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17 aprile 2011 - 13 Nisan 5771
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Benedetto Carucci Viterbi
Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino


Ultimi momenti, in genere un po' frenetici, per liberare la casa da qualsiasi traccia di sostanze lievitate. Il lievito, secondo la tradizione rabbinica, rappresenta lo yetzer ha ra, l'istinto negativo. Per liberarsene è necessaria sollecitudine e minuziosa attenzione. 

David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Ci hanno sradicato dal nostro presente, la nostra identità è incerta e così il domani, digiuniamo. Hanno provato a sterminarci, ci siamo salvati, mangiamo.  A seconda della filiera che si sceglie, si stabilisce o si codifica una filosofia della storia. Mangiare e digiunare costituiscono una prassi collettiva. Non è vero che un gruppo fa festa e mangia insieme, oppure insieme riflette sulle proprie disgrazie e digiuna, per un fatto istituzionale, bensì per uno costituzionale, ovvero per riaffermare la sua identità. Non appartiene alla sfera della religione, ma a quello della sociologia di gruppo. Celebrare quel rito diviene il segno della massima solidarietà del gruppo. Il rito non serve a confermare un fine, ma a riprodurre la credenza che è lo strumento che permette al gruppo di costituire un’unità organica.

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davar
Un avvocato contro l'accusa di deicidio
copertina libroSalvatore Jona nacque nel 1904 ad Ancona dove il padre Emilio, (allievo del Collegio rabbinico di Livorno frequentato sotto la guida di Elia Benamozegh, insieme ad Alfredo Sabato Toaff, padre del futuro rabbino di Roma, Elio) era rabbino. Dopo pochi anni, forse per dissapori con la Comunità, la famiglia Jona si trasferì a Milano, dove Emilio si occupò prima di assicurazioni e poi, trasferendosi a Torino e successivamente a Genova, dell’allora astro nascente dell’”informatica”: le macchine da scrivere. La formazione culturale del giovane Salvatore fu decisamente classica e, malgrado la profonda preparazione ebraica del padre, la cultura e l’osservanza religiosa ebraica rimasero sostanzialmente emarginate dalla sua vita. La frequenza della sinagoga rimase limitata al giorno di Kippur e in casa l’osservanza della tradizione, a parte il divieto di introdurre carni taref voluto dalla madre Eugenia Verona, rimase limitata alla celebrazione del Seder di Pesach fatta dal padre. Con questo (scarno) bagaglio culturale, Salvatore, divenuto precocemente un brillante avvocato a Genova, si ritrovò a confrontarsi con le leggi razziste nel 1938. Che costituirono per lui, come per la giovane consorte Emilia Pardo, un duplice dramma: da un lato occorreva ingegnarsi a evadere le nuove disposizioni oppressive del governo fascista, dall’altro si chiedeva perché mai fosse piovuta loro addosso una batosta del genere. Anche se non pensò mai di convertirsi, non riusciva a capacitarsi di essere fatto oggetto di tanto odio da parte di quella patria che egli amava e che, come avvocato serviva al meglio delle sue capacità, per il semplice fatto di frequentare (raramente) il Tempio invece della Chiesa. L’ impegno richiesto per superare la legislazione sempre più restrittiva dello Stato fascista, e portare a casa il pane per la famiglia, non gli lasciava comunque il tempo di approfondire la sua cultura ebraica.
L’8 settembre 1943, dopo l’armistizio chiesto dall’Italia agli Alleati, il Paese fu invaso dai tedeschi e le cose cambiarono radicalmente in peggio. Non si trattava più solo di trovare il pane, occorreva sfuggire alla cattura per sopravvivere. Cosa non facile in tempo di guerra quando, per chi avesse contravvenuto alla legge che imponeva di consegnare ogni ebreo (dichiarato nemico della patria), la pena era la morte. Per fortuna sua e della famiglia Jona, nel suo peregrinare sui monti, incontrò un vecchio compagno di studi, l’avvocato Emanuele Custo - molti anni dopo riconosciuto Giusto tra le nazioni - che, per motivazioni evangeliche, gli aprì coraggiosamente la porta di casa e lo nascose con la famiglia fino alla Liberazione. Curiosamente (per noi oggi, ma molto meno allora) la famiglia Custo, che con tanto coraggio aveva sfidato la morte per salvare una famiglia di ebrei perseguitati, non riusciva a capacitarsi che questi, dopo aver sperimentato in prima persona di cos’era capace l’”amore cristiano”, insistessero per restare nell’”errore”, che rinunciassero alla “salvezza dell’anima” che può essere propiziata “soltanto” dal battesimo. Li sconvolgeva e li deludeva che persone che da un lato manifestavano tanta gratitudine per il coraggioso aiuto ricevuto, insistessero per restare in una religione in cui si proclamava la dura giustizia dell’ “occhio per occhio”, invece di passare alla religione dell’amore, proclamato da Gesù con il detto “ama il prossimo tuo come te stesso” e soprattutto insistessero per restare nella sparuta pattuglia dei “deicidi” che, continuando a non riconoscere la divinità di Gesù, lo uccidevano quotidianamente.
Rientrato nella vita cittadina, Jona fu fatto oggetto di pressioni anche dall’ alto: perfino il cardinale arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri cercò di spingerlo alla conversione. L’avvocato non aveva però alcuna intenzione di cedere alle molteplici pressioni per una sua conversione, ma non era tipo da rispondere a una domanda “perché?” con un semplice “perché no.” D’altra parte non aveva la preparazione per una risposta più circostanziata e articolata. Fu così che cominciò a raccogliere documentazione e a studiare quegli aspetti specifici dell’ebraismo che meglio avrebbero potuto servire a ribattere i luoghi comuni che venivano usati per accusare gli ebrei. Il primo risultato di questo lavoro fu un opuscolo, L’amore nel Vecchio Testamento, nel quale documentava che l’amore non era stato inventato da Gesù, ma si trovava ben prima in tutta la Torah e poi nel Talmud. In quegli anni scrisse diversi altri opuscoli incoraggiato dalla moglie e aiutato da rav Schaumann, che in quel periodo era rabbino a Genova, tutti con l’intento pratico di aiutare chi avesse poca dimestichezza con i sacri testi ebraici a difendersi e a difendere l’ebraismo dalle accuse più comuni quanto più ingiuriose. Restava ancora un punto su cui la risposta non era semplice: la presunta complicità ebraica nel deicidio di Gesù e la responsabilità che, secondo l’apostolo Matteo, avrebbe dovuto ricadere su tutto il popolo ebraico per tutta l’eternità. Si trattava di stretta dottrina cristiana, da cui derivavano secolari sentimenti antiebraici, che annualmente veniva rappresentata in innumerevoli Via crucis, in cui il popolo ebraico veniva rappresentato nel modo più spregevole. E si trattava di dottrina che era servita nei secoli come motivazione a terribili pogrom e a orribili auto da fé che terminavano immancabilmente con il rogo dei malcapitati ebrei. Tante altre crudeltà antiebraiche erano giustificate da questa aberrante dottrina del “deicidio”. Confutarla in modo accettabile e comprensibile da cristiani (argomenti della Halakhah o comunque rabbinici sarebbero stati inutili e al limite controproducenti) non era facile. Salvatore Jona si accinse dunque a questo lavoro come se avesse dovuto preparare una difesa in Cassazione.
Iniziò a escludere il “deicidio” perché la natura divina di Gesù non era riconosciuta e quindi senza il dolo di “voler uccidere Dio”, non poteva sussistere il reato di deicidio, passò poi a valutare le dimensioni del “popolo” tumultuante che era contenuto nella (piccola) piazza del Pretorio di Gerusalemme e infine considerò l’aberrazione giuridica di trasferire la responsabilità di qualsivoglia eventuale malefatta di questo gruppetto di (forse) facinorosi a tutto il popolo d’Israele, presente e futuro. Infine analizzò la responsabilità oggettiva di chi aveva effettivamente promulgato ed eseguito la sentenza di morte: i romani.
Svolse poi anche altre considerazioni per dimostrare l’infondatezza dell’accusa di responsabilità al popolo d’Israele per la morte di Gesù e concluse con una cronologia che raccoglieva un raccapricciante elenco di persecuzioni contro il popolo ebraico. Si tratta di un libretto di poco peso cartaceo (appena 66 pagine), conciso, logico e rigoroso come un ricorso in Cassazione.
LA PIRA E JONAA questo punto, anche se la difesa dell’”imputato Israele” era logica, corretta e rigorosa, cominciava la parte più difficile e aleatoria: bisognava portare queste tesi a conoscenza dei cristiani e soprattutto di quelli che contano, cioè le gerarchie ecclesiastiche. Non era un compito facile e soprattutto mancavano procedure e precedenti. Mentre per portare a conoscenza della Corte che deve giudicare gli argomenti a difesa di un imputato esistono procedure precise e ben codificate, nel caso della Chiesa e del papa la procedura era tutta da inventare. Fu così che Jona si rivolse a Giorgio La Pira, sindaco di Firenze fervente cristiano e grande sostenitore del dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani (nell'immagine Salvatore Jona con il sindaco La Pira nel 1962 alla solenne conferenza organizzata a Palazzo vecchio per sensibilizzare l’opinione pubblica e il clero sull’antisemitismo). Già da alcuni anni c’erano tentativi e approcci per cercare di risolvere l’annoso (anzi millenario) problema delle accuse cristiane a Israele.
All’inizio del 1959 Giovanni XXIII annunciò inaspettatamente di voler promuovere un Concilio ecumenico per la Chiesa universale che avrebbe trattato anche il problema dei rapporti tra la Chiesa e il popolo ebraico. Jules Isaac aveva esperito tentativi ed aveva incontrato due papi, Pio XII e Giovanni XXIII, gettando le basi per una revisione dell’attitudine della Chiesa verso Israele. La Pira, grande amico di Isaac, accolse con grande interesse le tesi che Salvatore Jona stava elaborando nel suo libro. Il 7 aprile del 1962, per sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto il clero italiano al problema dei rapporti ebraico-cristiani, La Pira organizzò una conferenza a Palazzo vecchio nel salone dei Dugento, con particolare solennità accentuata dalla presenza del Gonfalone della città e dei valletti in costume trecentesco: relatore era Jona sul tema Il dramma degli ebrei sotto il fascismo. Un interessante libro, Giorgio La Pira e la Vocazione di Israele, a cura di Luciano Martini (Giunti), rende conto con grande dettaglio degli scambi di lettere tra Jona, La Pira e Neppi Modona dell’Amicizia ebraico cristiana di Firenze nonché dell’evoluzione dei contatti per portare a conoscenza delle gerarchie conciliari le tesi che Jona stava sviluppando. Finalmente l’anno successivo, all’inizio del 1963, il libro era pronto. Luciano Martini nel suo libro riporta uno scambio di lettere (conservato nell’Archivio La Pira) intercorso tra l’editore Aldo Olschki, Jona, La Pira e l’allora presidente della Rai Ettore Bernabei, democristiano di ferro e molto ben introdotto nella Curia romana, sulla possibilità di presentare il volume a Papa Giovanni. Per fare ciò la procedura è complessa: occorre che, non appena composto, due copie dell’opera siano inviate alla Segreteria di stato del Vaticano che deve esaminare ogni pubblicazione offerta al Papa per ottenere il nihil obstat. In caso di consenso vaticano allora l’editore avrebbe inviato un congruo numero di copie a monsignor Dell’Acqua della stessa Segreteria, com’era consuetudine prima di un omaggio di libri al papa. Il contenuto dell’opera, scrive La Pira al suo amico Bernabei, coincide con le idee enunciate dal cardinale Agostino Bea, quindi non sembra ci debbano essere ostacoli per una presentazione al papa. Invece il 16 aprile Bernabei risponde con un laconico biglietto con il quale scrive a La Pira: “Caro Professore, Le invio un appunto che mi hanno consegnato a proposito della pubblicazione di cui abbiamo parlato”. L’appunto è costituito da due cartelle scritte a macchine, fitte, un documento anonimo, non protocollato, ma chiaramente originato dalla Segreteria di stato vaticana: formula un parere decisamente negativo alle tesi del libro di Jona e di conseguenza all’opportunità che La Pira, fervente e prestigioso cattolico, vi scriva una presentazione. Di presentarlo al papa non si parla neppure, ma la conclusione negativa è ovvia. Il testo, fortemente e dettagliatamente critico dell’ opera, dice tra l’altro che il libro “eccede i giusti limiti” quando afferma che le profezie non si avverarono ai tempi di Cristo e che quindi gli ebrei non furono colpevoli per non aver riconosciuto Gesù come Messia. E prosegue con una critica dettagliata di molte altre parti del libro. Missione fallita.
Ma occorre dare credito a La Pira di un trasporto a favore di Israele fuori dal comune nell’intellighenzia cattolica e di un coraggio intellettuale per quei tempi veramente eccezionale: in pieno contrasto con il parere della curia di Roma egli scrive una calorosa presentazione del libro avallandone le tesi. Nell’aprile 1963 il libro vide dunque la luce per i tipi dell’editore Olschki di Firenze con una presentazione di La Pira molto calda e piena di trasporto umano per le sofferenze di Israele. Ma il cammino delle tesi di Jona e della causa ebraico-cristiana era decisamente difficile. Nel settembre 1963 il Concilio doveva riprendere i suoi lavori e trattare l’argomento del deicidio. Il 7 maggio Jona scriveva a Neppi Modona: “Dieci copie sono allo studio del Vaticano... Prevedo che al Concilio vi saranno forti battaglie ed è per questo che mi sono impegnato a fondo... Vorrei dare al libretto ampia diffusione: (traduzione in inglese, portoghese, spagnolo e francese) prima della ripresa del Concilio”.
Ma lo stesso papa Roncalli, fautore sin dagli inizi, di una vigorosa dichiarazione a favore degli ebrei, aveva dovuto attenuare la forza del suo linguaggio a fronte dell’opposizione congiunta dei padri conciliari più tradizionalisti e dei vescovi arabi che vedevano la dichiarazione come un appoggio allo Stato d’Israele. A frenare ulteriormente il processo di riavvicinamento tra le due grandi religioni monoteiste due luttuosi eventi si succedevano in stretta sequenza: nel giugno 1963 moriva papa Giovanni e nel settembre dello stesso anno scompariva Jules Isaac. Tuttavia i semi che questi due grandi avevano posto nel terreno faticosamente trovarono il modo di germogliare, malgrado la presenza di tendenze opposte all’interno del Concilio, la dichiarazione Nostra Aetate vide la luce nell’ ottobre del 1965. In essa, con un linguaggio talvolta un po’ ambiguo e talaltra deplorevolmente attenuato, si condannava l’antisemitismo e, per la crocefissione di Gesù, si escludeva la responsabilità collettiva degli ebrei di allora e soprattutto dell’odierno popolo ebraico. Di conseguenza l’antisemitismo non poteva avere alcuna giustificazione dottrinale. Fu un passo avanti notevole, ma non risolutivo. Molti, nella gerarchia ecclesiastica, mantennero i vecchi convincimenti e l’antisemitismo non scomparve completamente dall’ambito del clero cattolico.
Poco meno di mezzo secolo è trascorso da allora. Altri episodi si succedettero nelle relazioni ebraico-cristiane. Fino a questi giorni quando in un libro su Gesù, firmato dal pontefice Ratzinger in persona, trovano spazio le stesse argomentazioni avanzate mezzo secolo fa da Salvatore Jona. Come figlio, non posso nascondere l’emozione per un simile evento, ma devo anche confessare lo scetticismo con il quale ascoltavo i resoconti di mio padre sui suoi incontri e i contatti con l’area cattolica: l’idea di smuovere la granitica base dell’antisemitismo ecclesiale mi sembrava ancor più velleitaria della lotta di don Chisciotte contro i mulini a vento. Non riuscivo proprio a entusiasmarmi. Mi sembravano sforzi e fatiche gettati al vento senza nessuna possibilità, ancorché minima e limitata, di successo: per fortuna sbagliavo. Oggi è addirittura il papa che presenta tesi identiche a quelle formulate da mio padre. Dopo cinquanta (anzi duemila) anni l’imputato Israele è assolto con formula piena.
L’avvocato Jona ha vinto un’altra causa.

Roberto Jona, Pagine Ebraiche, aprile 2011


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Davar Acher - Ratti e demoni
Ugo VolliNon c'è molto da dire oggi di Vittorio Arrigoni: un nemico di Israele e del popolo ebraico ammazzato da altri nemici di Israele che non sopportavano i suoi "vizi occidentali", qualunque cosa questa espressione volesse dire per loro; un altro degli occidentali illusi che dichiarare simpatia e partecipazione ai nemici dell'Occidente li avrebbe salvaguardati dalla loro violenza; non un pacifista dedicato alla non violenza, ma un amico e un portavoce e forse un agente della banda più violenta di assassini del Medio Oriente; non un volontario impegnato a soddisfare i bisogni della popolazione ma un agitatore politico armato di calunnie e insulti, spesso oltre i limiti del razzismo. Uno che chiamava i sionisti "ratti" e "demoni", che non ha mai condannato le stragi commesse dai suoi amici di Hamas, i crimini di guerra contro la popolazione civile del Negev, il rapimento di Shalit. Uno le cui ultime volontà sono state interpretate forse non a sproposito dalla madre che ne condivideva le convinzioni nel senso di non farne passare la salma per il territorio di Israele - chissà, forse per paura di contaminarlo con gli effluvi demoniaci dei "ratti".
Ci sarebbe molto da dire invece sulla sua santificazione postuma, sulla costruzione ideologica che si è fatta sul suo cadavere, dall'attribuzione al Mossad e a Israele del suo omicidio, benché i colpevoli siano saltati fuori subito, ufficialmente riconosciuti e arrestati da Hamas e ammessi dallo stesso movimento salafita. La statura di un piccolo giornalista dilettante o piuttosto di un propagandista di giornali e siti "comunisti" e anti-israeliani è stata subito ingigantita nei comunicati ufficiali dei politici italiani a simbolo della speranza di pace del Medio Oriente (che così viene identificata con la distruzione di Israele). Qualcuno ha parlato di attribuirgli il premio Nobel, che dopo il tributo preventivo ad Obama in effetti non ha molto senso, ma comunque ha una dimensione globale che in questo caso chiaramente manca. Sono frutti del provincialismo italiano, che prima di lui ha trasformato in eroi tutti coloro che da amici dell'islamismo si sono trasformati in sue vittime, rapiti e magari uccisi: Sgrena, "le due Simone", Baldoni. Ma sono anche un segno di un'assimetria di giudizio preoccupante. Lo spazio sulla stampa e il cordoglio per lui - ammazzato da chi lui pensava fossero militanti per la libertà - è stato mille volte superiore a quello dedicato alla famiglia sgozzata nel sonno un mese fa da assassini assai simili ai suoi; o alla studiosa inglese, del tutto estranea ai conflitti mediorientali, uccisa poco prima da una bomba fatta esplodere alla stazione degli autobus di Gerusalemme da qualche altro amico dei suoi amici.
Ma soprattutto dà da pensare quel che traspare dai commenti diffusi non solo sui giornali ma anche in internet, su facebook e nei siti dei giornali da parte di scrittori e lettori. La morte di Arrigoni, in cui Israele non ha avuto alcun ruolo, viene costantemente attribuita alle responsabilità dell'"occupazione", se non di tutto il popolo ebraico. Non mancano richiami positivi al nazismo, minacce di morte, una condanna cosmica di Israele, visto per l'appunto come luogo demoniaco. A leggere questi scritti si resta quasi fisicamente colpiti dalla violenza dell'odio che ne promana: dove ho letto io, si tratta di italiani più che di immigrati, di gente di sinistra più che di neonazisti. La distinzione fra antisionismo e antisemitismo, se mai ha avuto un senso, in questi scritti è completamente offuscata. L'Italia risulta generalmente dalle statistiche un paese fra i meno affetti dall'antisemitismo in Europa. Sarà così; ma certamente la minoranza che lo nutre sta diventando particolarmente aggressiva e intollerante. I prossimi mesi rischiano di darcene la prova, con la nuova flottiglia annunciata per maggio, la marcia sui confini di Israele promossa da Barghouti per giugno, lo "tsunami" annunciato per settembre (l'espressione è di Barak, si tratta del tentativo riconoscimento dello stato palestinese da parte dell'assemblea dell'Onu, con i contraccolpi politico-giudiziari e anche terroristici che potrebbero seguirne). Come purtroppo accade già da tempo in altre parti d'Europa, l'ebraismo italiano avrà bisogno di attrezzarsi per resistere.

Ugo Volli


Pacifismo e tragedia
Gadi Luzzatto VogheraIn passato è già accaduto. Un povero ragazzo italiano, Angelo Frammartino, volontario tra i bambini di Ramallah, nel 2006 veniva accoltellato e ucciso in una strada di Gerusalemme “in quanto (scambiato per) ebreo”. Oggi un altro militante della causa palestinese, Vittorio Arrigoni, viene rapito e ucciso da fanatici islamisti che - indifferenti al suo lavoro e alle sue convinzioni - lo colpiscono perché “entrato nella nostra terra per diffondere la corruzione” e perché - in quanto italiano - proviene da “un paese di infedeli”. Le corrispondenze di Arrigoni erano fortemente schierate, e non lasciavano alcuna speranza in un futuro di pace: Israele era purtroppo rappresentato solo e unicamente come il nemico disumanizzato, il nemico sionista, non c’era spazio per mediazioni. Ma solamente chi non conosce il  Medioriente può trovare sorprendente le modalità e le motivazioni che hanno portato a questo omicidio. E’ nota la tragica storiella che narra di uno scorpione che doveva attraversare un fiume, ma non sapendo nuotare, chiese aiuto a una rana che si trovava lì accanto dicendo: "Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull'altra sponda." La rana gli rispose "Fossi matta! Così appena siamo in acqua mi pungi e mi uccidi!" "E per quale motivo dovrei farlo?" incalzò lo scorpione "Se ti pungessi, tu moriresti e io, non sapendo nuotare, annegherei!" La rana stette un attimo a pensare ma poi si convinse. A metà tragitto però lo scorpione punse la rana e mentre entrambi stavano per morire la rana chiese il perché del gesto. Rispose lo scorpione: "Questo è il Medioriente, bellezza…”  Non c’è logica da quelle parti, e lo schierarsi anche in maniera faziosa, senza neppure provare a capire le ragioni dell’altro, non aiuta a salvarsi. Così Frammartino è morto “perché ebreo”, e Arrigoni è morto perché “italiano occidentale e corrotto”, in un brutale e tragico rovesciamento di ruoli che può solo suscitare pietà, e attivare una riflessione sui percorsi possibili per portare un po’ di pace in quella terra. Nel celebrare Pesach noi ebrei poniamo particolarmente l’accento sul significato simbolico del Maròr, l’erba amara, che ci trasmette fra l’altro un po’ di amarezza per la morte dei nostri nemici, annegati del Mar Rosso. E negli ultimi giorni di Pesach - come ci ricordano i Maestri - non si recita l'Hallèl completo proprio per ricordare l'amarezza per gli Egiziani deceduti, in base al versetto: "quando cadrà il tuo nemico non gioire e quando inciampa non sia lieto il tuo cuore" (Prov. 24, 17). Lo trovo un buon modo per celebrare dignitosamente queste nostre giornate di festa.

Gadi Luzzatto Voghera, storico 

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notizieflash   rassegna stampa
Pacifici ringrazia per la rimozione
del Memoriale che non rendeva giustizia 

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A proposito del Memoriale dei deportati italiani ad Auschwitz il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha affermato: "Non entro nel merito del giudizio delle opere ma invito tutto l'ordine degli architetti a visitare i vari padiglioni di Auschwitz promossi e sostenuti da ogni nazione che ha avuto vittime nel campo di sterminio: sarà difficile giudicare quale sia il migliore, il più suggestivo. Ma è facile dedurre che quello italiano è il padiglione più triste e soprattutto quello che rende meno al visitatore il senso di quello che è avvenuto in quei luoghi". "Pertanto - ha proseguito - ringrazio il governo italiano e tutte le autorità di maggioranza e di opposizione che si sono impegnate a rimuovere quel Memoriale". Realizzato nel 1979 dall'architetto Lodovico Barbiano di Belgioioso dello studio Bbpr con il contributo di grandi nomi della cultura, dallo scrittore Primo Levi, al compositore Luigi Nono dal regista Nelo Risi all'artista Pupino Samonà, il Memoriale italiano secondo Pacifici, "rispecchia in maniera evidente lo spirito e l'influenza di un'Italia degli anni Settanta che fortunatamente ci siamo lasciati alla spalle. Al confronto degli altri fa inorridire per quanto sia inutile". Per questo - ha sottolineato - mi associo a tutti coloro, deportati in primis, che solo pochi giorni fa mentre eravamo con il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti lo imploravano di far sentire anche lui la sua voce ma non solo la sua, affinché venga rimosso e trasferito in altro luogo così che l'Italia possa rimettersi al pari delle altre nazioni e ridare lustro al nostro Paese.

 
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