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22 aprile
2011 - 18
Nisan 5771 |
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Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
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Rav
Shlomo Zalman Auerbach sostiene che spesso noi dimentichiamo che la
Haggadà di Pèsach è rivolta ai bambini. Tutta la Haggadà non è altro
che una risposta alle domande del bambino. Le domande sono fondamentali
nel processo educativo: Una risposta che non sia preceduta da una
domanda non è significativa. La Haggadà però è, come abbiamo detto, in
buona parte una risposta. Perché le domande del bambino sono domande
che esigono risposte diversamente da quelle di alcuni adulti che sono
affermazioni mascherate da domande. La Halakhà stabilisce che se non ci
sono bambini gli adulti si pongono le domande e danno le risposte. È un
invito a tornare ogni tanto bambini, a essere capaci di porre domande e di dare ma soprattutto ascoltare le risposte.
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Gadi
Luzzatto Voghera,
storico
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Una
settantina di morti, corpi trovati su una spiaggia libica e subito
sepolti. Avevano preso il mare evidentemente su un’imbarcazione non
adeguata per raggiungere l’Europa, la salvezza, magari una delle belle
spiagge del sud Italia. Una non notizia, per tutti. Ci si occupa di
guerra, ci si occupa di emergenze politiche fatte di riforme mancate,
dialettiche sinistra-centro-destra, crisi finanziarie, nucleare sì/no.
A nessuno, ma proprio a nessuno, importa di sapere chi erano questi
esseri umani, cosa cercavano e non hanno trovato, perché e come sono
morti, come fare per evitare che accada ancora. Notizia di cronaca
nelle pagine interne dei quotidiani, una tantum. Poi il silenzio. Non
parla la politica, non parlano i giornalisti, tace la Chiesa, tacciono
i pacifinti sempre pronti a manifestare, e pure le comunità ebraiche –
che di profughi se ne intendono essendo figlie storiche di questa
esperienza – non fanno sentire a sufficienza la propria voce. Si può
derogare all’imperativo talmudico “chi salva una vita salva il mondo
intero”? Non si può. E se certamente non abbiamo la bacchetta magica né
possiamo pretendere di risolvere l’intricato ginepraio che si è aperto
in nord Africa, possiamo però alzare la voce in pubblico per dire che
abbiamo visto, che sentiamo il grido di dolore di un’umanità disperata,
che non accettiamo il mercanteggiamento politico delle vite dei
profughi (clandestini o rifugiati che siano). Figli di migrazioni e di
diaspore epocali, abbiamo il diritto e il dovere di affermare la
dignità delle donne e degli uomini che cercano aiuto attraversando il
Mediterraneo. Ne va delle loro vite e della nostra storia, ne va della
dignità umana di fronte alle pochezze della politica italiana (e
francese).
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torna su ˄
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Qui Roma - Sport e dialogo |
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Ieri
la stretta di mano con il suo omologo palestinese, oggi l’abbraccio con
Roma ebraica. Nella Capitale per ritirare insieme al collega Jibril
Rajoub il prestigioso riconoscimento della Lupa Capitolina,
conferitogli durante il concerto Lo sport per la Pace,
il presidente del Comitato olimpico israeliano Zvi Varshaviak è stato
accompagnato questa mattina in visita alla sinagoga e al museo ebraico
di Roma dal presidente Ucei Renzo Gattegna e dal consigliere Ucei e
presidente della Federazione Italiana Maccabi Vittorio Pavoncello. La
visita arriva come suggello ad alcuni giorni romani ricchi di
significato ed emozioni. Sul tavolo la proposta del presidente del
Comitato Olimpico Internazionale Jacques Rogge, abbracciata con
entusiasmo dal vicepresidente del Cio Mario Pescante, dal presidente
del Coni Gianni Petrucci e dal sindaco di Roma Gianni Alemanno, di
lavorare a un accordo tra il Comitato israeliano e quello palestinese
che porti l’ente guidato da Varshaviak a fornire strutture adeguate per
gli allenamenti a disposizione della delegazione palestinese che si
prepara ai Giochi Olimpici di Londra 2012. Si tratta di un accordo di
straordinaria valenza simbolica che dovrebbe essere ratificato a
Losanna in maggio a conclusione di un percorso che aveva preso
recentemente avvio proprio nella città elvetica. “Un’iniziativa di
grande valore che ci riempie di orgoglio” commenta il presidente
Gattegna. A cui si associa Pavoncello che ricorda l'importanza della
visita di Varshaviak in Italia nel consolidamento dei rapporti tra
Israele e Roma. “Un rapporto fortissimo che è stato possibile
rinforzare ulteriormente” dice infatti Pavoncello. In occasione della
conferenza stampa di presentazione del concerto svoltasi in Campidoglio
mercoledì scorso Varshaviak, alla presenza di Pavoncello, ha
formalmente invitato il sindaco Alemanno al Plenum del Maccabi in
programma in Israele a maggio e formulato il suo personalissimo augurio
affinché il Comitato promotore delle Olimpiadi di Roma 2020 presieduto
da Pescante raggiunga l’obiettivo di portare i Giochi in riva al Tevere.
Adam Smulevich
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“Salviamo i tre nomi di Gerusalemme”
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Yerushalaim
in ebraico, in lettere arabe e in inglese cancellando dalle insegne
stradali e dalle carte geografiche le diciture Al Qudz in arabo e
Jerusalem in inglese. Così anche per tutti i nomi delle località in
Israele fatta eccezione per le città e i villaggi di popolazione araba.
È una recente proposta del ministro dei Trasporti Israel Katz del
Likud, partito del primo ministro Benyamin Netanyahu. Come considera
quest’ipotesi, domando a Moshe Brawer, dal 2002 presidente della
Commissione per i nomi (Veadat Hashemot, di cui è membro da oltre
trent’anni), geografo fondatore all’università di Tel Aviv della
facoltà di geografia. “Ai primi di febbraio abbiamo avuto una riunione
della Commissione composta da undici scienziati e da cinque
rappresentanti delle autorità compreso del ministero dei Trasporti -
risponde Brawer - e la stragrande maggioranza dei membri, tutti inclusi
tutti gli scienziati, era contraria alla proposta. E per legge dal 1950
senza l’approvazione della Commissione non si può dare un nome ad una
località in Israele”. È pensabile, tuttavia, che l’argomento verrà
ancora sollevato dal ministro dei Trasporti perché la Commissione non
si è espressa ufficialmente anche se il suo orientamento è ben noto e
alcuni membri hanno perfino minacciato di dimettersi se la proposta
dovesse essere in qualche modo approvata. Qual è stato il ruolo storico
della Commissione per i nomi? “Dopo la nascita dello Stato di Israele
sono stati dati 1500 nomi a città villaggi e kibbutzim e circa 5mila
500 nomi alle vallate ai monti ai fiumi. La carta geografica di Israele
si è così arricchita di numerosi nomi prevalentemente in ebraico”,
racconta il geografo. “Esistevano, certo, nomi arabi per esempio per i
fiumi - spiega Brawer - ma gli arabi spesso usavano nomi diversi per i
vari tratti dei fiumi ed è mancata la precisione oggi richiesta”.
Dunque
per molti luoghi di interesse geografico non esistevano nomi specifici
anche perché la popolazione era più scarsa. “Per quanto riguardano i
criteri che utilizziamo - prosegue Brawer - il primo è certamente la
fonte biblica e storica. Il libro di Yehoshua, ad esempio, è molto
ricco di nomi di località, altri si trovano non solo nella Bibbia ma
anche nella Mishnah e nelle fonti storiche dei primi secoli come ad
esempio in Giuseppe Flavio”. Per la precisa ubicazione degli antichi
insediamenti o di luoghi geografici, la Commissione si rivolge ai suoi
storici e ai geografi ed è spesso aiutata dal fatto che gli arabi, dopo
la conquista del Paese nel settimo secolo, hanno quasi sempre
conservato l’antico nome delle località. Quando manca il riferimento
biblico storico o archeologico si pensa alla descrizione geografica e
alle caratteristiche della natura. L’opinione dei geografi, dei
botanici e dei zoologi della Commissione ha qui un importanza
particolare. Molto diffuso è anche dare il nome di un personaggio che
ha contribuito allo sviluppo del Paese dal punto di vista politico,
militare e culturale. “Da qualche anno è stato deciso di non dare nomi
altro che in lingua ebraica così non si trovano recentemente luoghi con
nomi stranieri anche se i vecchi restano. Il nome delle località arabe
non sono modificati”, dice Brawer. “Ogni nome deve avere il nullaosta
del rappresentante in seno alla commissione dell’accademia della lingua
ebraica in modo da evitare errori. Alla Commissione, non compete dare
nomi a strade e piazze nelle municipalità che sono di competenza delle
autorità locali”. La Commissione è unica nel suo genere. Infatti ai
tempi del colonialismo europeo i nomi dei nuovi insediamenti sono stati
dati dagli immigranti talvolta ricordando le loro città di origine, ma
non è mai esistita una “commissione” ufficiale. E non esisteva neppure
per gli insediamenti ebraici agli albori dello Yishuv. Dopo la
conquista britannica però, per necessità militari e civili, fu creato
un centro cartografico che doveva affrontare il problema dei nomi delle
località e della loro trascrizione nelle tre lingue ufficiali, cioè
inglese, arabo ed ebraico. A tale scopo fu creata la prima “commissione
dei nomi” composta di esperti inglesi, arabi ed ebrei, tre per ciascun
gruppo che in realtà si riunivano solo separatamente. Per la parte
ebraiche sono stati nominati David Yelin, glottologo, Avraham Ya’acov
Brawer (padre dell’attuale presidente della commissione) e Zvi Ben Zvi
che rappresentava le autorità sioniste. Nel 1950, su proposta di David
Ben Gurion, la commissione diventa parte dell’ufficio allargato della
presidenza del Consiglio, alla quale viene dato il compito esclusivo di
dare nomi alle località israeliane. “La Commissione - spiega Brawer - è
aperta a contestazioni sia da parte di scienziati che dagli stessi
abitanti direttamente interessati e ci sono ripensamenti. Le riunioni,
che per lo più assumono carattere di un simposio scientifico, sono
aperte ai richiedenti. I rapporti con la popolazione direttamente
interessata sono sempre stretti”. In effetti ricordo di aver
partecipato, ancora studentessa, a una di quelle riunioni. La
Commissione si recò in Galilea per incontrare i membri di un nuovo
kibbutz: un momento indimenticabile quello di dare un nome, quasi
fossero tutti genitori di un neonato timorosi di sbagliare desiderosi
di scegliere un nome corretto e per loro anche bello, un nome che
dovrebbe seguirli per la vita, possibilmente per quella dei figli e
nipoti, un nome che resta e resterà sulle carte geografiche e sui libri.
Hulda Brawer Liberanome, Pagine Ebraiche, aprile 2011
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Festa della libertà
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Ieri
sera a Torino fiaccolata (fortunatamente anticipata) per festeggiare il
25 aprile; come sempre la Comunità Ebraica di Torino ha partecipato con
il proprio gonfalone, che è stato ospitato sul palco delle autorità;
tra gli oratori due partigiani, Ugo Sacerdote e Massimo Ottolenghi,
curiosamente entrambi membri della nostra comunità. Una presenza
ebraica visibile, così come visibile è stata la partecipazione degli
ebrei piemontesi alla Resistenza. Del resto noi ebrei abbiamo qualche
motivo in più per festeggiare il 25 aprile: non solo la liberazione
dell’Italia e il ritorno della democrazia, ma anche la fine delle
persecuzioni, delle fughe, dei pericoli, e la possibilità di essere
nuovamente cittadini italiani come gli altri. E’ utile ricordare che
gli ebrei erano perseguitati in quanto ebrei, ed era in atto un preciso
progetto di sterminio del popolo ebraico: la Liberazione (che ha rappresentato
il fallimento di questo progetto e la possibilità di sopravvivenza per
gli ebrei in Italia) ha quindi anche un significato specificamente
ebraico. Talvolta, come quest’anno, il 25 aprile capita durante
Pesach, e le due feste della libertà vengono a coincidere. Non è stato
così nel 1945, eppure nei ricordi di chi l’ha vissuta la liberazione
dalla persecuzione nazifascista ha assunto quasi naturalmente il
linguaggio e la simbologia di Pesach, e a sua volta ogni Pesach
successivo si è arricchito con il ricordo della liberazione vissuta
personalmente. Alcuni anni fa un’ospite a cui avevo posto la domanda
“Cosa rappresenta il seder per te?” ha risposto, tra le altre cose:
“Noi che siamo scampati allo sterminio nazista possiamo veramente
sentirci come gli ebrei usciti dall’Egitto”. Non credo che questo
significhi attribuire alla festa di Pesach significati non suoi, perché
l’invito ad attualizzare la liberazione viene dalla stessa Haggadah;
anzi, è straordinario che tante persone in tante epoche diverse abbiano
percepito e percepiscano come fortemente attuale un evento accaduto più
di tremila anni fa, al punto che spesso gli stessi ricordi sono
plasmati secondo il racconto della liberazione dall’Egitto. Pesach
influenza la percezione che gli ebrei hanno del 25 aprile probabilmente
più di quanto la coincidenza con il 25 aprile influenzi il nostro modo
di vivere Pesach.
Anna
Segre, insegnante
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rassegna
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Israele - Allarme attentati
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Mossa
senza precedenti dei servizi segreti israeliani che hanno rivelato i
nomi di alcuni dirigenti del braccio armato degli Hezbollah libanesi
che, secondo fonti di sicurezza a Tel Aviv, hanno messo a punto un
attentato contro un obiettivo israeliano in uno degli Stati affacciati
sul Mediterraneo. I preparativi logistici sembrano essere già iniziati
e, a quanto viene precisato, l'attentato potrebbe essere questione di
giorni. In occasione della festività ebraica di Pesach (Pasqua) circa
65 mila israeliani sono partiti verso i diversi Paesi mediterranei.Il
primo nome della lista è quello di Talal Hamyah, indicato come il
comandante dell'Apparato degli Hezbollah per la sicurezza esterna. Al
fianco di Hamyah, opera Ahmed al-Fayed. All'organizzazione
dell'attentato, secondo i quotidiani di Tel Aviv, partecipano anche
l'uomo di affari libanese Naim Haris, l'esperto di esplosivi Ali Nagem
al-Adin e un uomo di affari turco, Mehmet Taharorlu. Secondo alcuni
esperti è possibile che la vistosa pubblicazione di questi nomi sui
mass media israeliani costituisca una specie di segnale in
codice, per dissuadere in extremis gli Hezbollah dal compiere
l'attentato
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è il giornale dell'ebraismo
italiano |
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 |
Dafdaf
è il giornale ebraico per bambini |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
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