle distribuite a Gaza. Non si può non pensare che, come la generazione dei nostri padri e nonni, anche la nostra è soggetta a una guerra di distruzione (contro gli ebrei, non "solo" contro Israele). E che il passato non ha insegnato nulla anche ai più volonterosi e buonisti democratici, dolenti per la Shoah ma silenziosi su Israele, che siamo di nuovo terribilmente soli ad affrontarla.

Ugo Volli


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notizieflash   rassegna stampa
Sorgente di vita - Le rivolte in Libia
viste dagli ebrei fuggiti nel '67

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Le  memorie, le emozioni e le suggestioni di alcuni ebrei fuggiti dalla Libia nel ’67  di fronte alle vicende di oggi nel primo servizio della puntata di Sorgente di vita di domenica 13 marzo. “Non avrai altre divinità al mio cospetto…”: con il secondo dei Dieci Comandamenti continua la serie di servizi dedicata al decalogo, con la lettura del testo biblico affidata all’attore Paolo Ferrari, e il commento a più voci che varia di volta in volta. Sul secondo comandamento intervengono lo studioso Haim Baharier e il professor Stefano Zecchi. Segue la grande festa nella sinagoga di Via Guastalla a Milano in occasione del ritorno degli argenti del tempio rubati...
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