Vincitore
del Man Booker Prize 2010, oltre 450 mila copie vendute nella sola
Inghilterra, nei top ten delle classifiche inglesi per 24 settimane, da
oggi in libreria anche in Italia per Cargo il bestseller di Howard
Jacobson: L’enigma di Finkler, tradotto da Milena Zemira Cicimarra.
Marito distratto e insaziabile infedele, uomo di spiccata personalità e
umorismo tagliente, Samuel Finkler è un personaggio televisivo,
filosofo pop e autore di best seller quali L’esistenzialista ai
fornelli e Il palpeggio socratico: come migliorare la vostra vita
sessuale grazie al metodo maieutico. E così Finkler tra una battuta e
l’altra trasforma Schopenhauer in un manualetto per superare le
difficoltà in amore, Hegel diventa essenziale nei preparativi per le
vacanze e il Tractatus di Wittgenstein svela il segreto per memorizzare
in meno di un’ora più di cento codici pin. Samuel Finkler è
indubitabilmente un uomo di successo. Ma è anche l’incarnazione e
protoipo dell’ebreo… almeno per Julian Treslove, suo amico ma anche suo
opposto: sentimentale e scialbo, vittima del “complesso di Ofelia” (non
fa che immaginarsi mentre stringe tra le braccia la donna amata
morente), che nella sua vita non è mai riuscito a combinare granché.
Infatti sbarca il lunario facendo il sosia di celebrità ai party di
gente altolocata. I due sono amici sin dai tempi della scuola, ma
Treslove ha sempre avuto con Finkler un rapporto ambivalente, fatto di
ammirazione, competizione, invidia e soprattutto curiosità per
quell’universo “altro” e sconosciuto che è l’ebraismo. Tanto da
sviluppare, in seguito a un banale incidente, una forma di ossessione,
una sorta di “giudaite” che lo porterà a contatto con un mondo fatto
dei personaggi più improbabili: da sette ebrei pentiti che vogliono
ricorrere alla chirugia per farsi “ricostruire” il prepuzio, a esperti
di svastiche nostalgici del Reich.
Chiedimi cos’è un ebreo
“Mi
ivrì?”, chi è ebreo?: una classica domanda della legge ebraica, che da
un secolo o due ha preso più importanza del solito e risposte più
diversificate, per via dei matrimoni misti, delle persecuzioni,
dell’immigrazione in Israele, tutti assieme. Ma c’è un’altra domanda
simile, che ci si pone di solito molto meno: “Mah ivri?”, che cos’è un
ebreo?, qual è il senso e l’essenza dell’identità personale ebraica, se
ce n’è davvero una? É una domanda che di solito gli ebrei non si
pongono volentieri, ben consapevoli della grande complessità e
frammentazione della vita ebraica, addestrati anche dalla loro cultura
a riconoscere personalità diversissime nelle loro narrazioni: eroi e
poeti, vittime e combattenti, mistici e sabra, commercianti e studiosi.
E inoltre gli ebrei sono immersi da sempre in un pensiero
antiessenzialista, che lascia questo tipo di domande ai greci: “tì
esti?” E però è una domanda, anzi un “enigma” che torna qualche volta
nelle conversazioni con amici di altra provenienza o negli sguardi che
uno si sente addosso, e magari nei suoi dubbi e nelle sue certezze più
intime: esiste un Dna ebraico (non razziale, beninteso, ma culturale,
esistenziale, umano...), c’è qualcosa per cui non ci conosciamo, forse,
ma ci riconosciamo sempre? É questa la questione cui prova a rispondere
un libro inglese di grande successo. E dato che “è nel racconto che
affiora l’inconscio; è raccontando agli altri e a noi stessi che diamo
ordine all’esperienza” (Rosamaria Loretelli), non si tratta di un
saggio, ma di un romanzo di un autore ebreo britannico molto noto,
Howard Jacobson, intitolato L’enigma di Finkler (Cargo editore, 400
pp.) - ma in inglese il titolo è più intrigante: The Finkler Question,
dove non solo una questione è sempre più ambigua e sfumata e perenne di
un enigma, ma la parola Finkler può essere intesa grammaticalmente sia
al singolare che al plurale. Ora per il protagonista Julian Treslove,
uno strano gentile malinconico e riflessivo, Sam Finkler al singolare è
il compagno di scuola ebreo che gli induce invidia non confessata e
evidente insicurezza, ma “i Finkler” al plurale è il suo nome personale
per gli ebrei. E in effetti la questione in cui si dibatte il romanzo
non è tanto quella di un eventuale segreto di Finkler – il più
superficiale e banale dei personaggi del romanzo – quanto quello della
sfida dell’ebraicità, l’enigma “dei” Finkler. Finkler e Treslove hanno
avuto un professore, ebreo anche lui, Libor Sevik, che è diventato loro
amico; ed è nei rapporti fra i tre uomini e in quelli di ciascuno di
loro con le donne che si dipana la trama del romanzo,
dall’innamoramento di Treslove per l’identità ebraica (e per un paio di
donne che ai suoi occhi sembrano rappresentarla) al fallimento finale
della sua folle identificazione, passando per la morte delle mogli dei
due altri personaggi, per la militanza antisionista di Finkler, per una
strana aggressione “antisemita” subita da Treslove, per il suo amore
per una lontana parente di Sevik, per il suicidio di costui.
Naturalmente l’ebraicità o piuttosto la finklerità che interessa a
Treslove è assai parziale, non ha natura religiosa o di pensiero ma è
sociale, familiare, linguistica, comportamentale, perfino erotica (e
giustamente Sevik a un certo punto gli dice che c’è dell’antisemitismo
inconscio nella sua passione). Inoltre, anche sul piano sociale, è un
tipo assai particolare di ebraismo, un po’ esotico per noi: quello
della piccola o media borghesia askenazita immigrata in Inghilterra due
o tre generazioni fa, che ancora usa termini yiddish nei rapporti
familiari, nei giorni di festa mangia aringa e gefillte fish, che è
fatta di grandi famiglie provenienti dalla Germania o dalla Boemia.
Molto diverso, naturalmente, dall’ebraismo israeliano, ma anche
francese o italiano, più simile a Woody Allen, che viene subito in
mente - tanto il libro è divertente -, insieme al Lamento di Portnoy e
alla Versione di Barney, i grandi romanzi caso tutti comici con un
fondo di cosmica tristezza e impotenza. Il libro è molto divertente, ma
proprio per questo riesce a rivelare verità di solito non dette su
alcune questioni decisive. Il primo è l’immagine che dell’ebraismo si
fanno talvolta i gentili, antisemiti come filosemiti (e l’immagine che
gli ebrei si fanno di quest’immagine): un’idea eccessiva in cui i
singoli tratti sono esagerati con un effetto caricaturale, a cui
soprattutto sfugge la banalità della maggior parte delle vite ebraiche.
C’è una battuta nel libro particolarmente rivelatrice: per Jacobson,
ancor più che per i suoi personaggi, i non ebrei si dividono fra quelli
che in fondo vorrebbero diventare ebrei e quelli che in fondo
vorrebbero sterminarli (magari senza che i due atteggiamenti siano
incompatibili). “I tempi buoni sono quelli in cui provvisoriamente
prevalgono i primi.” Un altro punto decisivo è l’analisi di
quell’atteggiamento antisionista che di solito si capisce come “odio di
sé” ebraico: in Gran Bretagna diffusissimo, anche da noi non raro
soprattutto fra gli intellettuali. Finkler, tronfia celebrità
televisiva, fonda un circolo di “ebrei che si vergognano”, naturalmente
degli “orrendi crimini” che attribuiscono allo Stato di Israele, ma in
realtà anche del loro ebraismo: non ci sono fra loro solo le virago che
paragonano l’”occupazione” al nazismo, magari per assolvere il nazismo
da ogni colpa, ma anche tipi folli che passano la giornata a cercare di
cancellare la circoncisione, sforzandosi di allungare di nuovo il
prepuzio con elastici, pinze e altri mezzi meccanici. Se i non ebrei in
questo libro sono affascinati dall’ebraismo, buona parte degli ebrei
vorrebbero evaderne, per le pretese eccessive sulla loro vita cui
vorrebbero sfuggire, o perché applicano proprio quelle pretese
eccessive al comportamento dello Stato di Israele. Il tema del romanzo
è dunque sì il fascino dell’ebraismo, ma anche la potenza angosciosa
dell’antisemitismo dentro e fuori dall’anima ebraica. Un libro che
dunque si può leggere sì per divertirsi – ed è impossibile non
sorridere quasi a ogni pagina; ma anche un libro per pensare, uno
specchio parecchio deformante che riflette la nostra identità in
maniera impensata e sorprendente
Ugo Volli, Pagine Ebraiche, maggio 2011
Appuntamento al Groucho Club per chi si vergogna di Israele
Anticipiamo
qui sotto un estratto del romanzo L’enigma di Finkler (tratto dal
capitolo 1 della seconda parte), in cui si descrivono le improbabili
riunioni degli ASHamed Jews, ovvero quelli che “ci vergogniamo del
sionismo, ma solo in quanto ebrei”.
Ogni mercoledì,
festività permettendo, Finkler si incontrava con i membri degli ASHamed
Jews al Groucho Club a Soho. Non tutti sognavano di prendere il padre a
pugni nello stomaco. Alcuni provavano ancora un tenero attaccamento per
la fede in cui erano stati allevati – di qui il loro bisogno di
giustificarsi quando una delle serate in cui gli ASHamed Jews si
riunivano coincideva con quelle ricorrenze che si sentivano ancora
abbastanza ebrei da chiamare Yom Tov: Rosh Hashanah, Yom Kippur,
Succot, Simchat Torah, Shavuot, Purim, Pesach, Chanukkah. “E compagnia
bella,” come diceva Finkler. ASHamed Jews come questi si vergognavano
non tanto degli altri ebrei, quanto dei sionisti. Ragion per cui c’era
sempre ai margini del movimento un certo grado di insoddisfazione per
il nome che si erano scelti. Non sarebbe stato meglio chiamarsi ASHamed
Zionists? Questo nome non avrebbe descritto in maniera più accurata le
origini e la natura della loro vergogna? Per ragioni di eufonia,
Finkler non condivideva. E per ragioni di logica, era assolutamente
contrario. “Se vi chiamaste ASHamed Zionists,” diceva “vi precludereste
automaticamente l’adesione di chi come me non è mai stato sionista. E
soprattutto allarghereste la partecipazione al gruppo anche ai non
ebrei, considerato che al mondo le persone che, per ragioni di umanità,
si vergognano del sionismo sono tante. Noi però ce ne vergogniamo sì
per umanità, ma solo in quanto ebrei. Ed è questa la nostra
peculiarità, credo”. Uno o due membri del gruppo avevano l’impressione
che quel ragionamento sottintendesse un certo razzismo, come se alla
vergogna degli ebrei si dovesse attribuire un più elevato valore che a
quella di chiunque altro, ma Finkler mise a tacere quei sospetti
sottolineando che, malgrado loro non avessero alcun monopolio sulla
vergogna, e sebbene fossero chiaramente aperti all’idea di fare causa
comune con altre persone che si vergognassero delle stesse cose di cui
si vergognavano loro – personalmente era favorevole a un certo grado di
ecumenismo – tuttavia solo gli ebrei potevano vergognarsi da ebrei. E
dunque solo loro potevano manifestare, dall’interno, un senso di
tradimento. Questo scatenò in breve un’ulteriore discussione: in tal
caso, il nome migliore per loro non sarebbe stato Betrayed Jews, ebrei
traditi? Ma di nuovo Finkler la spuntò, argomentando che “tradimento”
era un termine troppo astioso per issarlo a vessillo della loro causa,
in quanto implicava che fossero contro il sionismo solo perché se ne
sentivano in qualche modo esclusi o abbandonati, e non perché esso
rappresentava un crimine contro l’umanità. E se uno o due ASHamed Jews
pensarono che Finkler pretendesse di stare con un piede in due scarpe –
facendo di un’offesa personale una virtù e poi condannando la cosa –
preferirono tenerlo per sé. Forse perché anche per loro la vergogna era
e non era un accidente biografico, era e non era un mormorio del cuore,
era e non era patrimonio di tutti, e la sua fondatezza era sensibile
ora alla ragione, ora al sentimento. Fu stabilito, almeno
provvisoriamente, che a quei membri che solo in parte si vergognavano –
vale a dire che si vergognavano, in quanto ebrei, del sionismo, ma non,
in quanto ebrei, di essere ebrei – era consentito sospendere la loro
mortificazione in occasione di Rosh Hashanah, Yom Kippur, Chanukkah e
via dicendo, e riprenderla una volta terminati i giorni santi. Quanto
agli altri, erano liberi di fare come volevano. Il gruppo era anzitutto
eterogeneo. Includeva ebrei come Finkler, la cui vergogna abbracciava
il consesso degli ebrei al completo e a cui non importava un accidenti
delle festività maggiori, ed ebrei che dell’ebraismo non ne sapevano un
corno, che erano stati cresciuti come marxisti e atei, da genitori che
avevano cambiato nome e si erano trasferiti nelle campagne del
Berkshire per allevare cavalli, e che si erano assunti l’onere delle
loro origini ebraiche solo per potersene sbarazzare. La logica che
impediva a coloro che non erano mai stati sionisti di chiamarsi ASHamed
Zionists non si estendeva anche agli ebrei che non erano mai stati
ebrei. Per essere uno degli ASHamed Jews non c’era bisogno di essere
stato per tutta la vita un ebreo consapevole. Anzi, uno di loro aveva
scoperto di essere ebreo solo partecipando a una trasmissione
televisiva nel corso della quale era stato messo faccia a faccia dalle
telecamere con chi realmente fosse. Nell’ultima sequenza della puntata
lo si vedeva ad Auschwitz, mentre piangeva davanti a un monumento
commemorativo per antenati che fino a quel momento non aveva mai saputo
di avere. “Questo potrebbe spiegare da dove ho preso la mia vena
comica” dichiarò durante un’intervista per un quotidiano, anche se
ormai aveva già rinegoziato la dedizione alle sue origini. Nato ebreo
di lunedì, si era iscritto agli ASHamed Jews di mercoledì e il sabato
successivo era stato visto inneggiare “Siamo tutti Hezbollah” fuori
dall’ambasciata israeliana. Era stato Finkler a suggerire il Groucho
Club come luogo di ritrovo per le riunioni, quando gli ASHamed Jews lo
avevano cooptato alla loro causa. Fino ad allora, i mortificati ancora
in fase embrionale si erano visti a casa dell’uno o dell’altro membro a
Belsize Park e Primrose Hill, ma Finkler sosteneva che ciò
addomesticasse la loro lotta e le conferisse un carattere
isolazionistico. A coloro che apparivano riluttanti a discutere
questioni di tale impellenza in un luogo di alcol e divertimento (che
per di più portava il nome di un ebreo che raccontava barzellette sugli
ebrei) mise in evidenza i vantaggi della pubblicità. Non aveva alcun
senso vergognarsi di essere un ebreo che si vergognava di essere ebreo.
Il loro obiettivo era proprio quello di farsi vedere da tutti.
L’opinione di Tyler era che per suo marito essere un ASHamed Jew fosse
tutt’uno con il trovarsi sotto le sfavillanti luci della ribalta. Le
era capitato di accompagnarlo al Groucho Club in passato, in epoca
pre-ASHamed Jews, e aveva visto come si comportava – l’ostentazione con
cui dispensava elemosine ai barboni discreti e ai venditori della “Big
Issue” che si raccoglievano in strada fuori dal locale, l’affettazione
con cui apponeva la firma nel libro dei membri, le chiacchiere
scambiate con il personale che lo ricompensava pronunciando il suo nome
in tono mellifluo, il piacere che provava nel socializzare con registi
e studiosi dei mezzi di comunicazione al bar. E ora che faceva anche il
pezzo grosso con i suoi ASHamed Jews, Tyler sapeva esattamente come
doveva sentirsi trionfante, l’immodesto godimento che provava a vedere
la sua autorità estendersi ben più al di là della filosofia. Dopo la
morte di Tyler, sebbene ci si potesse aspettare che, non più soggetto
al caustico giudizio della moglie, Finkler ne avrebbe approfittato per
manifestare un ancor più sfrenato compiacimento, aveva al contrario
mitigato il suo contegno. Lo doveva alla memoria della moglie, pensava.
Il suo decoro era una sorta di epitaffio nei suoi confronti. Certo,
Tyler avrebbe preferito che lui abbandonasse del tutto gli ASHamed
Jews, ne era consapevole. Ma non poteva arrivare a tanto. Il movimento
aveva bisogno di lui. I palestinesi avevano bisogno di lui. Il Groucho
Club aveva bisogno di lui. Non sempre filava tutto liscio. Nelle serate
tranquille un tavolo d’angolo nel ristorante dava loro, nella giusta
misura, quel senso di apertura “verso l’esterno” di cui avevano
bisogno, ma quando il club era affollato altri avventori potevano
cogliere i loro discorsi e a volte si sentivano autorizzati a
intromettersi. Ciò era tollerabile finché quegli interventi non
sollecitati erano favorevoli e non eccessivamente chiassosi, ma
eventuali divergenze di opinioni rischiavano di sfuggire di mano, come
quella volta in cui un gruppo di commensali che lavoravano
nell’industria musicale e indossavano braccialetti di spago rosso del
Centro della Kabbalah, avuto sentore delle questioni trattate dagli
ASHamed Jews, cercarono di farli espellere dal club come antisemiti. Ne
derivò un’animosa lite nel corso della quale il comico Ivo Cohen finì
al tappeto per la seconda volta nella sua veste di ASHamed Jew (il
primo knockout era avvenuto in occasione di una dimostrazione a
Trafalgar Square, durante uno scontro con un gruppo che si chiamava
Cristiani per Israele). “Bell’esempio di spiritualità ebraica!” sbottò
sistemandosi la camicia nei pantaloni, riecheggiando le parole
“Bell’esempio di spiritualità cristiana!” con le quali aveva sfidato i
suoi aggressori a Trafalgar Square. Era un uomo basso e bene in carne
che non ci metteva molto a cadere. E poiché i suoi numeri appartenevano
al genere noto come farsa alla Marx (Karl, non Groucho), che richiedeva
che cascasse a ogni piè sospinto, nessuno prese l’incidente troppo sul
serio. Ma al club non erano disposti a permettere che si verificassero
ancora episodi del genere e insistettero che ogni ulteriore incontro
degli ASHamed Jews avesse luogo altrove o in una saletta privata al
secondo piano.
Howard Jakobson, estratto pubblicato su Pagine Ebraiche, maggio 2011
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