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29 marzo 2011 - 23 Adar Shenì 5771
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Roberto Della Rocca
Roberto
Della Rocca,
rabbino

In copertina dell’ultimo numero di Pagine Ebraiche compare la foto di un giovane ebreo romano con il costume di un legionario romano che indossa i Tefillìn assistito da un altro ebreo vestito invece da charedì. L’immagine seppur fortemente suggestiva,  nell’accoppiamento paradossale di due ebrei con storie e culture profondamente differenti che testimoniano assieme la sopravvivenza di una vitalità ebraica in quegli stessi luoghi dove un grande impero, di cui oggi restano solo reliquie e vestigia, ci trascinava schiavi in catene, mi ha suscitato inquietanti interrogativi. Con quegli stessi abiti i legionari romani ci hanno inflitto terribili persecuzioni sfociate nella distruzione del Bet Ha Miqdash e nel conseguente esilio che ancora viviamo. C’è molta differenza tra quella divisa e quella dei nostri carnefici nazisti? O è solo una differenza nella distanza del tempo e nella sedimentazione del dolore e nell’elaborazione del lutto? Sappiamo bene che alcuni giovani ebrei romani si trovano costretti a indossare quei costumi, talvolta con genuina inconsapevolezza per ciò che rappresentano, per guadagnarsi la pagnotta. Mi fa rabbrividire l’idea che un giorno i nostri nipoti possano indossare la divisa di chi ha ucciso barbaramente i nostri nonni e causato terribili sofferenze ai nostri genitori, anche se per puro folklore o perché spinti da necessità economiche. Come Comunità non dovremmo forse preoccuparci di prospettare ai nostri giovani altre soluzioni lavorative affinché non debbano più trovarsi costretti a vestire in quel modo?
Dario
 Calimani,
 Venezia


Dario Calimani
La Cassazione ha confermato la rimozione del giudice Luigi Tosti che non aveva voluto tenere udienza in un’aula in cui era esposto un crocifisso. Si afferma che la presenza del crocifisso non confligge con la laicità dello stato. Noi ovviamente non la pensiamo allo stesso modo e sentiamo venir meno il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla costituzione e davanti alla giustizia, in particolare. Il silenzio discreto e rispettoso che noi ebrei opponiamo a questa sentenza si concilia con la nostra identità ebraica? Siamo ebrei della resa? Siamo, assieme ad altri, cittadini di seconda classe? Lo sono i nostri simboli e i nostri significati? È lecito interrogarsi, ma sarebbe anche lecito che le nostre istituzioni interrogassero formalmente sull’argomento chi ci governa e chi ci rappresenta in Parlamento. Anche il nostro silenzio è segno della nostra assimilazione.

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davar
Qui Bologna - DafDaf protagonista alla Children's Book Fair
Il giornale ebraico per bambini DafDaf conquista la prestigiosa vetrina del Bologna Children’s Book Fair, il più importante evento internazionale dedicato alla letteratura per la gioventù. Davanti a un pubblico composto da addetti ai lavori, editori, giornalisti e agenti letterari, esponenti della realtà bolognese e molti docenti delle scuole ebraiche italiane, ma anche autori, disegnatori e membri del Comitato scientifico che affianca la redazione, sono stati presentati DafDaf e Pagine Ebraiche, il giornale dell'ebraismo italiano che nel numero di aprile intitola il proprio dossier Leggere per crescere. A intervenire, fra gli altri, il giornalista Guido Vitale, coordinatore dei dipartimenti Informazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e direttore di Pagine Ebraiche, Odelia Liberanome del Centro pedagogico UCEI, il disegnatore Giorgio Albertini, Rossella Tercatin, giornalista e redattrice di DafDaf, Ada Treves, responsabile del coordinamento e controllo qualità della pubblicazione. Presenti, assieme a molti collaboratori e illustratori anche la scrittrice israeliana Nurit Zarchi, l'addetto culturale israeliano in Italia Ofra Fahri e il disegnatore Paolo Bacillieri, che firma la testata di Daf Daf. 

Qui Padova - Un'intensa giornata di studio e di festa
Un'intensa giornata di studio, festa e solennità si è svolta domenica nella Comunità ebraica di Padova. In collaborazione con il dipartimento Educazione e Cultura dell'Ucei la Comunità ha dato vita a un'occasione di incontro in occasione di una grande new entry: si tratta di uno splendido Sefer Torà che rav Amedeo Spagnoletto ha da poco finito di restaurare e reso nuovamente utilizzabile per la lettura pubblica. Per celebrare l'evento è stata organizzata una giornata di studio proprio sul rapporto tra "Scrittura e identità nella tradizione ebraica" a cui ha fatto seguito la cerimonia vera e propria al tempio. Tra gli interventi quello del rav Adolfo Locci, della professoressa Donatella Di Cesare, dello scrittore Riccardo Calimani, del rav Roberto Della Rocca, del rav Amedeo Spagnoletto e del rav Rony Klopstok che hanno messo in risalto l'intima connessione tra parola scritta e orale, tra scrittura e ascolto che nella tradizione ebraica prende la piega di una tensione tra ricezione e rinnovamento della propria identità, nelle sue molteplici sfaccettature. Tensione che, come ha spiegato Rony Klopstok, scaturisce anzitutto dal fatto che si tratta di parole che vogliono esprimere una forte spiritualità nella fisicità e corporietà di alcune lettere e "semplici rotoli". Si tratta di un paradosso che, come ricorda anche rav Adolfo Locci citando la storia della Torre di Babele, nella tradizione ebraica è sempre in pericolo di degenerare in idolatria, quando dimentica la propria molteplicità, o in dispersione, quando perde di vista la propria unità. Come ha concluso rav Roberto Della Rocca, la parola scritta va intesa come un solco attraverso cui costruire un'identità vissuta e che quindi dovrà sempre rinnovarsi se non vuole trasformarsi in idolo. Si tratta di un vissuto, secondo le parole di Amedeo Spagnoletto, che è anzitutto la profonda consapevolezza di quello che questa scrittura rappresenta affinché essa stessa non diventi, prima che idolo, semplicemente "un inciampo" perché espressione ormai inadeguata della propria identità. Su questa scia infatti Donatella Di Cesare ha messo in evidenza quanto l'ascolto autentico, inteso nella sua accezione spazio-temporale, sia il nesso che lega questa scrittura alla costruzione dell'identità di una comunità. Ed è proprio in questa capacità di porsi in ascolto che possiamo cogliere quella Riccardo Calimani definisce la particolarità del lavoro intellettuale ebraico: un ascolto attivo in grado di rompere con la semplice chiacchiera, un ascolto che vuole ancora e sempre stupirsi, fare domande e scandalizzare se stessi e gli altri.
 
Ilana Bahbout

Qui Padova - La nostra dimora sono le lettere
Non sono forse le lettere del Leshon Haqodesh la dimora di ciascun ebreo, il luogo della identità ebraica? Molto più della terra? Non è per così dire il dizionario della lingua ebraica il legame che ci unisce al passato e che ci offre il sostegno per il futuro? In una suggestiva giornata di studio, organizzata dalla Comunità di Padova insieme con il Dec, e ideata da Ilana Bahbout, si sono susseguite voci diverse che hanno affrontato un tema fondamentale su cui varrà la pena continuare a riflettere. Se l’identità ebraica è scissa tra memoria storica e vita individuale, se la frattura è accentuata dalla necessità costante di giustificare, a se stessi e agli altri, la propria identità, se non addirittura la propria esistenza, la via per la ricomposizione è l’ascolto comune delle lettere che diventano parola viva. All’ebreo è richiesto anzitutto l’ascolto - ascolto delle lettere, che non devono essere idolatrate, ma dischiudersi piuttosto nella parola viva che investe l’esistenza di ciascuno. La kerià, in ebraico «lettura», contiene k(a)r, l’«incontro inatteso». La lettura non è allora solo vocalizzazione, ma apertura del luogo di un confronto e di un incontro - uno studio che è già impegno. Perché è nell’ascolto comune, nella condivisione della parola viva e vissuta, che si raccoglie e si rafforza la comunità.

Donatella Di Cesare, filosofa

Qui Roma - Una famiglia, la nostra storia
Nato come dissertazione finale del Corso triennale in Studi ebraici, il piccolo volume di Celeste Pavoncello, “I Pavoncello, Ebrei di Roma” è la storia di una famiglia ebraica romana: una famiglia “qualunque”, “che in questo modo vuole rimarcarne tanto la tipicità quanto il radicamento, profondo e forte, in un contesto particolarissimo, e a sua volta carico di storia”. Così Enzo Campelli parla del libro di Celeste Pavoncello che racconta la storia della sua famiglia che va dalla nascita del capostipite, Angelo Samuele (1806), alla costruzione del Tempio Maggiore (1904).
Celeste, come ti sei cimentata con la storia della tua famiglia?
Ho voluto approfondire lo studio di qualche cosa che mi riguardasse da vicino. Quando ho preso la mia prima laurea in Scienze Politiche ho fatto uno studio sulla famiglia Ovazza, e sul periodico “La Nostra Bandiera”, lo studio della storia delle famiglie mi ha sempre affascinato e giunta a cinquanta anni mi sembrava il momento di parlare della mia
Chi sono i Pavoncello?
 I Pavoncello, costituiscono una famiglia del ghetto come tante altre, non abbiente, formata principalmente da “bottegari”, da coloro cioè che costituiscono lo zoccolo duro della Comunità, che sono garanti della tradizione ebraica. Dalla nascita di Angelo Samuele in poi, assistiamo a una sequenza di eventi che caratterizzarono la storia della Comunità: le difficoltà e i problemi legati alla vita nel ghetto, l’emancipazione ed il passaggio dal commercio degli abiti usati ad attività più gratificanti. A fianco alla storia della famiglia il lettore potrà ricavare una molteplicità di notizie comuni anche alle altre famiglie del ghetto: sugli usi dotali, ad esempio, o sulle transazioni relative allo jus gazzagà, le scelte matrimoniali, con patto dotale e dopo dieci anni del divorzio delle stesse persone, uno dei documenti che più mi ha colpito è stata una “conversione forzata” in punto di morte, presso l’ospedale Santo Spirito nel 1870, ma anche sul comportamento religioso e sulle caratteristiche dei processi di stratificazione e di mobilità sociale che hanno interessato gli ebrei romani e la loro Comunità a partire dai primi decenni dell’Ottocento, nonché - infine - sulle specificità, spesso impervie, del percorso successivo all’uscita dal ghetto. Va da sé che i Pavoncello registrati come Mosè, Abramo e Sabato Leone venissero nella vita quotidiana, sulla scia dell’emancipazione post 1870, chiamati rispettivamente Marco, Alberto e Settimio. In questo lavoro si è preferito utilizzare l’onomastica ufficiale e non quella famigliare. Mi preme precisare che nella seconda edizione sono presenti nell’albero genealogico i nomi di alcuni Pavoncello che non comparivano nella prima edizione. Questo poiché inizialmente ci si è attenuti solo ai dati forniti dall’Archivio Storico della Comunità, i cui registri anagrafici possono essere consultati solo fino al 1891 (la documentazione novecentesca è infatti in corso di riordino). I nomi ora aggiunti (riportati con carattere diverso) sono il risultato di una ricerca condotta attraverso fonti orali. Un’ultima precisazione: la ricostruzione qui condotta è di tipo verticale, cioè è stata privilegiata la linea maschile in senso patrilineare, per cui rimangono esclusi da queste pagine una serie di altri Pavoncello che appartenevano ai rami cadetti.
Di quali fonti ti sei avvalsa?
Questo scritto è frutto di una ricerca essenzialmente di tipo archivistico. Si tratta di fonti di prima mano, le quali hanno richiesto la consultazione di scritture tipologicamente molto diverse fra loro. A essere indagate sono state per prime le carte conservate presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, dove mi sono avvalsa della competenza e della disponibilità di Claudio Procaccia, di Silvia Haia Antonucci e di Giancarlo Spizzichino. La ricerca è quindi proseguita con i protocolli notarili custoditi presso l’Archivio Capitolino, l’Archivio di Stato di Roma e presso l’Archivio del Vicariato, rivelatisi una miniera di informazioni capaci di gettare luce su questioni non solo patrimoniali, ma anche religiose e sentimentali.

Lucilla Efrati

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pilpul
Simboli, leggi, idee
Tobia ZeviPochi giorni fa la Grande camera della Corte europea dei Diritti dell’uomo ha accolto il ricorso del Governo italiano contro una sentenza della Corte europea. Oggetto del contendere: il crocifisso, simbolo religioso contestato da una madre di due bambini in una scuola del Veneto. I magistrati interpellati hanno sostanzialmente affermato tre principi giuridici: la competenza su questa materia spetta ai singoli stati; un emblema religioso non offende il non credente o il credente di un’altra confessione; il crocifisso non riguarda solo il cristiano, ma il complesso della nostra tradizione e della nostra cultura.
Personalmente sarei tentato - oltre alla scontata e doverosa accettazione di tutte le sentenze - di dichiararmi in disaccordo. In particolare mi sembra poco opportuno che sia un tribunale a decidere cosa offenda la sensibilità di un individuo e cosa no. La questione va posta su un altro piano: laici e minoranze religiose andrebbero tutelati in quanto portatori di diritti, in quanto cittadini, in quanto la la laicità dello stato è un principio fondamentale. Io stesso ho frequentato scuole con il crocifisso appeso, ma il fatto di non esserne particolarmente disturbato non mi pare un elemento fondamentale per individuare una soluzione equa sul piano politico e legislativo.
Trovo però interessante un’altra questione evidenziata dai giudici, quella della competenza del singolo stato secondo il principio di sussidiarietà. In effetti occorre riconoscere un dato: il crocifisso è stato oggetto negli anni di una battaglia ideologica, giusta o sbagliata che fosse. Il che forse non è un bene: su questi temi serve la massima condivisione dei percorsi e delle scelte, a partire dai livelli istituzionali più prossimi al cittadino. Le scuole, i comuni, le regioni. Promuovendo momenti di riflessione e confronto le varie comunità giungerebbero probabilmente a soluzioni diverse e creative: per alcuni l’esposizione di più simboli religiosi, per altri la loro completa soppressione, per altri ancora chissà. Alla luce dei risultati recenti, è forse opportuno lasciare più spazio alle persone, alle idee, e meno alle leggi.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas  

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notizie flash   rassegna stampa
Israele: lo Shin Bet ha un nuovo capo   Leggi la rassegna

Israele. Nominato il nuovo capo dello Shin Bet (servizio di sicurezza interno). Per la sostituzione di Yuval Diskin, che a maggio completerà il suo mandato durato sei anni, è stato scelto il suo ex vice, Yoram Cohen, l'annuncio è stato fatto ieri sera dal premier israeliano Benyamin Netanyahu, che così ha completato il serrato avvicendamento ai vertici dei principali servizi di sicurezza che ha visto negli ultimi mesi le nomine di Tamir Pardo alla guida del Mossad, del generale Beny Gantz come Capo di stato maggiore dell'esercito e del generale Aviv Cochavi al comando di Aman, l'intelligence militare.
 

Buona parte della rassegna stampa di oggi è dedicate alla crisi dei regimi arabi: in Yemen è venuta fuori Al Queida (Ranieri sul Foglio) che si era già manifestata fra i ribelli libici; in Egitto militari e fratelli musulmani stanno estromettendo i giovani laici dalla gestione del dopo crisi (redazione del Foglio), in Libia le cose continuano a essere complicate e confuse (Schiavulli sul Messaggero), la Siria è in bilico fra "riforme" che per necessità possono essere "solo cosmetiche" e la repressione più dura...»

Ugo Volli











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