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5 maggio 2011 - 1 Iyar 5771
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alef/tav
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rav riccardo di segni Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma
Gli ebrei quando litigano anche duramente su certi argomenti possono avere una consolazione (che sia magra è poi da vedere): non è mai un problema nuovo e qualcuno ha già detto qualcosa di importante qualche secolo o qualche millennio prima. Proprio mentre esplode (o viene soffocata, secondo le opinioni) l'ennesima crisi di leadership e di rappresentanza nostrana, siamo tenuti a leggere il tesoro di saggezza rabbinica chiamato Avoth "I padri", un capitolo a settimana in attesa di Shavuot. Il capitolo della settimana riferisce gli insegnamenti di Rabban Gamliel figlio di rabbi Yehudà haNasì, presidente del Sinedrio agli inizi del terzo secolo, in un raro momento di brillanti rapporti con il potere imperiale romano. Diceva Rabban Gamliel: "Tutti coloro che si adoperano con [per] il pubblico [cioè: lavorano per la società, la comunità]  lo facciano insieme al pubblico a scopi superiori, [con la consapevolezza e il conforto che] il merito dei padri li sostiene, e [il frutto del]le loro buone azioni permane per sempre... State attenti al potere, perché non avvicina le persone se non per interessi propri, sembrano amici nel momento del loro vantaggio, ma non sostengono le persone nel momento del bisogno".
Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola
Nell'annunciare la cattura e l'uccisione di Osama Bin Laden, il presidente Barack Obama ha citato con semplicità una frase dalla dichiarazione di lealtà alla bandiera e alla repubblica degli Stati Uniti, che tutti in America sanno a memoria fin dall'infanzia: "One nation under God, undivided, with liberty and justice for all". Credo sarebbe difficile per un capo di stato europeo citare con pari efficacia una frase dalla carta costituiva dell'Unione Europea, che quasi nessuno in Europa conosce. Le differenze fra la filosofia politica degli Stati Uniti e dell'Europa sono profonde, e da queste derivano radicali differenze nelle rispettive decisioni strategiche e operative. Dopo Bin Laden, la guerra di civiltà fra l'Occidente americano e il terrorismo islamico certamente continua. Anche in Europa, forse con meno assoluta convinzione e con maggiori resistenze, si cerca di mettere a fuoco il problema. Fra la lotta senza misericordia al terrorismo, da un lato, e il suo sostegno attivo, dall'altro, gli indecisi, i neutrali, gli astenuti e i possibilisti sono ancora molti.  
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davar
Comunità-Unione: il vicepresidente Calò ritira le dimissioni
"La delibera del Consiglio ha dimostrato grande equilibrio"
davarIl vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Anselmo Calò ha dichiarato:

"Le numerose sollecitazioni al senso di responsabilità che ho ricevuto da molti amici di Roma e delle altre Comunità ebraiche italiane, a iniziare da quella di Rav Riccardo Di Segni, che desidero ringraziare per l'apprezzamento del mio lavoro, mi spingono a ritirare le mie dimissioni e ad assumere nuovamente i miei incarichi nella Giunta dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane".
"Ringrazio anche il Presidente dell'UCEI, Renzo Gattegna, e tutti i Consiglieri dell'Unione per aver voluto cogliere il senso positivo delle questioni da me sollevate con una delibera di grande equilibrio. Spero che questa mia decisione contribuisca a rasserenare tutti, pur mantenendo il necessario dibattito all'interno delle istituzioni ebraiche".


Howard Jacobson: "L'Enigma di Finkler"
jscobsonVincitore del Man Booker Prize 2010, oltre 450 mila copie vendute nella sola Inghilterra, nei top ten delle classifiche inglesi per 24 settimane, da oggi in libreria anche in Italia per Cargo il bestseller di Howard Jacobson: L’enigma di Finkler, tradotto da Milena Zemira Cicimarra. Marito distratto e insaziabile infedele, uomo di spiccata personalità e umorismo tagliente, Samuel Finkler è un personaggio televisivo, filosofo pop e autore di best seller quali L’esistenzialista ai fornelli e Il palpeggio socratico: come migliorare la vostra vita sessuale grazie al metodo maieutico. E così Finkler tra una battuta e l’altra trasforma Schopenhauer in un manualetto per superare le difficoltà in amore, Hegel diventa essenziale nei preparativi per le vacanze e il Tractatus di Wittgenstein svela il segreto per memorizzare in meno di un’ora più di cento codici pin. Samuel Finkler è indubitabilmente un uomo di successo. Ma è anche l’incarnazione e protoipo dell’ebreo… almeno per Julian Treslove, suo amico ma anche suo opposto: sentimentale e scialbo, vittima del “complesso di Ofelia” (non fa che immaginarsi mentre stringe tra le braccia la donna amata morente), che nella sua vita non è mai riuscito a combinare granché. Infatti sbarca il lunario facendo il sosia di celebrità ai party di gente altolocata. I due sono amici sin dai tempi della scuola, ma Treslove ha sempre avuto con Finkler un rapporto ambivalente, fatto di ammirazione, competizione, invidia e soprattutto curiosità per quell’universo “altro” e sconosciuto che è l’ebraismo. Tanto da sviluppare, in seguito a un banale incidente, una forma di ossessione, una sorta di “giudaite” che lo porterà a contatto con un mondo fatto dei personaggi più improbabili: da sette ebrei pentiti che vogliono ricorrere alla chirugia per farsi “ricostruire” il prepuzio, a esperti di svastiche nostalgici del Reich.

Chiedimi cos’è un ebreo

enigma“Mi ivrì?”, chi è ebreo?: una classica domanda della legge ebraica, che da un secolo o due ha preso più importanza del solito e risposte più diversificate, per via dei matrimoni misti, delle persecuzioni, dell’immigrazione in Israele, tutti assieme. Ma c’è un’altra domanda simile, che ci si pone di solito molto meno: “Mah ivri?”, che cos’è un ebreo?, qual è il senso e l’essenza dell’identità personale ebraica, se ce n’è davvero una? É una domanda che di solito gli ebrei non si pongono volentieri, ben consapevoli della grande complessità e frammentazione della vita ebraica, addestrati anche dalla loro cultura a riconoscere personalità diversissime nelle loro narrazioni: eroi e poeti, vittime e combattenti, mistici e sabra, commercianti e studiosi. E inoltre gli ebrei sono immersi da sempre in un pensiero antiessenzialista, che lascia questo tipo di domande ai greci: “tì esti?” E però è una domanda, anzi un “enigma” che torna qualche volta nelle conversazioni con amici di altra provenienza o negli sguardi che uno si sente addosso, e magari nei suoi dubbi e nelle sue certezze più intime: esiste un Dna ebraico (non razziale, beninteso, ma culturale, esistenziale, umano...), c’è qualcosa per cui non ci conosciamo, forse, ma ci riconosciamo sempre? É questa la questione cui prova a rispondere un libro inglese di grande successo. E dato che “è nel racconto che affiora l’inconscio; è raccontando agli altri e a noi stessi che diamo ordine all’esperienza” (Rosamaria Loretelli), non si tratta di un saggio, ma di un romanzo di un autore ebreo britannico molto noto, Howard Jacobson, intitolato L’enigma di Finkler (Cargo editore, 400 pp.) - ma in inglese il titolo è più intrigante: The Finkler Question, dove non solo una questione è sempre più ambigua e sfumata e perenne di un enigma, ma la parola Finkler può essere intesa grammaticalmente sia al singolare che al plurale. Ora per il protagonista Julian Treslove, uno strano gentile malinconico e riflessivo, Sam Finkler al singolare è il compagno di scuola ebreo che gli induce invidia non confessata e evidente insicurezza, ma “i Finkler” al plurale è il suo nome personale per gli ebrei. E in effetti la questione in cui si dibatte il romanzo non è tanto quella di un eventuale segreto di Finkler – il più superficiale e banale dei personaggi del romanzo – quanto quello della sfida dell’ebraicità, l’enigma “dei” Finkler. Finkler e Treslove hanno avuto un professore, ebreo anche lui, Libor Sevik, che è diventato loro amico; ed è nei rapporti fra i tre uomini e in quelli di ciascuno di loro con le donne che si dipana la trama del romanzo, dall’innamoramento di Treslove per l’identità ebraica (e per un paio di donne che ai suoi occhi sembrano rappresentarla) al fallimento finale della sua folle identificazione, passando per la morte delle mogli dei due altri personaggi, per la militanza antisionista di Finkler, per una strana aggressione “antisemita” subita da Treslove, per il suo amore per una lontana parente di Sevik, per il suicidio di costui. Naturalmente l’ebraicità o piuttosto la finklerità che interessa a Treslove è assai parziale, non ha natura religiosa o di pensiero ma è sociale, familiare, linguistica, comportamentale, perfino erotica (e giustamente Sevik a un certo punto gli dice che c’è dell’antisemitismo inconscio nella sua passione). Inoltre, anche sul piano sociale, è un tipo assai particolare di ebraismo, un po’ esotico per noi: quello della piccola o media borghesia askenazita immigrata in Inghilterra due o tre generazioni fa, che ancora usa termini yiddish nei rapporti familiari, nei giorni di festa mangia aringa e gefillte fish, che è fatta di grandi famiglie provenienti dalla Germania o dalla Boemia. Molto diverso, naturalmente, dall’ebraismo israeliano, ma anche francese o italiano, più simile a Woody Allen, che viene subito in mente - tanto il libro è divertente -, insieme al Lamento di Portnoy e alla Versione di Barney, i grandi romanzi caso tutti comici con un fondo di cosmica tristezza e impotenza. Il libro è molto divertente, ma proprio per questo riesce a rivelare verità di solito non dette su alcune questioni decisive. Il primo è l’immagine che dell’ebraismo si fanno talvolta i gentili, antisemiti come filosemiti (e l’immagine che gli ebrei si fanno di quest’immagine): un’idea eccessiva in cui i singoli tratti sono esagerati con un effetto caricaturale, a cui soprattutto sfugge la banalità della maggior parte delle vite ebraiche. C’è una battuta nel libro particolarmente rivelatrice: per Jacobson, ancor più che per i suoi personaggi, i non ebrei si dividono fra quelli che in fondo vorrebbero diventare ebrei e quelli che in fondo vorrebbero sterminarli (magari senza che i due atteggiamenti siano incompatibili). “I tempi buoni sono quelli in cui provvisoriamente prevalgono i primi.” Un altro punto decisivo è l’analisi di quell’atteggiamento antisionista che di solito si capisce come “odio di sé” ebraico: in Gran Bretagna diffusissimo, anche da noi non raro soprattutto fra gli intellettuali. Finkler, tronfia celebrità televisiva, fonda un circolo di “ebrei che si vergognano”, naturalmente degli “orrendi crimini” che attribuiscono allo Stato di Israele, ma in realtà anche del loro ebraismo: non ci sono fra loro solo le virago che paragonano l’”occupazione” al nazismo, magari per assolvere il nazismo da ogni colpa, ma anche tipi folli che passano la giornata a cercare di cancellare la circoncisione, sforzandosi di allungare di nuovo il prepuzio con elastici, pinze e altri mezzi meccanici. Se i non ebrei in questo libro sono affascinati dall’ebraismo, buona parte degli ebrei vorrebbero evaderne, per le pretese eccessive sulla loro vita cui vorrebbero sfuggire, o perché applicano proprio quelle pretese eccessive al comportamento dello Stato di Israele. Il tema del romanzo è dunque sì il fascino dell’ebraismo, ma anche la potenza angosciosa dell’antisemitismo dentro e fuori dall’anima ebraica. Un libro che dunque si può leggere sì per divertirsi – ed è impossibile non sorridere quasi a ogni pagina; ma anche un libro per pensare, uno specchio parecchio deformante che riflette la nostra identità in maniera impensata e sorprendente

Ugo Volli, Pagine Ebraiche, maggio 2011

Appuntamento al Groucho Club per chi si vergogna di Israele

Anticipiamo qui sotto un estratto del romanzo L’enigma di Finkler (tratto dal capitolo 1 della seconda parte), in cui si descrivono le improbabili riunioni degli ASHamed Jews, ovvero quelli che “ci vergogniamo del sionismo, ma solo in quanto ebrei”.

Ogni mercoledì, festività permettendo, Finkler si incontrava con i membri degli ASHamed Jews al Groucho Club a Soho. Non tutti sognavano di prendere il padre a pugni nello stomaco. Alcuni provavano ancora un tenero attaccamento per la fede in cui erano stati allevati – di qui il loro bisogno di giustificarsi quando una delle serate in cui gli ASHamed Jews si riunivano coincideva con quelle ricorrenze che si sentivano ancora abbastanza ebrei da chiamare Yom Tov: Rosh Hashanah, Yom Kippur, Succot, Simchat Torah, Shavuot, Purim, Pesach, Chanukkah. “E compagnia bella,” come diceva Finkler. ASHamed Jews come questi si vergognavano non tanto degli altri ebrei, quanto dei sionisti. Ragion per cui c’era sempre ai margini del movimento un certo grado di insoddisfazione per il nome che si erano scelti. Non sarebbe stato meglio chiamarsi ASHamed Zionists? Questo nome non avrebbe descritto in maniera più accurata le origini e la natura della loro vergogna? Per ragioni di eufonia, Finkler non condivideva. E per ragioni di logica, era assolutamente contrario. “Se vi chiamaste ASHamed Zionists,” diceva “vi precludereste automaticamente l’adesione di chi come me non è mai stato sionista. E soprattutto allarghereste la partecipazione al gruppo anche ai non ebrei, considerato che al mondo le persone che, per ragioni di umanità, si vergognano del sionismo sono tante. Noi però ce ne vergogniamo sì per umanità, ma solo in quanto ebrei. Ed è questa la nostra peculiarità, credo”. Uno o due membri del gruppo avevano l’impressione che quel ragionamento sottintendesse un certo razzismo, come se alla vergogna degli ebrei si dovesse attribuire un più elevato valore che a quella di chiunque altro, ma Finkler mise a tacere quei sospetti sottolineando che, malgrado loro non avessero alcun monopolio sulla vergogna, e sebbene fossero chiaramente aperti all’idea di fare causa comune con altre persone che si vergognassero delle stesse cose di cui si vergognavano loro – personalmente era favorevole a un certo grado di ecumenismo – tuttavia solo gli ebrei potevano vergognarsi da ebrei. E dunque solo loro potevano manifestare, dall’interno, un senso di tradimento. Questo scatenò in breve un’ulteriore discussione: in tal caso, il nome migliore per loro non sarebbe stato Betrayed Jews, ebrei traditi? Ma di nuovo Finkler la spuntò, argomentando che “tradimento” era un termine troppo astioso per issarlo a vessillo della loro causa, in quanto implicava che fossero contro il sionismo solo perché se ne sentivano in qualche modo esclusi o abbandonati, e non perché esso rappresentava un crimine contro l’umanità. E se uno o due ASHamed Jews pensarono che Finkler pretendesse di stare con un piede in due scarpe – facendo di un’offesa personale una virtù e poi condannando la cosa – preferirono tenerlo per sé. Forse perché anche per loro la vergogna era e non era un accidente biografico, era e non era un mormorio del cuore, era e non era patrimonio di tutti, e la sua fondatezza era sensibile ora alla ragione, ora al sentimento. Fu stabilito, almeno provvisoriamente, che a quei membri che solo in parte si vergognavano – vale a dire che si vergognavano, in quanto ebrei, del sionismo, ma non, in quanto ebrei, di essere ebrei – era consentito sospendere la loro mortificazione in occasione di Rosh Hashanah, Yom Kippur, Chanukkah e via dicendo, e riprenderla una volta terminati i giorni santi. Quanto agli altri, erano liberi di fare come volevano. Il gruppo era anzitutto eterogeneo. Includeva ebrei come Finkler, la cui vergogna abbracciava il consesso degli ebrei al completo e a cui non importava un accidenti delle festività maggiori, ed ebrei che dell’ebraismo non ne sapevano un corno, che erano stati cresciuti come marxisti e atei, da genitori che avevano cambiato nome e si erano trasferiti nelle campagne del Berkshire per allevare cavalli, e che si erano assunti l’onere delle loro origini ebraiche solo per potersene sbarazzare. La logica che impediva a coloro che non erano mai stati sionisti di chiamarsi ASHamed Zionists non si estendeva anche agli ebrei che non erano mai stati ebrei. Per essere uno degli ASHamed Jews non c’era bisogno di essere stato per tutta la vita un ebreo consapevole. Anzi, uno di loro aveva scoperto di essere ebreo solo partecipando a una trasmissione televisiva nel corso della quale era stato messo faccia a faccia dalle telecamere con chi realmente fosse. Nell’ultima sequenza della puntata lo si vedeva ad Auschwitz, mentre piangeva davanti a un monumento commemorativo per antenati che fino a quel momento non aveva mai saputo di avere. “Questo potrebbe spiegare da dove ho preso la mia vena comica” dichiarò durante un’intervista per un quotidiano, anche se ormai aveva già rinegoziato la dedizione alle sue origini. Nato ebreo di lunedì, si era iscritto agli ASHamed Jews di mercoledì e il sabato successivo era stato visto inneggiare “Siamo tutti Hezbollah” fuori dall’ambasciata israeliana. Era stato Finkler a suggerire il Groucho Club come luogo di ritrovo per le riunioni, quando gli ASHamed Jews lo avevano cooptato alla loro causa. Fino ad allora, i mortificati ancora in fase embrionale si erano visti a casa dell’uno o dell’altro membro a Belsize Park e Primrose Hill, ma Finkler sosteneva che ciò addomesticasse la loro lotta e le conferisse un carattere isolazionistico. A coloro che apparivano riluttanti a discutere questioni di tale impellenza in un luogo di alcol e divertimento (che per di più portava il nome di un ebreo che raccontava barzellette sugli ebrei) mise in evidenza i vantaggi della pubblicità. Non aveva alcun senso vergognarsi di essere un ebreo che si vergognava di essere ebreo. Il loro obiettivo era proprio quello di farsi vedere da tutti. L’opinione di Tyler era che per suo marito essere un ASHamed Jew fosse tutt’uno con il trovarsi sotto le sfavillanti luci della ribalta. Le era capitato di accompagnarlo al Groucho Club in passato, in epoca pre-ASHamed Jews, e aveva visto come si comportava – l’ostentazione con cui dispensava elemosine ai barboni discreti e ai venditori della “Big Issue” che si raccoglievano in strada fuori dal locale, l’affettazione con cui apponeva la firma nel libro dei membri, le chiacchiere scambiate con il personale che lo ricompensava pronunciando il suo nome in tono mellifluo, il piacere che provava nel socializzare con registi e studiosi dei mezzi di comunicazione al bar. E ora che faceva anche il pezzo grosso con i suoi ASHamed Jews, Tyler sapeva esattamente come doveva sentirsi trionfante, l’immodesto godimento che provava a vedere la sua autorità estendersi ben più al di là della filosofia. Dopo la morte di Tyler, sebbene ci si potesse aspettare che, non più soggetto al caustico giudizio della moglie, Finkler ne avrebbe approfittato per manifestare un ancor più sfrenato compiacimento, aveva al contrario mitigato il suo contegno. Lo doveva alla memoria della moglie, pensava. Il suo decoro era una sorta di epitaffio nei suoi confronti. Certo, Tyler avrebbe preferito che lui abbandonasse del tutto gli ASHamed Jews, ne era consapevole. Ma non poteva arrivare a tanto. Il movimento aveva bisogno di lui. I palestinesi avevano bisogno di lui. Il Groucho Club aveva bisogno di lui. Non sempre filava tutto liscio. Nelle serate tranquille un tavolo d’angolo nel ristorante dava loro, nella giusta misura, quel senso di apertura “verso l’esterno” di cui avevano bisogno, ma quando il club era affollato altri avventori potevano cogliere i loro discorsi e a volte si sentivano autorizzati a intromettersi. Ciò era tollerabile finché quegli interventi non sollecitati erano favorevoli e non eccessivamente chiassosi, ma eventuali divergenze di opinioni rischiavano di sfuggire di mano, come quella volta in cui un gruppo di commensali che lavoravano nell’industria musicale e indossavano braccialetti di spago rosso del Centro della Kabbalah, avuto sentore delle questioni trattate dagli ASHamed Jews, cercarono di farli espellere dal club come antisemiti. Ne derivò un’animosa lite nel corso della quale il comico Ivo Cohen finì al tappeto per la seconda volta nella sua veste di ASHamed Jew (il primo knockout era avvenuto in occasione di una dimostrazione a Trafalgar Square, durante uno scontro con un gruppo che si chiamava Cristiani per Israele). “Bell’esempio di spiritualità ebraica!” sbottò sistemandosi la camicia nei pantaloni, riecheggiando le parole “Bell’esempio di spiritualità cristiana!” con le quali aveva sfidato i suoi aggressori a Trafalgar Square. Era un uomo basso e bene in carne che non ci metteva molto a cadere. E poiché i suoi numeri appartenevano al genere noto come farsa alla Marx (Karl, non Groucho), che richiedeva che cascasse a ogni piè sospinto, nessuno prese l’incidente troppo sul serio. Ma al club non erano disposti a permettere che si verificassero ancora episodi del genere e insistettero che ogni ulteriore incontro degli ASHamed Jews avesse luogo altrove o in una saletta privata al secondo piano.

Howard Jakobson, estratto pubblicato su Pagine Ebraiche, maggio 2011

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A volte la vita
Il Tizio della SeraStanotte il Tizio ha fatto tardi. Guardava in rete le notizie su Bin Laden e alla fine erano le quattro. Non capiva più se Laden sia mai esistito, e se poi è esistito lo hanno ammazzato o non lo hanno ammazzato, e se lo hanno ammazzato, sono stati gli americani o i pakistani perché sapeva troppo, e se non lo hanno ammazzato, allora questo qui scusa che fa di lavoro - il fantasma? Poi dimmi, stava da anni in un posto tipo Forte dei Marmi in Pakistan, e non lo trovavano. Mah, pensa il Tizio, a lui lo trovano sempre. Mesi fa era a Londra a Piccadilly e ha incontrato il Lancioni.

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Scetticismo sull'accordo fra Hamas
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Forte scetticismo sulla stampa israeliana a proposito dell’accordo tra Hamas e Al Fatah siglato ieri al Cairo. Laconico Yedioth Aharonoth: “Dal vertice del Cairo non uscirà un premio Nobel e nemmeno un lieto fine”. La testata dà ampio spazio agli screzi tra i leader delle due fazioni verificatisi lontano dalle telecamere. “Gli screzi che hanno turbato la cerimonia sono un presagio dei problemi che verranno” incalza Haaretz mentre per Maariv quello celebrato ieri nella capitale egiziana “è un matrimonio in cui i coniugi, dopo appena alcuni mesi, già si chiedono per quale motivo sono entrati sotto il baldacchino nuziale”. Il Jerusalem Post evidenzia nel titolo la frase del leader di Hamas Khaled Mashal secondo cui “la sola lotta del movimento islamico è contro Israele”.   
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