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18 aprile 2011 - 14 Nisan 5771
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Riccardo Di Segni
Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma

Dopo le tumultuose preparazioni degli ultimi giorni e delle ultime ore, dal mezzogiorno di oggi entriamo nella santità della vigilia e quindi della festa di Pesach. La facciamo mentre intorno a noi si ripetono scenari già visti e sentiti, da quelli che accusano Israele di essere il colpevole di tutto nell'attualità politica, alla rete televisiva che con gusto discutibile ripropone, proprio la sera del Seder, un film disgustoso per ricordare a tutti la nostra colpa ancestrale. Ma tutto questo deve farci comprendere il senso miracoloso della nostra presenza nella storia, malgrado tutto e tutti, e il senso della nostra libertà che vivremo e trasmetteremo questa sera. 

Anna
Foa,
storica

   
Anna Foa
Bella la lettera che lo scrittore israeliano Etgar Keret rivolge sulle pagine del Corriere della Sera alla madre di Vittorio Arrigoni, invitandola a ripensare alla sua decisione di non far passare attraverso il suolo israeliano la salma del figlio assassinato dai salafiti a Gaza, perché questi "aveva combattuto tutta la vita lo  Stato ebraico". "Sarà forse la negazione di Israele e dei sette milioni di ebrei e musulmani che vi abitano ad accelerare quel processo di pace e quella liberazione per la quale il figlio aveva varcato i mari e combattuto per tutta la sua vita? Mi auguro che Vittorio Arrigoni sia stato più pro palestinese che anti israeliano. Eppure, anziché incarnare un gesto di compassione e di umanità verso il popolo che aveva voluto aiutare, il suo ultimo viaggio diventa simbolo dell'odio e del rifiuto verso coloro che considerava nemici". La madre di Vittorio Arrigoni ha respinto questo appello. Qualunque forza abbia animato la vita di Arrigoni, certamente il suo assassinio è stato il  frutto dell'odio e dell'intransigenza. Trasformare ora la sua bara in un simbolo di ulteriore odio e  intransigenza non può che aggiungere dolore e lutti ai tanti già esistenti. 
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davar
Qui Roma - Calcio a 5, trionfo del Maccabi 
MaccabiUn campionato in crescendo: bello, combattuto, appassionante. Inizio tentennante e poi trionfale volata finale. Questo in estrema sintesi il percorso della squadra di calcio a 5 open del Csd Maccabi aggiudicatosi ieri con una ultima e convincente prova di forza contro Lazio Tennis il torneo CSI (Centro Sportivo Italiano) della sezione di Roma e Provincia. Un risultato di grande prestigio in quella che è la seconda federazione nazionale dopo la Figc. Adesso porte spalancate per i Regionali. E poi chissà - l’appetito vien mangiando - pure per i Nazionali di luglio. Entusiasta il vicepresidente del Maccabi Roma Roberto Di Porto che ricorda la scelta vincente maturata un paio di anni fa di passare dal torneo Figc a quello CSI, competizione quest’ultima organizzata sotto l’egida della Chiesa. “È una scelta apparentemente singolare ma dovuta. Abbiamo così scongiurato pesanti episodi di antisemitismo nei nostri confronti che si verificavano ripetutamente” dice Di Porto. Che poi elogia la combattività dei ragazzi: “Sono stati grandiosi. Anche in inverno con tre gradi sotto zero si sono allenati senza batter ciglio e senza perdere una seduta”. Esulta anche il presidente della Federazione Italiana Maccabi Vittorio Pavoncello. “I nostri giovani – commenta Pavoncello – sono una squadra nel vero senso della parola. Un gruppo di amici che giocano insieme a pallone. Alcuni di loro hanno raggiunto nel passato traguardi sportivi assai più importanti di questo ma la felicità che si leggeva ieri nei loro occhi è qualcosa di meraviglioso. Hanno interpretato al meglio lo spirito più autentico del Maccabi”. Di Porto ci tiene poi a sottolineare un altro aspetto di grande significato. “La categoria a cui eravamo iscritti – racconta – è quella degli open ma ciò nonostante abbiamo scelto di mandare in campo calciatori poco più che ventenni. Accanto a loro alcuni giocatori più esperti a far da chioccia”. Tra loro anche Massimo Fiorentino, riciclatosi pivot dopo un passato da portiere professionista (con alcune presenze in serie B) nel calcio a undici. “Massimo ha fatto la differenza. Come il nostro allenatore, Filippo Feliziani, ex nazionale ed ex giocatore della Lazio di calcio a 5 ai tempi di Cragnotti. La sua impronta era palese. Feliziani ha dato al team l’impostazione di una squadra di calcetto. Prova ne è il fatto che abbiamo subito pochissime reti rispetto ad altre compagini”. Un campionato ricco di soddisfazioni quello dei ragazzi di Feliziani. Un campionato che però, spiega Di Porto, rischiava di non essere disputato. “In tutto abbiamo cinque squadre nelle differenti fasce di età. Molte soddisfazioni ma anche molto stress. Nonostante qualche dubbio iniziale alla fine abbiamo comunque deciso di iscriverci al torneo. La gioia che proviamo oggi è il miglior premio per lo sforzo sostenuto”. E potrebbe non esserci solo l’Italia nel futuro del team. Reduce da un torneo di Futsal svoltosi ad Amsterdam in marzo, il Csd Maccabi sarà probabilmente confermato in tutti i suoi elementi per la grande avventura dei Giochi Europei del Maccabi in programma a Vienna nel mese di luglio.

Adam Smulevich

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pilpul
Il dono di Israele
Donatella Di Cesare«Restare umani» sarebbero belle parole se non si traducessero nella de-umanizzazione di Israele. Sventure di un «pacifismo militante» che non si situa sui bordi, non varca i confini, non apre le frontiere della pace, ma si schiera contro nemici considerati satanici, fomenta odio e conflitto, per essere infine colpito tragicamente alle spalle.
Che cosa vuol dire «pacifismo militante»? Non è forse un ossimoro, una contradictio in adjecto, un sintagma illeggibile? Si possono usare mezzi violenti per giungere alla pace? Shalom, pace, non è l’opposto della guerra, bensì del male. Per imporsi non può avere come complice la guerra, né la violenza. Perché non sa di imposizione. Sta qui - scrive Abrabanel - la differenza tra la pax romana e la pace futura di Yerushalaim.
Ci accingiamo a lasciare l’Egitto, ad attraversare il mare prima e il deserto poi, per andare, varcando i millenni, verso il monte Sinai e la terra promessa - poderosi ricordi di speranze future serbati in un racconto di liberazione che Israele ha donato all’umanità.
Pesach kasher vesameach

Donatella Di Cesare, filosofa

La sobrietà non fa spettacolo
Enzo CampelliC’è una categoria dell’intrattenimento televisivo - non particolarmente nuova, per la verità - che da qualche tempo sembra godere di particolare fortuna. Affermate trasmissioni di prima e seconda serata, nonché una quantità di affollati talk show pomeridiani, propongono con insistenza assolutamente bipartisan il medesimo modello: discussioni di gruppo su casi di delitti particolarmente efferati o di violenza estrema. Parlo di intrattenimento non a caso, ma per la ragione che in molti di questi programmi non è più questione di doverosa informazione, quanto più possibile precisa ed ampia, bensì di spettacolarizzazione, scoperta e quasi dichiarata. L’obiettivo, in altri termini, non è più quello di fornire nuovi contenuti, quanto la ricerca di una moltiplicazione degli effetti emotivi, sensazionalistici, retorici. Il setting è tipicamente costituito da esperti, veri nonché televisivamente ben rodati e smaliziati, ma soprattutto dai personaggi più vari, presuntamente elevati allo stesso rango, ma il cui ruolo sembra essere in realtà quello di rappresentare l’apoteosi del luogo comune, l’idealtipo dei discorsi da autobus. Insieme, e coralmente, gli uni e gli altri ripetono all’infinito il già detto, insistono su particolari minuti e spesso irrilevanti dilatandoli senza limiti, esibiscono con commozione compunta gli aspetti più intimi e crudi, voltano e rivoltano il “caso” alla ricerca estenuata di qualcosa: se l’ipotesi di uno scoop in termini di informazione è obiettivamente difficile - considerata la “copertura” che la notizia ha già ricevuto - che sia almeno ricerca dello scoop emotivo, dello spettacolo, appunto. Dunque dell’affermazione più toccante, dell’”analisi” più carica di “sentimento”, della retorica più dolciastra, dell’osservazione più struggente. L’orrore - insomma - diventa gossip. Con contenuti diversi, ma con formato e codici identici a quello che si concentra sulle avventure vere o inventate di personaggi famosi.
Non è facile interpretare il fenomeno, a parte il riferimento all’esigenza commerciale di ampliare la audience di un prodotto che, semplicemente, si vende bene, e non pretenderò di farlo in questa sede. Alcuni elementi, però, possono essere oggetto di riflessione. Probabilmente, vi è innanzitutto un’ansia di metabolizzazione: parlarne e ri-parlarne assicura (in fantasia) una forma di elaborazione, di controllo, di riconduzione al quotidiano di fatti che sono, al contrario, il rivolgimento più drastico della quotidianità. L’esibizione pubblica di buoni sentimenti ha una confortante funzione di rassicurazione, tanto più in tempi di allarme sociale, diffuso e di diversa origine. La coralità dello spettacolo si presta ad essere intesa come solidarietà, condivisione, sollecitudine. Come in una seduta collettiva di psicoterapia, inoltre, l’analisi infinita permette di dare voce ad ogni forma di rimosso, con l’ambiguità e la duplicità che gli è propria. Essa autorizza ogni voyerismo, rende dicibile ogni ambivalenza, con la giustificazione tranquillizzante dell’interesse e della partecipazione. Quello che si consuma in questi casi è insomma una sorta di rito pubblico di purificazione, cura (inautentica ed improbabile) di una parte malata dei nostri tempi.
Ma, infine, vi è una ulteriore caratteristica di formato da mettere in evidenza, e che ha a che fare con il ruolo reciproco degli esperti che intervengono con il loro sapere specializzato, e gli “altri”. Sono questi ultimi, infatti, ad avere di solito lo spazio maggiore nello show, coadiuvati dagli spezzoni di intervista a “persone della strada” sapientemente intercalati nel programma. Come per una sorta di rivincita rispetto alle specializzazioni accreditate, la tendenza è precisamente quella di realizzare una omologazione “in basso”, sul terreno del sentire comune. Funzione latente di tutto ciò, direbbe il sociologo, è quella di creare ed esibire una condivisione generale, trasversale, immediata, “nazional-popolare”: una forma, insomma, di anti-intellettualismo a vantaggio di una percezione banalizzata e condivisa. E anche questo è segno dei tempi.

Enzo Campelli, sociologo

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notizie flash   rassegna stampa
Netanyahu: “Nuovo mediatore
per il rilascio di Gilad Shalit”
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Un nuovo mediatore nei negoziati per il rilascio di Gilad Shalit. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu lo ha scelto nelle file del Mossad, i servizi segreti dello Stato ebraico, il suo nome è David Maidan, che subentra a Hadai Hadas, che ha lasciato l'incarico ufficialmente per motivi familiari. Netanyahu ieri sera ha ricevuto i genitori del soldato, Noam e Aviva Shalit, per informarli della scelta del nuovo negoziatore.
 
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