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 13 maggio 2011 - 9 Iyar 5771
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l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
 
alef/tav
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Alfonso Arbib Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano


All'inizio della parashà di Behàr viene ripetuto per due volte una mitzvà, il divieto della honaà che comprende una serie molto eterogenea di casi. È vietato per esempio approfittare economicamente di una persona che ha necessità di vendere o comprare un terreno. È vietato dire a un padre che sta seppellendo i suoi figli "non c'è punizione senza peccato". È vietato ricordare a una persona che ha fatto teshuvà le sue azioni passate. Che rapporto c'è tra questi divieti? Una possibile risposta è che in questi casi si approfitta della debolezza altrui o di un momento particolare di debolezza. Questo tipo di atteggiamento è esattamente opposto a quello previsto dalla Torah. La debolezza di una persona dovrebbe suscitare la nostra solidarietà. Siamo chiamati non solo ad aiutare il prossimo ma a capire le necessità degli altri. È questo il significato di uno dei tre pilastri su cui, secondo i Pirkè Avot, poggia il mondo, cioè la ghemilùt chassadìm.
Alfredo
 Mordechai
 Rabello,
 giurista



Alfredo Mordechai Rabello


La tristezza chiude la porta del cielo, la preghiera apre le porte chiuse e la fede riesce a spezzare le muraglie. (Baal Shem Tov) 

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davar
Comunità-Unione: documento comune per superare la crisi
Grazie alla mediazione del Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna, e del Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, e il vice presidente dell’UCEI, Anselmo Calò, si sono incontrati per provare a spiegare alla collettività ebraica l'oggetto del contendere di una diatriba che rischiava, in assenza di chiarimenti fra le parti, di aprire un serio strappo istituzionale tra la CER e l'UCEI. Soprattutto lasciava disorientati i lettori di Moked.it  e del mensile ebraico Shalom in distribuzione in questi giorni che non conoscevano i reali contenuti di una lettera allegata alla mail di dimissioni di Anselmo Calò dalle sue cariche nella Giunta dell’Unione e da Membro del Consiglio dell’UCEI che avrebbe dovuto rimanere rigorosamente riservata fra il dimissionario vice presidente dell'UCEI ed i suoi 17 colleghi del Consiglio e invece è circolata parzialmente e impropriamente in molte “comunità” virtuali.
Le forti reazioni del presidente della CER sono state determinate dalla non conoscenza dei reali contenuti della missiva.

Pacifici e Calò convengono, dopo ampia e leale discussione e riflessione, quanto segue:

1. Pacifici prende atto che le valutazioni contenute nella lettera “riservata” sono legittime considerazioni personali e opinioni politiche di Calò, il quale non aveva alcuna intenzione di esprimere giudizi denigratori nei confronti del presidente della CER. Insieme convengono che le rispettive valutazioni politiche espresse, rappresentano due approcci profondamente diversi del proprio impegno all’interno la vita delle Comunità Ebraiche Italiane.
2. In merito all'opinione espressa da Calò, che il presidente Pacifici abbia travalicato i propri compiti, "esercitando funzioni di spettanza dell'Unione" (tenendo aperta una trattativa con il Ministro dell'Istruzione, onorevole Maria Stella Gelmini, per individuare un sistema di finanziamento delle scuole ebraiche romane e con il Ministro della Giustizia onorevole Angelino Alfano, per un intervento legislativo per perseguire i negazionisti della Shoà) e prescindendo dal parere e dal coinvolgimento dell'UCEI e del suo Presidente, Renzo Gattegna.
Pacifici obietta che, per quanto riguarda il MIUR, non c'è stata alcuna trattativa, semmai solo un primo contatto tra funzionari ministeriali e l'assessore alle scuole della CER; sui contatti con il Ministro Alfano ribadisce di aver tenuto informato il Presidente Gattegna che, da parte sua, aveva manifestato perplessità nel proporre una legge che potesse risultare limitativa del  "diritto d'opinione". Pacifici rivendica comunque, nel suo ruolo di presidente della CER così come di semplice cittadino di questo Paese, il diritto di esprimere valutazioni o fare proposte per contrastare ogni azione dei Negazionisti, convinto di avere uno ampio consenso fra gli iscritti alle Comunità. Pacifici respinge pertanto l'accusa di aver violato lo Statuto dell'Ucei, affermando al contrario di averlo sempre rispettato, riconoscendo i diversi ruoli tra Ucei e Comunità Ebraica di Roma.
3. In merito alla rilevanza politica del Finanziamento pubblico delle Scuole ebraiche sostenuta da Calò e al rischio che la comunità ebraica italiana potrebbe trovarsi nella situazione di svolgere, di fatto, una funzione di paravento per il finanziamento pubblico di tutte le scuole non statali.
Pacifici conviene che questo potrebbe essere un possibile rischio. Tuttavia ritiene sia diritto/dovere di ogni presidente di Comunità che gestisce scuole ebraiche, con enormi sacrifici per i propri iscritti, esplorare ogni strada per verificare se, con le attuali normative di legge, si possano far aumentare i finanziamenti pubblici per le scuole ebraiche. Pacifici afferma, d’altro canto, che, se per raggiungere tale obiettivo si dovesse chiedere una norma per le nostre Comunità, richiesta ed iter legislativo rimarrebbero rigorosamente compito, come da Statuto, dell'Ucei. Il tema della Laicità dello Stato sollevato da Calò, è, secondo Pacifici, un argomento che impone comunque una seria riflessione all’interno delle nostre comunità e dell’UCEI.
4. Pacifici riconosce che Calò, nella sua lettera riservata, non lo ha accusato di essere "fiancheggiatore" dell'esecutivo, ma che Calò ha solo rilevato che l'intera comunità ebraica italiana potrebbe trovarsi in tale posizione. La questione sollevata merita una riflessione meditata sul ruolo che debbono svolgere gli ebrei, le Comunità Ebraiche, e L'UCEI nei confronti  della Politica e ldelle Istituzioni.
5. Pacifici riconosce con piacere che Calò, nella sua lettera riservata, ha ritenuto democraticamente rilevante la sua elezione e non ha mai inteso denigrare i suoi elettori, né - come da qualcuno sostenuto -delegittimarne l'elezione a Presidente della CER.
6. Calò tiene, nuovamente, a ribadire che la lettera è stata inviata in via riservata ai Consiglieri UCEI non per tenerne all'oscuro Pacifici o chiunque altro, ma proprio perché solo a quelle 17 persone doveva motivare la sua decisione. La scelta della riservatezza era stata perciò effettuata - al contrario di quanto immaginato da Pacifici - proprio per non diffondere in maniera incontrollata le critiche alla politica del Presidente della CER. Come rilevato da Pacifici e da Rav Di Segni, Calò riconosce di essere stato ingenuo ad immaginare che una lettera inviata via email a 17 persone potesse rimanere confinata ai soli destinatari, ma non può far a meno di far rilevare, nuovamente, che aveva espressamente scritto: “Vi chiedo di ritenere questa lettera riservata, e faccio conto sul senso di responsabilità di tutti affinché le mie dimissioni non divengano un caso da discutere pubblicamente".
7. Anselmo Calò tiene a precisare inoltre che, nel momento in cui aveva presentato le dimissioni, era genuinamente convinto mantenere ferma la propria decisione e che non era sua intenzione conseguire con il suo gesto alcun “obiettivo politico”. A differenza di quanto si possa immaginare, il ritiro delle dimissioni è maturato, non in presenza di un mutato quadro politico all’interno l'UCEI, ma a seguito delle numerose richieste ricevute da esponenti di molte comunità affinché proseguisse nella sua azione nell'Unione. Nessuna delle sollecitazioni ricevute si è espressa sul contenuto della lettera - che a suo parere oltre i destinatari, pochissimi hanno letto -  ma tutti lo hanno richiamato alla suo senso di responsabilità nei confronti di coloro che lo hanno eletto nel Consiglio dell'UCEI. Pacifici sottolinea che avrebbe richiesto anch'egli il ritiro delle dimissioni di Calò, se solo avesse potuto conoscere il contenuto della lettera. Entrambi tengono a precisare che l'intervento su Moked.it del Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, nel quale chiedeva a Calò di ritornare sui suoi propositi, non è stato dettato dalla condivisione del contenuto della "lettera riservata", poiché il Rabbino Capo, ad oggi, non ha letto la lettera delle dimissioni di Calò.
8. Calò apprezza l'intento pacificatore dell'incontro e accoglie fraternamente il proposito di Pacifici di ritirare le accuse sprezzanti, ironiche e provocatorie che in questi giorni di generale nervosismo gli ha rivolto pubblicamente.  Cosi come Calò esprime la solidarietà a Pacifici per gli attacchi che ha subito pubblicamente da coloro che, non avendo letto la sua lettera, avevano mal interpretato lo spirito delle considerazioni in essa contenute. Pacifici da parte sua dichiara inoltre che a seguito della lettura della lettera non intende proseguire nella denuncia al Bet Din di Milano.
9. Pur nei diversi modi di intendere la gestione della vita comunitaria, per  opinioni, stile e azioni, entrambi convengono convintamente che la mozione votata all'unanimità dal Consiglio dell'UCEI a Firenze costituisca una solida base affinché la CER così come tutte le singole Comunità  e l'UCEI esercitino liberamente i rispettivi ruoli istituzionali sanciti dallo Statuto. Auspicano pertanto che vengano istituiti i gruppi di lavoro a cui prenderanno parte anche rappresentanti delle Comunità.

Qui Torino - La riscoperta del Piemonte ebraico
logoLa riscoperta del Piemonte ebraico va in scena al Salone del Libro di Torino. Tre i libri presentati al pubblico del Lingotto per raccontare il secolare legame tra gli ebrei e la regione sabauda: Vita Ebraica a Fossano (ed. Fondazione Sacco); Ebrej, Via Vico. Mondovì XV-XX secolo (ed. Zamorani) e Gli Ebrei di Cherasco (ed. Zamorani). Tre libri, tre piccole città e la storia di una esistenza passata che lascia le sue impronte nel presente. A spiegare gli intrecci fra queste realtà sono stati gli storici Luciano Allegra per Fossano e Bruno Taricco per Cherasco mentre su Mondovì si è soffermato il ricordo personale di Franco Segre, presidente del Gruppo di Studi Ebraici.
Dopo l’intervento di apertura del presidente della Comunità Ebraica di Torino, Tullio Levi, l’incontro è entrato nel vivo. “L’obiettivo dei saggi presenti in questo volume – spiega il professor Allegra in merito alla pubblicazione su Fossano – non era fare una semplice cronologia della presenza ebraica nella città ma affrontare problemi di rilevanza storica a partire da casi specifici”. Dall’analisi di Sharon Reichel dei contratti di nozze degli ebrei fossanesi, al quadro demografico e sociale fornito da Agnese Cuccia, dai saggi sulla costruzione del ghetto e sul tema delle sepolture dei defunti di Maria Teresa Milano al contributo di Cristina Zuccaro sull’accesso alla proprietà  immobiliare degli ebrei dopo gli editti di emancipazione. Temi specifici che sembrano incastonati in un periodo storico lontano e privo di influenza sul presente della città. “In realtà questo libro mostra come gli ebrei, benché oggi scomparsi da Fossano, hanno profondamente modificato il corso degli eventi del luogo – afferma Allegra – ne hanno influenzato la cultura, contribuendo a plasmare i comportamenti dei suoi abitanti e a costruire nei secoli la fisionomia economica e sociale della città”. Un’opera, dunque, che parte dal particolare per aprire spunti di riflessione più generali e attuali e a cui hanno collaborato Alberto Cavaglion, Igor Bergese, Sarah Kaminski e rav Alberto Moshe Somekh.
Un percorso più classico, invece, è stato seguito da Bruno Taricco nel comporre il libro Gli Ebrei di Cherasco. “Noi abbiamo scelto un approccio abbastanza tradizionale – spiega l’autore – ripercorrendo, attraverso una rassegna cronologica, la storia della presenza ebraica nella città”. La prima testimonianza di questa presenza a Cherasco risale all’8 luglio del 1547 con l’accoglimento della richiesta di due ebrei, Anselmo Montagnana e Benedetto De Benedetti, di risiedere nel comune. Da allora la Comunità ebraica cominciò a fiorire trovando il suo massimo splendore sotto la dominazione napoleonica. “La realtà ebraica di Cherasco rimase indipendente fino agli anni ’30 del Novecento, quando i pochi ebrei rimasti, otto per la precisione, furono accolti sotto all’ala della Comunità di Torino – sottolinea Taricco – Di quegli otto, è doveroso ricordarlo – tre morirono nella Shoah”. 
A Marco Levi è dedicato il primo pensiero di Franco Segre. “Se parliamo di Mondovì non possiamo non fare riferimento a mio cugino Marco, l’ultimo ebreo della città monregalese. Nella sua vita lui era riuscito a coniugare perfettamente il suo amore per l’ebraismo a quello per il territorio, per quelle colline stupende. Era conosciuto e ben voluto in città e i impegnò fortemente per recuperare la memoria ebraica di quei luoghi”. Grazie all’intervento di Levi, infatti, iniziarono i lavori di ristrutturazione della sinagoga monregalese, rimasta chiusa a lungo e per questo in stato di degrado. “Ricordo ancora – continua Segre -  quando entrammo per la prima volta nei locali della Sinagoga. A terra giacevano centimetri di documenti e polvere che poi raccogliemmo e recuperammo”. In quel luogo, in Via Vico, si concentrò per circa mezzo millennio la vita ebraica di Mondovì, oggi raccontata nel libro curato da Alberto Cavaglion e pubblicato da Zamorani con l’Archivio Terracini di Torino, senza dimenticare il contributo di Guido Neppi Modona, già giudice della Corte Costituzionale nonché nipote di Marco Levi.

Daniel Reichel


Nel numero di maggio di Pagine Ebraiche, attualmente in distribuzione, un grande dossier dedicato, in occasione della manifestazione culturale torinese, al libro e alla cultura ebraica. Fra i diversi servizi gli agenti letterari Susanna Zevi e Marco Vigevani racconto il loro rapporto con i libri e la scrittura.

Il lavoro con i libri? Un’avventura senza tregua

Susanna ZeviÈ nata e cresciuta in un mondo di libri, temprata, fin dalla più tenera età, a una severa pratica di buone letture. Bando alle storie da ragazzine e largo a Edgar Allan Poe, Kafka, Proust, Dickens e quant’altro poteva pescare dalla biblioteca di casa. Una biblioteca fornitissima e di ottima qualità, grazie a due genitori d’eccezione: il papà Alberto, matematico e inventore, cofondatore con l’amico d’infanzia Luciano Foà della casa editrice Adelphi e la mamma, Bianca Candian, di professione medico oculista avvezza a dedicare il tempo libero alla difficile alchimia della traduzione letterarie. Nulla di strano dunque se a metà degli anni Settanta Susanna Zevi, allora studentessa universitaria, imbocca, quasi per caso, la via dei libri. Per ritrovarsi subito, grazie alla rete di frequentazioni familiari, sulla strada maestra. Entra infatti nell’Agenzia letteraria internazionale, con Erich Linder, mitico agente letterario che nel suo carnet d’autori ha annoverato nomi sacri quali Ezra Pound, James Joyce, Kafka e Philip Roth.
È la nascita di una vocazione che nel giro di qualche decennio fa di Susanna Zevi un agente letterario di fama. Tra i suoi autori, uno scrittore al top delle classifiche di vendita quale Erri De Luca e, in campo ebraico, Meir Shalev, Haim Baharier e il grande Moshe Idel. Quest’ultimo pubblicato proprio da Adelphi: la casa fondata dal padre Alberto dove oggi a governare il settore dell’ebraistica è la sorella di Susanna, Elisabetta.
Susanna Zevi, ha scelto molto presto di lavorare con i libri ma non ne ha mai scritti. Per quale motivo?
La scelta di lavorare nell’editoria è stata del tutto naturale. Avevo un’inclinazione per la lettura che fin da piccola è sempre stata incoraggiata e certo ha giocato un notevole influsso l’ambiente in cui sono cresciuta. Mio padre era editore, mia madre una donna molto colta, autrice di traduzioni pubblicate da Adelphi che ancora oggi sono in circolazione. A casa nostra s’incontravano scrittori e intellettuali. Erich Linder, per dirne una, era una presenza consueta.
Forse proprio per questo non ho mai voluto scrivere ma ho optato per un mestiere più umile. Abituata a una qualità di scrittura eccellente ed essendo così vicina ai libri non ho voluto essere così presuntuosa da scriverne.
Leggere i classici fin da bambini in effetti può essere un buon freno inibitore.
In un certo senso è stato così. Anche se di tanti libri letti in quegli anni capivo ben poco. Devo dire che mi sono rifatta dopo il matrimonio, quando mi sono data a letture più leggere: sempre di nascosto dai miei, s’intende.
Il lavoro di scrittore esercita un fascino notevole, forse quello dell’agente letterario ha meno appeal sull’immaginario collettivo.
È invece un’attività appassionante, perché si rinnova senza tregua. È un’avventura quotidiana in cui non c’è mai il senso della ripetizione. Gli autori sono personaggi creativi, interessanti, mutevoli. E il libro non è un prodotto come gli altri: ognuno è una storia a sé. Proprio per questo il dialogo che s’intreccia con gli autori e con gli editori ogni volta comporta un impegno diverso. Ed è il bello di questo lavoro. Certo, è un’attività che ha anche una parte molto noiosa, soprattutto di carattere amministrativo. Ma nel complesso comporta un tasso notevole di creatività e personalità.
La sua agenzia riceve ogni giorno decine di libri, manoscritti e proposte. Come fa a scegliere?
Guardo tutto ciò che arriva. Per moltissimi testi, ad esempio la saggistica che arriva da prestigiose case editrici straniere, non c’è necessità di una nostra lettura e dunque li inoltriamo agli editori nostri clienti. La letteratura ha invece sempre bisogno di un’occhiata.
Quali sono gli autori da lei rappresentati di cui è particolarmente fiera?
Tra gli scrittori di cui sono contenta ci sono Mauro Corona, Cristina Comencini e Erri De Luca.
E la cultura ebraica? Che ruolo ha giocato nella sua formazione?
Sono cresciuta in un ambiente del tutto laico, in cui erano forti la consapevolezza e la fierezza di essere ebrei ma l’ebraismo non era presente come pratica. Esisteva invece quale interesse culturale, al pari di altre religioni che studiavamo. Il mio percorso di avvicinamento è avvenuto molto più tardi, a metà degli anni Novanta, quando ho seguito alcuni lezioni di Haim Baharier e approfondito molti aspetti della tradizione e del pensiero. In quegli anni ho iniziato a rispettare lo Shabbat e le feste.
La letteratura ebraica ha avuto un ruolo in questo senso?
Senz’altro. È stato Isaac Bashevis Singer, con la sua opera gigantesca, a far nascere in me il desiderio di conoscere meglio il mondo ebraico. Se dovessi scegliere un libro da portare su un’isola deserta ne sceglierei uno qualunque dei suoi.
Che ruolo ha la letteratura ebraica e israeliana nel suo lavoro?
Il mio interesse per l’ebraismo ha senz’altro contribuito a rendermi più vicina a questi autori. Per anni ho rappresentato David Grossman mentre ora nel catalogo della mia agenzia vi sono autori israeliani quali Meir Shalev, Lizzie Doron, Sarah Shilo o Batya Gur. Rappresentiamo poi Haim Baharier e Moshe Idel.
Come vede il boom della letteratura israeliana in Italia?
Da un certo punto di vista è molto divertente. Più gli italiani diventano anti Israele più sembrano amarne gli scrittori. Basti pensare a quanto è accaduto al Salone del libro di Torino l’anno in cui venne scelto Israele come paese ospite. Per mesi ci si mobilitò a favore del boicottaggio e alla fine si registrò un numero di presenze così elevato da non trovare eguali negli anni successivi.



Come sarà il nuovo grande romanzo ebraico italiano

Marco VigevaniIl prossimo grande romanzo ebraico italiano? Non giungerà dal mondo che abbiamo imparato a conoscere dalle pagine di Giorgio Bassani, di Natalia Ginzburg o di Alberto Vigevani. Ma si alimenterà della nuova linfa portata dalle immigrazioni. E dunque sgorgherà dalla penna di un ebreo libanese o persiano o tripolino, da quel gusto della vita che si alimenta negli incroci e scontri tra mondi e culture diverse, da quel tratto cosmopolita che contrassegna i nostri tempi.
Il pronostico è prezioso, perché viene da Marco Vigevani, figlio di quell’Alberto che nei suoi romanzi raccontò l’ebraismo italiano e agente letterario di collaudata esperienza. Uno che prima di passare a questo mestiere, dieci anni fa, si è impadronito dei delicati meccanismi editoriali, prima da Longanesi e poi alla Mondadori occupandosi di narrativa e saggistica imparando, in qualità di editor, a riconoscere le impalpabili qualità del libro che funziona.
Uno che ha seguito Vedi alla voce amore di David Grossman, il libro che in Italia diede il via al boom della letteratura israeliana, il Libro nero di Grossman e Erenburg o il Libro nero del comunismo e oggi rappresenta autori di gran successo quali Giorgio Bocca, Mario Pirani o Paolo Rumiz.
La sua agenzia letteraria si trova nel cuore chic di Milano, a due passi da Sant’Ambrogio. È un angolo di pace, affacciato sul verde di un bel cortile, stipato di libri ben allineati sugli scaffali lucidi. Ma a fugare ogni tentazione nostalgica provvede una pioggia battente di telefonate, messaggi e mail che parlano di libri, diritti, nuovi autori, fiere internazionali, aerei da prendere e appuntamenti urgenti.
Marco Vigevani, sembra un lavoro tanto divertente …
È un lavoro molto vario, che però rimane ancora abbastanza artigianale. E in questo sta la sua bellezza. I libri consentono di confrontarsi con mondi diversi, la storia, la narrativa, l’arte o la scienza e, a differenza di quanto accade con la tivù o con il cinema, sono sempre dei piccoli prototipi che vanno messi a punto per poi trovare un’ampia diffusione. Il brutto è che si legge troppo. Mi piacerebbe trovare il tempo di leggere per me stesso anziché dedicarmi solo ai libri di lavoro, ma è un’impresa quasi impossibile. Di giorno c’è da mandare avanti il lavoro di routine, per la lettura non rimangono dunque che le sere e i week end.
Com’è maturata la scelta di lavorare con i libri?
 È iniziato tutto per caso. Dopo la laurea in filosofia non sapevo bene che strada scegliere. Sapevo però che non volevo lavorare insieme a mio padre, libraio antiquario e fondatore della Polifilo, casa editrice che propone grandi classici e libri antichi. Così ho trovato un posto nella segreteria editoriale di Mario Spagnol alla Longanesi e vi sono rimasto fino al 2000 quando sono passato alla Mondadori dove ho lavorato a lungo come editor, occupandomi soprattutto della scelta degli autori stranieri.
Dunque è una specie di vocazione familiare.
Da un certo punto di vista sì. Da ragazzino mio padre mi dava da leggere e verificare i suoi testi, quindi mi sono preparato fin da giovanissimo al lavoro di editor. Ma mi sono sempre occupato di libri commerciali e per questo mio padre mi ha sempre preso in giro.
Come avviene la scelta dei libri da proporre alle case editrici?
Gli autori ormai si sono resi conto che rivolgersi per conto proprio agli editori è molto difficile. Le richieste dunque sono molte, ogni giorno ne riceviamo sei o sette. L’esperienza ci consente di fare subito una prima scrematura: eliminiamo quelli che chiamiamo i manoscrittori, i fanatici della scrittura che ci subissano di testi mai pubblicati. Alcune proposte le dirottiamo a lettori professionisti per avere un loro parere mentre altre che ci sembrano interessanti possiamo decidere di rappresentarle. Se si tratta invece di autori già conosciuti cerchiamo di valutare le opportunità insieme a loro.
C’è un libro che ha seguito di cui è particolarmente fiero?
Senz’altro il Libro nero di Vasilij Grossman e Il’ja Grigor’evicˇ Erenburg, edito da Mondadori nel ‘99, che su incarico del Comitato antifascista ebraico documenta, attraverso una serie di testimonianze, i crimini di guerra perpetrati dai nazisti e dai loro alleati nel territorio dell’Unione sovietica. La sua pubblicazione venne bloccata dalle autorità sovietiche con l’ondata antisemita e il libro vide la luce nel ‘94, con cinquant’anni di ritardo, in un’edizione a cura di Arno Lustiger.
Un successo?
Rivendico sempre di aver acquistato i diritti del Libro nero del comunismo, anch’esso pubblicato da Mondadori. Un libro francese, una raccolta di saggi sugli Stati comunisti, che secondo me era molto importante. Purtroppo ebbe però in Italia una lettura molto strumentale tanto da venire usato per sdoganare il fascismo.
Un incidente di percorso?
Il caso di Binjamin Wilkomirski che in Fragments: Memories of a Wartime Childhood aveva narrato la sua infanzia di sopravvissuto alla Shoah. Il libro aveva un valore letterario e perciò fu scelto per la pubblicazione italiana con il titolo di Frammenti. Fu un successo, finché un giornalista svizzero scoprì che Wilkomirski si era inventato tutto.
Le è mai capitato di rifiutare un libro che poi ha avuto fortuna?
All’inizio della mia carriera di agente mi è capitato con Antonia Arslan, autrice de La masserie delle allodole, un libro che è diventato un best seller al punto che ne è stato tratto anche un film.
Parliamo di letteratura israeliana. Perché è così amata in Italia?
È la terza grande ondata della letteratura ebraica, dopo quella yiddish e quella americana. Forse in Italia è apprezzata, oltre che per le sue notevoli qualità, perché amiamo gli autori da cui possiamo farci impartire lezioni di morale. Non a caso gli scrittori più giovani e irriverenti, penso ad esempio a Edgar Keret, da noi non hanno particolare successo.
E la letteratura ebraica italiana?
Abbiamo storici e saggisti di qualità ma il mondo letterario ebraico negli ultimi cinquant’anni ha subito una cesura. Il mondo di Bassani, della Ginzburg e di mio padre è scomparso. Quella storia è finita e il romanzesco si è spostato. Per scrivere un romanzo davvero interessante ci vorrebbe un ebreo persiano, tripolino, libanese che ha sperimentato l’emigrazione, il confronto con una nuova cultura e vive in quella dimensione cosmopolita che ormai segna il contemporaneo.

Interviste a cura di Daniela Gross, Pagine Ebraiche, maggio 2011

Qui Milano - L'identità professionale medica e l'etica ebraica
logo AMEL’identità professionale in sanità tra spesa e qualità della cura è stato il tema di un prestigioso convegno tenutosi il 12 maggio all'Assolombarda di Milano.
Fra i molti interventi in programma anche una presenza di primo piano dell'Associazione Medica Ebraica.
Il convegno ha visto l’apertura di Renato Botti di Confindustria Lombardia Sanità Servizi e gli interventi, nella prima parte, moderata da Maria Giulia Marini di Fondazione ISTUD e da Giorgio Mortara dell’Associazione Medica Ebraica Italia di Delia Duccoli (Fondazione ISTUD), Cesare Efrati (Ospedale Israelitico Roma), Giovanni Fattore (Presidente economisti sanitari italiani), Alberto Scanni (Fatebenefratelli Oftalmico Milano), Lorenzo Moja (Università Statale di Milano), Enrico Mairov (Associazione Monte Sinai).
Nella seconda parte dell’incontro una tavola rotonda moderata da Giovanni Fattore e Sergio Harari, all’interno della quale sono intervenuti Walter Locatelli (Direttore Generale ASL Milano), Antonio Panti (Presidente Ordine dei medici di Firenze), Gianni Giorgi (medico e manager della sanità), Carlo Maria Terruzzi (FIMMG), Leonardo La Pietra (Direttore Sanitario IEO), Bruno Piperno (Presidente Ospedale Israelitico di Roma).
Le conclusioni sono state affidate a Luciano Bresciani, Assessore alla Sanità Regione Lombardia.
“Con la fondazione dell’Associazione Medica Ebraica - Italia nel 2004 - ha affermato nel corso dei lavori il presidente AME Giorgio Moratara - si è realizzata la fusione in un unico organismo nazionale delle diverse associazioni di medici ebrei già presenti da molti anni in numerose Comunità locali italiane (AME-Nord Italia, Gruppo Maimonide, Associazione Medica romana). Lo scopo era armonizzare la specificità delle esperienze individuali con il comune senso di appartenenza alle singole Comunità, nelle quali l’assistenza medica ed il volontariato sociale hanno sempre avuto un ruolo fondamentale. L’ebraismo, infatti, attribuisce uno straordinario valore alla vita: “Scegli la vita” (Deut. XXX, 19). L’attività dell’Associazione è poliedrica. Infatti l’AME ha come scopi statutari: promuovere incontri culturali e scientifici tra coloro che hanno interesse nell’approfondimento della tradizione, della cultura e dell’etica ebraica in campo sanitario; agevolare i rapporti con le Associazioni e le Istituzioni sanitarie in Israele, in Italia, in Europa e nel resto del mondo attraverso la partecipazione e l’organizzazione di convegni medici e di scambi culturali con particolare riguardo alla ricerca, alla bio-etica e alla medicina sociale; contribuire alla diffusione della cultura etica medica ebraica nella società italiana; dare sviluppo coordinato ad una “medicina di comunità” secondo le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’AME mette a disposizione di tutti un patrimonio di competenze professionali e di solidarietà umana e sociale che si propone di interagire in modo organico con le Istituzioni, con i Servizi Sociali e le Associazioni di Volontariato.
“Secondo la nostra etica è indispensabile la presa in carico del paziente in senso globale che consideri l’unità bio-psico-sociale del paziente in contrapposizione ad una medicina settorializzata e super-specializzata. L’esistenza di figure professionali dedicate (psicologo, educatore..) non può infatti esimere gli altri operatori sanitari dall’attenzione alla relazione con il paziente.
“L’aspetto relazionale non passa solo attraverso la parola, ma attraverso il prendersi cura che ha nel contatto fisico e nella visita medica al letto del paziente un ruolo importante. La parola, il contatto ma soprattutto l’ascolto permettono al medico e a tutto il personale socio-sanitario di relazionarsi correttamente con il malato e instaurare un sodalizio, che è base indispensabile per la cura.
“Ritengo - ha ripreso Mortara - che la società civile e le associazioni, quale l’AME , tra le prime in Italia a raggruppare insieme medici, psicologi e operatori della sanità, debbano interrogarsi su queste problematiche e sforzarsi di trovare delle risposte per migliorare la qualità dell’assistenza e il benessere della popolazione.
Da qui il nostro interesse nel cercare non solo la migliore cura per ogni singolo malato, ma anche il sistema sociosanitario che meglio possa soddisfare le esigenze di tutta la popolazione tenendo conto del crescente costo della sanità. La ricerca del bene comune non è appannaggio esclusivo dell’azione politica. Tutte le componenti della società infatti ne sono responsabili. Per esempio, i medici non devono demandare ad altri i problemi dei costi della sanità, ma devono avere un ruolo sia nella gestione della spesa, sia nel garantire la qualità delle cure. Come potremo farlo? Puntando, in primo luogo, sull’appropriatezza dei percorsi diagnostici e dei trattamenti.
“Veniamo ora al perché di questa nostra iniziativa. La difficoltà di trovare delle soluzioni soddisfacenti nei diversi modelli sanitari proposti ci ha portato alla necessità di riesaminare anche la nostra identità professionale di operatori sanitari per verificare come essa sia cambiata alla luce delle peggiorate condizioni socio-economiche e dei mutati scenari di riferimento in cui è inserita la professione medica, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Alcuni dei temi che sentivamo la necessità di affrontare sono: il concetto di salute alla luce delle nuove indicazioni della O.M.S. (dal curare al prendersi cura del paziente); il rapporto duale medico-paziente viene sostituito dal rapporto triadico medico-paziente-controllore; lo sviluppo di un lavoro in equipe per produrre una miglior cura del malato ha evidenziato la necessità di creare da un lato un reale coordinamento tra i vari operatori e dall’altro la necessità di rapportarsi in modo unitario nei confronti dei pazienti; vantaggi e limiti delle linee guida e dei percorsi diagnostici-terapeutici versus un approccio personalizzato al paziente attraverso la diagnosi e la cura basata sulla “narrazione”.
“Dobbiamo favorire l’equilibrio tra la dimensione scientifica della medicina e la dimensione antropologica, che intende il processo di malattia/cura come un’esperienza globale della persona; la necessità di integrare il mondo ospedaliero con la medicina generale soprattutto per i pazienti anziani e cronici; ho voluto coinvolgere in questo brain-storming medici e studiosi che potessero affrontare queste problematiche da diversi punti di vista: economico, sociologico, culturale ed etico. Affinché questa riflessione non rimanesse limitata alla nostra associazione o ad un salotto di addetti ai lavori ho chiesto la collaborazione di Sergio Harari, del prof Fattore del CERGAS di Maria Giulia Marini dell’ISTUD ed infine dell’Assolombarda sanità e servizi per aiutarmi a condividerla con i colleghi e con i responsabili delle strutture sanitarie pubbliche e private.
L’auspicio è che da questo incontro nascano idee e vengano suggerite indicazioni per un uso etico delle risorse economiche, mantenendo al centro del proprio operare la persona”. 

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Tradizioni e traduzioni
Anna SegreLa versione dal latino o dal greco è un esercizio strano: i ragazzi si trovano tra le mani un testo di dieci o quindici righe, senza conoscere il contesto e nemmeno l’opera da cui è tratto, e devono tradurlo rispettando esattamente la sintassi, con una precisione che si potrebbe definire maniacale; tutto ciò non tanto per poter apprezzare il significato del testo, coglierne il messaggio, o gustarne il valore letterario, ma per dimostrare la propria conoscenza delle regole grammaticali. Potrebbe sembrare davvero bizzarro, se non fosse sostenuto da una lunga tradizione: così hanno fatto i nostri nonni, i nostri genitori, lo abbiamo fatto noi e lo facciamo fare ai nostri allievi perché lo facciano fare ai loro allievi. Credo si tratti di una tradizione tipicamente italiana. Questo non significa necessariamente che sia una cattiva tradizione, non solo perché insegna a usare la logica, ma anche perché, pur non dando troppo peso ai contenuti, insegna comunque a rispettare i testi e a coglierne ogni aspetto, anche il più sottile: perché è stata usata quella forma verbale? Perché è stato scelto quel vocabolo? Perché quel termine è ripetuto? Sembrerebbe quasi un allenamento per il midrash. Sorprende, però, che una tradizione così consolidata di attenzione alla lettera del testo si sia sviluppata in un paese in cui si considera perfettamente normale leggere e commentare i testi sacri in traduzione anziché in lingua originale.

Anna Segre, insegnante

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Da una lingua all'altra,
viaggio verso l'ebraico

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Proiettato in anteprima italiana nella sala del Centro bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane il documentario Misafà lesafa - Da una lingua all'altra, realizzato dalla regista israeliana Nurith Aviv. Il documentario, è costruito su interviste a intellettuali israeliani provenienti da tutto il mondo, che ‘originari’ di diverse madrelingue, ‘approdano’ in un’altra lingua, quasi fosse un’altra patria. Alla presentazione del documentario è seguito il dibattito cui ha partecipato anche la regista in videoconferenza, coordinato da Victor Magiar, assessore alla cultura UCEI, cui sono intervenuti, Muriel Drazien, Charles Melman, Shalom Bahbout, David Meghnagi e Laura Quercioli Mincer. Ci si può intendere parlando la lingua dell'altro?  E' possibile penetrare il proprio inconscio con uno psicanalista di un paese straniero?  Cos'è la lingua del paradiso? Cosa significa Babele per il variegato mondo israeliano?  Qual è il luogo dell'impossibile nel comprendersi e quale la terra della nostalgia? La parola, il narrare storie, possono salvare dal dolore del mondo? Siamo necessariamente inchiodati alla lingua materna? E quale lingua madre nel crocevia di lingue che attraversano il soggetto?. Questi, fra gli altri, gli interrogativi cui si è cercato di dare una risposta nel corso della serata.

 
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