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Il dono di Israele
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«Restare umani» sarebbero
belle parole se non si traducessero nella de-umanizzazione di Israele.
Sventure di un «pacifismo militante» che non si situa sui bordi, non
varca i confini, non apre le frontiere della pace, ma si schiera contro
nemici considerati satanici, fomenta odio e conflitto, per essere
infine colpito tragicamente alle spalle.
Che cosa vuol dire «pacifismo militante»? Non è forse un ossimoro, una
contradictio in adjecto, un sintagma illeggibile? Si possono usare
mezzi violenti per giungere alla pace? Shalom, pace, non è l’opposto
della guerra, bensì del male. Per imporsi non può avere come complice
la guerra, né la violenza. Perché non sa di imposizione. Sta qui -
scrive Abrabanel - la differenza tra la pax romana e la pace futura di
Yerushalaim.
Ci accingiamo a lasciare l’Egitto, ad attraversare il mare prima e il
deserto poi, per andare, varcando i millenni, verso il monte Sinai e la
terra promessa - poderosi ricordi di speranze future serbati in un
racconto di liberazione che Israele ha donato all’umanità.
Pesach kasher vesameach
Donatella
Di Cesare, filosofa
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La sobrietà non fa
spettacolo
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C’è una categoria
dell’intrattenimento televisivo - non particolarmente nuova, per la
verità - che da qualche tempo sembra godere di particolare fortuna.
Affermate trasmissioni di prima e seconda serata, nonché una quantità
di affollati talk show pomeridiani, propongono con insistenza
assolutamente bipartisan il medesimo modello: discussioni di gruppo su
casi di delitti particolarmente efferati o di violenza estrema. Parlo
di intrattenimento non a caso, ma per la ragione che in molti di questi
programmi non è più questione di doverosa informazione, quanto più
possibile precisa ed ampia, bensì di spettacolarizzazione, scoperta e
quasi dichiarata. L’obiettivo, in altri termini, non è più quello di
fornire nuovi contenuti, quanto la ricerca di una moltiplicazione degli
effetti emotivi, sensazionalistici, retorici. Il setting è tipicamente
costituito da esperti, veri nonché televisivamente ben rodati e
smaliziati, ma soprattutto dai personaggi più vari, presuntamente
elevati allo stesso rango, ma il cui ruolo sembra essere in realtà
quello di rappresentare l’apoteosi del luogo comune, l’idealtipo dei
discorsi da autobus. Insieme, e coralmente, gli uni e gli altri
ripetono all’infinito il già detto, insistono su particolari minuti e
spesso irrilevanti dilatandoli senza limiti, esibiscono con commozione
compunta gli aspetti più intimi e crudi, voltano e rivoltano il “caso”
alla ricerca estenuata di qualcosa: se l’ipotesi di uno scoop in
termini di informazione è obiettivamente difficile - considerata la
“copertura” che la notizia ha già ricevuto - che sia almeno ricerca
dello scoop emotivo, dello spettacolo, appunto. Dunque
dell’affermazione più toccante, dell’”analisi” più carica di
“sentimento”, della retorica più dolciastra, dell’osservazione più
struggente. L’orrore - insomma - diventa gossip. Con contenuti diversi,
ma con formato e codici identici a quello che si concentra sulle
avventure vere o inventate di personaggi famosi.
Non è facile interpretare il fenomeno, a parte il riferimento
all’esigenza commerciale di ampliare la audience di un prodotto che,
semplicemente, si vende bene, e non pretenderò di farlo in questa sede.
Alcuni elementi, però, possono essere oggetto di riflessione.
Probabilmente, vi è innanzitutto un’ansia di metabolizzazione: parlarne
e ri-parlarne assicura (in fantasia) una forma di elaborazione, di
controllo, di riconduzione al quotidiano di fatti che sono, al
contrario, il rivolgimento più drastico della quotidianità.
L’esibizione pubblica di buoni sentimenti ha una confortante funzione
di rassicurazione, tanto più in tempi di allarme sociale, diffuso e di
diversa origine. La coralità dello spettacolo si presta ad essere
intesa come solidarietà, condivisione, sollecitudine. Come in una
seduta collettiva di psicoterapia, inoltre, l’analisi infinita permette
di dare voce ad ogni forma di rimosso, con l’ambiguità e la duplicità
che gli è propria. Essa autorizza ogni voyerismo, rende dicibile ogni
ambivalenza, con la giustificazione tranquillizzante dell’interesse e
della partecipazione. Quello che si consuma in questi casi è insomma
una sorta di rito pubblico di purificazione, cura (inautentica ed
improbabile) di una parte malata dei nostri tempi.
Ma, infine, vi è una ulteriore caratteristica di formato da mettere in
evidenza, e che ha a che fare con il ruolo reciproco degli esperti che
intervengono con il loro sapere specializzato, e gli “altri”. Sono
questi ultimi, infatti, ad avere di solito lo spazio maggiore nello
show, coadiuvati dagli spezzoni di intervista a “persone della strada”
sapientemente intercalati nel programma. Come per una sorta di
rivincita rispetto alle specializzazioni accreditate, la tendenza è
precisamente quella di realizzare una omologazione “in basso”, sul
terreno del sentire comune. Funzione latente di tutto ciò, direbbe il
sociologo, è quella di creare ed esibire una condivisione generale,
trasversale, immediata, “nazional-popolare”: una forma, insomma, di
anti-intellettualismo a vantaggio di una percezione banalizzata e
condivisa. E anche questo è segno dei tempi.
Enzo
Campelli, sociologo
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Netanyahu:
“Nuovo mediatore
per il rilascio di Gilad Shalit”
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Un nuovo mediatore nei negoziati per il rilascio di Gilad Shalit. Il
premier israeliano Benjamin Netanyahu lo ha scelto nelle file del
Mossad, i servizi segreti dello Stato ebraico, il suo nome è David
Maidan, che subentra a Hadai Hadas, che ha lasciato l'incarico
ufficialmente per motivi familiari. Netanyahu ieri sera ha ricevuto i
genitori del soldato, Noam e Aviva Shalit, per informarli della scelta
del nuovo negoziatore.
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