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17 aprile 2011 - 13 Nisan 5771 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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Ultimi
momenti, in genere un po' frenetici, per liberare la casa da qualsiasi
traccia di sostanze lievitate. Il lievito, secondo la tradizione
rabbinica, rappresenta lo yetzer ha ra, l'istinto negativo. Per
liberarsene è necessaria sollecitudine e minuziosa attenzione.
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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Ci hanno sradicato dal nostro
presente, la nostra identità è incerta e così il domani, digiuniamo.
Hanno provato a sterminarci, ci siamo salvati, mangiamo. A
seconda della filiera che si sceglie, si stabilisce o si codifica una
filosofia della storia. Mangiare e digiunare costituiscono una prassi
collettiva. Non è vero che un gruppo fa festa e mangia
insieme, oppure insieme riflette sulle proprie disgrazie e digiuna, per
un fatto istituzionale, bensì per uno costituzionale, ovvero per
riaffermare la sua identità. Non appartiene alla sfera della religione,
ma a quello della sociologia di gruppo. Celebrare quel rito diviene il
segno della massima solidarietà del gruppo. Il rito non serve
a confermare un fine, ma a riprodurre la credenza che è lo strumento
che permette al gruppo di costituire un’unità organica.
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Un avvocato contro l'accusa di deicidio
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Salvatore
Jona nacque nel 1904 ad Ancona dove il padre Emilio, (allievo del
Collegio rabbinico di Livorno frequentato sotto la guida di Elia
Benamozegh, insieme ad Alfredo Sabato Toaff, padre del futuro rabbino
di Roma, Elio) era rabbino. Dopo pochi anni, forse per dissapori con la
Comunità, la famiglia Jona si trasferì a Milano, dove Emilio si occupò
prima di assicurazioni e poi, trasferendosi a Torino e successivamente
a Genova, dell’allora astro nascente dell’”informatica”: le macchine da
scrivere. La formazione culturale del giovane Salvatore fu decisamente
classica e, malgrado la profonda preparazione ebraica del padre, la
cultura e l’osservanza religiosa ebraica rimasero sostanzialmente
emarginate dalla sua vita. La frequenza della sinagoga rimase limitata
al giorno di Kippur e in casa l’osservanza della tradizione, a parte il
divieto di introdurre carni taref voluto dalla madre Eugenia Verona,
rimase limitata alla celebrazione del Seder di Pesach fatta dal padre.
Con questo (scarno) bagaglio culturale, Salvatore, divenuto
precocemente un brillante avvocato a Genova, si ritrovò a confrontarsi
con le leggi razziste nel 1938. Che costituirono per lui, come per la
giovane consorte Emilia Pardo, un duplice dramma: da un lato occorreva
ingegnarsi a evadere le nuove disposizioni oppressive del governo
fascista, dall’altro si chiedeva perché mai fosse piovuta loro addosso
una batosta del genere. Anche se non pensò mai di convertirsi, non
riusciva a capacitarsi di essere fatto oggetto di tanto odio da parte
di quella patria che egli amava e che, come avvocato serviva al meglio
delle sue capacità, per il semplice fatto di frequentare (raramente) il
Tempio invece della Chiesa. L’ impegno richiesto per superare la
legislazione sempre più restrittiva dello Stato fascista, e portare a
casa il pane per la famiglia, non gli lasciava comunque il tempo di
approfondire la sua cultura ebraica. L’8 settembre 1943, dopo
l’armistizio chiesto dall’Italia agli Alleati, il Paese fu invaso dai
tedeschi e le cose cambiarono radicalmente in peggio. Non si trattava
più solo di trovare il pane, occorreva sfuggire alla cattura per
sopravvivere. Cosa non facile in tempo di guerra quando, per chi avesse
contravvenuto alla legge che imponeva di consegnare ogni ebreo
(dichiarato nemico della patria), la pena era la morte. Per fortuna sua
e della famiglia Jona, nel suo peregrinare sui monti, incontrò un
vecchio compagno di studi, l’avvocato Emanuele Custo - molti anni dopo
riconosciuto Giusto tra le nazioni - che, per motivazioni evangeliche,
gli aprì coraggiosamente la porta di casa e lo nascose con la famiglia
fino alla Liberazione. Curiosamente (per noi oggi, ma molto meno
allora) la famiglia Custo, che con tanto coraggio aveva sfidato la
morte per salvare una famiglia di ebrei perseguitati, non riusciva a
capacitarsi che questi, dopo aver sperimentato in prima persona di
cos’era capace l’”amore cristiano”, insistessero per restare
nell’”errore”, che rinunciassero alla “salvezza dell’anima” che può
essere propiziata “soltanto” dal battesimo. Li sconvolgeva e li
deludeva che persone che da un lato manifestavano tanta gratitudine per
il coraggioso aiuto ricevuto, insistessero per restare in una religione
in cui si proclamava la dura giustizia dell’ “occhio per occhio”,
invece di passare alla religione dell’amore, proclamato da Gesù con il
detto “ama il prossimo tuo come te stesso” e soprattutto insistessero
per restare nella sparuta pattuglia dei “deicidi” che, continuando a
non riconoscere la divinità di Gesù, lo uccidevano quotidianamente. Rientrato
nella vita cittadina, Jona fu fatto oggetto di pressioni anche dall’
alto: perfino il cardinale arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri cercò
di spingerlo alla conversione. L’avvocato non aveva però alcuna
intenzione di cedere alle molteplici pressioni per una sua conversione,
ma non era tipo da rispondere a una domanda “perché?” con un semplice
“perché no.” D’altra parte non aveva la preparazione per una risposta
più circostanziata e articolata. Fu così che cominciò a raccogliere
documentazione e a studiare quegli aspetti specifici dell’ebraismo che
meglio avrebbero potuto servire a ribattere i luoghi comuni che
venivano usati per accusare gli ebrei. Il primo risultato di questo
lavoro fu un opuscolo, L’amore nel Vecchio Testamento, nel quale
documentava che l’amore non era stato inventato da Gesù, ma si trovava
ben prima in tutta la Torah e poi nel Talmud. In quegli anni scrisse
diversi altri opuscoli incoraggiato dalla moglie e aiutato da rav
Schaumann, che in quel periodo era rabbino a Genova, tutti con
l’intento pratico di aiutare chi avesse poca dimestichezza con i sacri
testi ebraici a difendersi e a difendere l’ebraismo dalle accuse più
comuni quanto più ingiuriose. Restava ancora un punto su cui la
risposta non era semplice: la presunta complicità ebraica nel deicidio
di Gesù e la responsabilità che, secondo l’apostolo Matteo, avrebbe
dovuto ricadere su tutto il popolo ebraico per tutta l’eternità. Si
trattava di stretta dottrina cristiana, da cui derivavano secolari
sentimenti antiebraici, che annualmente veniva rappresentata in
innumerevoli Via crucis, in cui il popolo ebraico veniva rappresentato
nel modo più spregevole. E si trattava di dottrina che era servita nei
secoli come motivazione a terribili pogrom e a orribili auto da fé che
terminavano immancabilmente con il rogo dei malcapitati ebrei. Tante
altre crudeltà antiebraiche erano giustificate da questa aberrante
dottrina del “deicidio”. Confutarla in modo accettabile e comprensibile
da cristiani (argomenti della Halakhah o comunque rabbinici sarebbero
stati inutili e al limite controproducenti) non era facile. Salvatore
Jona si accinse dunque a questo lavoro come se avesse dovuto preparare
una difesa in Cassazione. Iniziò a escludere il “deicidio”
perché la natura divina di Gesù non era riconosciuta e quindi senza il
dolo di “voler uccidere Dio”, non poteva sussistere il reato di
deicidio, passò poi a valutare le dimensioni del “popolo” tumultuante
che era contenuto nella (piccola) piazza del Pretorio di Gerusalemme e
infine considerò l’aberrazione giuridica di trasferire la
responsabilità di qualsivoglia eventuale malefatta di questo gruppetto
di (forse) facinorosi a tutto il popolo d’Israele, presente e futuro.
Infine analizzò la responsabilità oggettiva di chi aveva effettivamente
promulgato ed eseguito la sentenza di morte: i romani. Svolse
poi anche altre considerazioni per dimostrare l’infondatezza
dell’accusa di responsabilità al popolo d’Israele per la morte di Gesù
e concluse con una cronologia che raccoglieva un raccapricciante elenco
di persecuzioni contro il popolo ebraico. Si tratta di un libretto di
poco peso cartaceo (appena 66 pagine), conciso, logico e rigoroso come
un ricorso in Cassazione. A
questo punto, anche se la difesa dell’”imputato Israele” era logica,
corretta e rigorosa, cominciava la parte più difficile e aleatoria:
bisognava portare queste tesi a conoscenza dei cristiani e soprattutto
di quelli che contano, cioè le gerarchie ecclesiastiche. Non era un
compito facile e soprattutto mancavano procedure e precedenti. Mentre
per portare a conoscenza della Corte che deve giudicare gli argomenti a
difesa di un imputato esistono procedure precise e ben codificate, nel
caso della Chiesa e del papa la procedura era tutta da inventare. Fu
così che Jona si rivolse a Giorgio La Pira, sindaco di Firenze fervente
cristiano e grande sostenitore del dialogo interreligioso tra ebrei e
cristiani (nell'immagine Salvatore Jona con il sindaco La Pira nel
1962 alla solenne conferenza organizzata a Palazzo vecchio per
sensibilizzare l’opinione pubblica e il clero sull’antisemitismo). Già
da alcuni anni c’erano tentativi e approcci per cercare di risolvere
l’annoso (anzi millenario) problema delle accuse cristiane a Israele. All’inizio
del 1959 Giovanni XXIII annunciò inaspettatamente di voler promuovere
un Concilio ecumenico per la Chiesa universale che avrebbe trattato
anche il problema dei rapporti tra la Chiesa e il popolo ebraico. Jules
Isaac aveva esperito tentativi ed aveva incontrato due papi, Pio XII e
Giovanni XXIII, gettando le basi per una revisione dell’attitudine
della Chiesa verso Israele. La Pira, grande amico di Isaac, accolse con
grande interesse le tesi che Salvatore Jona stava elaborando nel suo
libro. Il 7 aprile del 1962, per sensibilizzare l’opinione pubblica e
soprattutto il clero italiano al problema dei rapporti
ebraico-cristiani, La Pira organizzò una conferenza a Palazzo vecchio
nel salone dei Dugento, con particolare solennità accentuata dalla
presenza del Gonfalone della città e dei valletti in costume
trecentesco: relatore era Jona sul tema Il dramma degli ebrei sotto il
fascismo. Un interessante libro, Giorgio La Pira e la Vocazione di
Israele, a cura di Luciano Martini (Giunti), rende conto con grande
dettaglio degli scambi di lettere tra Jona, La Pira e Neppi Modona
dell’Amicizia ebraico cristiana di Firenze nonché dell’evoluzione dei
contatti per portare a conoscenza delle gerarchie conciliari le tesi
che Jona stava sviluppando. Finalmente l’anno successivo, all’inizio
del 1963, il libro era pronto. Luciano Martini nel suo libro riporta
uno scambio di lettere (conservato nell’Archivio La Pira) intercorso
tra l’editore Aldo Olschki, Jona, La Pira e l’allora presidente della
Rai Ettore Bernabei, democristiano di ferro e molto ben introdotto
nella Curia romana, sulla possibilità di presentare il volume a Papa
Giovanni. Per fare ciò la procedura è complessa: occorre che, non
appena composto, due copie dell’opera siano inviate alla Segreteria di
stato del Vaticano che deve esaminare ogni pubblicazione offerta al
Papa per ottenere il nihil obstat. In caso di consenso vaticano allora
l’editore avrebbe inviato un congruo numero di copie a monsignor
Dell’Acqua della stessa Segreteria, com’era consuetudine prima di un
omaggio di libri al papa. Il contenuto dell’opera, scrive La Pira al
suo amico Bernabei, coincide con le idee enunciate dal cardinale
Agostino Bea, quindi non sembra ci debbano essere ostacoli per una
presentazione al papa. Invece il 16 aprile Bernabei risponde con un
laconico biglietto con il quale scrive a La Pira: “Caro Professore, Le
invio un appunto che mi hanno consegnato a proposito della
pubblicazione di cui abbiamo parlato”. L’appunto è costituito da due
cartelle scritte a macchine, fitte, un documento anonimo, non
protocollato, ma chiaramente originato dalla Segreteria di stato
vaticana: formula un parere decisamente negativo alle tesi del libro di
Jona e di conseguenza all’opportunità che La Pira, fervente e
prestigioso cattolico, vi scriva una presentazione. Di presentarlo al
papa non si parla neppure, ma la conclusione negativa è ovvia. Il
testo, fortemente e dettagliatamente critico dell’ opera, dice tra
l’altro che il libro “eccede i giusti limiti” quando afferma che le
profezie non si avverarono ai tempi di Cristo e che quindi gli ebrei
non furono colpevoli per non aver riconosciuto Gesù come Messia. E
prosegue con una critica dettagliata di molte altre parti del libro.
Missione fallita. Ma occorre dare credito a La Pira di un
trasporto a favore di Israele fuori dal comune nell’intellighenzia
cattolica e di un coraggio intellettuale per quei tempi veramente
eccezionale: in pieno contrasto con il parere della curia di Roma egli
scrive una calorosa presentazione del libro avallandone le tesi.
Nell’aprile 1963 il libro vide dunque la luce per i tipi dell’editore
Olschki di Firenze con una presentazione di La Pira molto calda e piena
di trasporto umano per le sofferenze di Israele. Ma il cammino delle
tesi di Jona e della causa ebraico-cristiana era decisamente difficile.
Nel settembre 1963 il Concilio doveva riprendere i suoi lavori e
trattare l’argomento del deicidio. Il 7 maggio Jona scriveva a Neppi
Modona: “Dieci copie sono allo studio del Vaticano... Prevedo che al
Concilio vi saranno forti battaglie ed è per questo che mi sono
impegnato a fondo... Vorrei dare al libretto ampia diffusione:
(traduzione in inglese, portoghese, spagnolo e francese) prima della
ripresa del Concilio”. Ma lo stesso papa Roncalli, fautore sin
dagli inizi, di una vigorosa dichiarazione a favore degli ebrei, aveva
dovuto attenuare la forza del suo linguaggio a fronte dell’opposizione
congiunta dei padri conciliari più tradizionalisti e dei vescovi arabi
che vedevano la dichiarazione come un appoggio allo Stato d’Israele. A
frenare ulteriormente il processo di riavvicinamento tra le due grandi
religioni monoteiste due luttuosi eventi si succedevano in stretta
sequenza: nel giugno 1963 moriva papa Giovanni e nel settembre dello
stesso anno scompariva Jules Isaac. Tuttavia i semi che questi due
grandi avevano posto nel terreno faticosamente trovarono il modo di
germogliare, malgrado la presenza di tendenze opposte all’interno del
Concilio, la dichiarazione Nostra Aetate vide la luce nell’ ottobre del
1965. In essa, con un linguaggio talvolta un po’ ambiguo e talaltra
deplorevolmente attenuato, si condannava l’antisemitismo e, per la
crocefissione di Gesù, si escludeva la responsabilità collettiva degli
ebrei di allora e soprattutto dell’odierno popolo ebraico. Di
conseguenza l’antisemitismo non poteva avere alcuna giustificazione
dottrinale. Fu un passo avanti notevole, ma non risolutivo. Molti,
nella gerarchia ecclesiastica, mantennero i vecchi convincimenti e
l’antisemitismo non scomparve completamente dall’ambito del clero
cattolico. Poco meno di mezzo secolo è trascorso da allora.
Altri episodi si succedettero nelle relazioni ebraico-cristiane. Fino a
questi giorni quando in un libro su Gesù, firmato dal pontefice
Ratzinger in persona, trovano spazio le stesse argomentazioni avanzate
mezzo secolo fa da Salvatore Jona. Come figlio, non posso nascondere
l’emozione per un simile evento, ma devo anche confessare lo
scetticismo con il quale ascoltavo i resoconti di mio padre sui suoi
incontri e i contatti con l’area cattolica: l’idea di smuovere la
granitica base dell’antisemitismo ecclesiale mi sembrava ancor più
velleitaria della lotta di don Chisciotte contro i mulini a vento. Non
riuscivo proprio a entusiasmarmi. Mi sembravano sforzi e fatiche
gettati al vento senza nessuna possibilità, ancorché minima e limitata,
di successo: per fortuna sbagliavo. Oggi è addirittura il papa che
presenta tesi identiche a quelle formulate da mio padre. Dopo cinquanta
(anzi duemila) anni l’imputato Israele è assolto con formula piena. L’avvocato Jona ha vinto un’altra causa.
Roberto Jona, Pagine Ebraiche, aprile 2011
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Davar Acher - Ratti e demoni |
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Non c'è molto da dire oggi di
Vittorio Arrigoni: un nemico di Israele e del popolo ebraico ammazzato
da altri nemici di Israele che non sopportavano i suoi "vizi
occidentali", qualunque cosa questa espressione volesse dire per loro;
un altro degli occidentali illusi che dichiarare simpatia e
partecipazione ai nemici dell'Occidente li avrebbe salvaguardati dalla
loro violenza; non un pacifista dedicato alla non violenza, ma un amico
e un portavoce e forse un agente della banda più violenta di assassini
del Medio Oriente; non un volontario impegnato a soddisfare i bisogni
della popolazione ma un agitatore politico armato di calunnie e
insulti, spesso oltre i limiti del razzismo. Uno che chiamava i
sionisti "ratti" e "demoni", che non ha mai condannato le stragi
commesse dai suoi amici di Hamas, i crimini di guerra contro la
popolazione civile del Negev, il rapimento di Shalit. Uno le cui ultime
volontà sono state interpretate forse non a sproposito dalla madre che
ne condivideva le convinzioni nel senso di non farne passare la salma
per il territorio di Israele - chissà, forse per paura di contaminarlo
con gli effluvi demoniaci dei "ratti".
Ci sarebbe molto da dire invece sulla sua santificazione postuma, sulla
costruzione ideologica che si è fatta sul suo cadavere,
dall'attribuzione al Mossad e a Israele del suo omicidio, benché i
colpevoli siano saltati fuori subito, ufficialmente riconosciuti e
arrestati da Hamas e ammessi dallo stesso movimento salafita. La
statura di un piccolo giornalista dilettante o piuttosto di un
propagandista di giornali e siti "comunisti" e anti-israeliani è stata
subito ingigantita nei comunicati ufficiali dei politici italiani a
simbolo della speranza di pace del Medio Oriente (che così viene
identificata con la distruzione di Israele). Qualcuno ha parlato di
attribuirgli il premio Nobel, che dopo il tributo preventivo ad Obama
in effetti non ha molto senso, ma comunque ha una dimensione globale
che in questo caso chiaramente manca. Sono frutti del provincialismo
italiano, che prima di lui ha trasformato in eroi tutti coloro che da
amici dell'islamismo si sono trasformati in sue vittime, rapiti e
magari uccisi: Sgrena, "le due Simone", Baldoni. Ma sono anche un segno
di un'assimetria di giudizio preoccupante. Lo spazio sulla stampa e il
cordoglio per lui - ammazzato da chi lui pensava fossero militanti per
la libertà - è stato mille volte superiore a quello dedicato alla
famiglia sgozzata nel sonno un mese fa da assassini assai simili ai
suoi; o alla studiosa inglese, del tutto estranea ai conflitti
mediorientali, uccisa poco prima da una bomba fatta esplodere alla
stazione degli autobus di Gerusalemme da qualche altro amico dei suoi
amici.
Ma soprattutto dà da pensare quel che traspare dai commenti diffusi non
solo sui giornali ma anche in internet, su facebook e nei siti dei
giornali da parte di scrittori e lettori. La morte di Arrigoni, in cui
Israele non ha avuto alcun ruolo, viene costantemente attribuita alle
responsabilità dell'"occupazione", se non di tutto il popolo ebraico.
Non mancano richiami positivi al nazismo, minacce di morte, una
condanna cosmica di Israele, visto per l'appunto come luogo demoniaco.
A leggere questi scritti si resta quasi fisicamente colpiti dalla
violenza dell'odio che ne promana: dove ho letto io, si tratta di
italiani più che di immigrati, di gente di sinistra più che di
neonazisti. La distinzione fra antisionismo e antisemitismo, se mai ha
avuto un senso, in questi scritti è completamente offuscata. L'Italia
risulta generalmente dalle statistiche un paese fra i meno affetti
dall'antisemitismo in Europa. Sarà così; ma certamente la minoranza che
lo nutre sta diventando particolarmente aggressiva e intollerante. I
prossimi mesi rischiano di darcene la prova, con la nuova flottiglia
annunciata per maggio, la marcia sui confini di Israele promossa da
Barghouti per giugno, lo "tsunami" annunciato per settembre
(l'espressione è di Barak, si tratta del tentativo riconoscimento dello
stato palestinese da parte dell'assemblea dell'Onu, con i contraccolpi
politico-giudiziari e anche terroristici che potrebbero seguirne). Come
purtroppo accade già da tempo in altre parti d'Europa, l'ebraismo
italiano avrà bisogno di attrezzarsi per resistere.
Ugo
Volli
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Pacifismo e tragedia |
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In
passato è già accaduto. Un povero ragazzo italiano, Angelo Frammartino,
volontario tra i bambini di Ramallah, nel 2006 veniva accoltellato e
ucciso in una strada di Gerusalemme “in quanto (scambiato per) ebreo”.
Oggi un altro militante della causa palestinese, Vittorio Arrigoni,
viene rapito e ucciso da fanatici islamisti che - indifferenti al suo
lavoro e alle sue convinzioni - lo colpiscono perché “entrato nella
nostra terra per diffondere la corruzione” e perché - in quanto
italiano - proviene da “un paese di infedeli”. Le corrispondenze di
Arrigoni erano fortemente schierate, e non lasciavano alcuna speranza
in un futuro di pace: Israele era purtroppo rappresentato solo e
unicamente come il nemico disumanizzato, il nemico sionista, non c’era
spazio per mediazioni. Ma solamente chi non conosce il
Medioriente può trovare sorprendente le modalità e le motivazioni che
hanno portato a questo omicidio. E’ nota la tragica storiella che narra
di uno scorpione che doveva attraversare un fiume, ma non sapendo
nuotare, chiese aiuto a una rana che si trovava lì accanto dicendo:
"Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull'altra
sponda." La rana gli rispose "Fossi matta! Così appena siamo in acqua
mi pungi e mi uccidi!" "E per quale motivo dovrei farlo?" incalzò lo
scorpione "Se ti pungessi, tu moriresti e io, non sapendo nuotare,
annegherei!" La rana stette un attimo a pensare ma poi si convinse. A
metà tragitto però lo scorpione punse la rana e mentre entrambi stavano
per morire la rana chiese il perché del gesto. Rispose lo scorpione:
"Questo è il Medioriente, bellezza…” Non c’è logica da quelle
parti, e lo schierarsi anche in maniera faziosa, senza neppure provare
a capire le ragioni dell’altro, non aiuta a salvarsi. Così Frammartino
è morto “perché ebreo”, e Arrigoni è morto perché “italiano occidentale
e corrotto”, in un brutale e tragico rovesciamento di ruoli che può
solo suscitare pietà, e attivare una riflessione sui percorsi possibili
per portare un po’ di pace in quella terra. Nel celebrare Pesach noi
ebrei poniamo particolarmente l’accento sul significato simbolico del
Maròr, l’erba amara, che ci trasmette fra l’altro un po’ di amarezza
per la morte dei nostri nemici, annegati del Mar Rosso. E negli ultimi
giorni di Pesach - come ci ricordano i Maestri - non si recita l'Hallèl
completo proprio per ricordare l'amarezza per gli Egiziani deceduti, in
base al versetto: "quando cadrà il tuo nemico non gioire e quando
inciampa non sia lieto il tuo cuore" (Prov. 24, 17). Lo trovo un buon
modo per celebrare dignitosamente queste nostre giornate di festa.
Gadi
Luzzatto Voghera, storico
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notizieflash |
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rassegna
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Pacifici
ringrazia per la rimozione
del Memoriale che non rendeva giustizia
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A proposito del Memoriale dei deportati italiani ad Auschwitz il
presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha
affermato: "Non entro nel merito del giudizio delle opere ma invito
tutto l'ordine degli architetti a visitare i vari padiglioni di
Auschwitz promossi e sostenuti da ogni nazione che ha avuto vittime nel
campo di sterminio: sarà difficile giudicare quale sia il migliore, il
più suggestivo. Ma è facile dedurre che quello italiano è il padiglione
più triste e soprattutto quello che rende meno al visitatore il senso
di quello che è avvenuto in quei luoghi". "Pertanto - ha
proseguito - ringrazio il governo italiano e tutte le autorità
di maggioranza e di opposizione che si sono impegnate a rimuovere quel
Memoriale". Realizzato nel 1979 dall'architetto Lodovico Barbiano di
Belgioioso dello studio Bbpr con il contributo di grandi nomi della
cultura, dallo scrittore Primo Levi, al compositore Luigi Nono dal
regista Nelo Risi all'artista Pupino Samonà, il Memoriale italiano
secondo Pacifici, "rispecchia in maniera evidente lo spirito e
l'influenza di un'Italia degli anni Settanta che fortunatamente ci
siamo lasciati alla spalle. Al confronto degli altri fa inorridire per
quanto sia inutile". Per questo - ha sottolineato - mi associo a tutti
coloro, deportati in primis, che solo pochi giorni fa mentre eravamo
con il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti lo
imploravano di far sentire anche lui la sua voce ma non solo la sua,
affinché venga rimosso e trasferito in altro luogo così che l'Italia
possa rimettersi al pari delle altre nazioni e ridare lustro al nostro
Paese.
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