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13 maggio
2011 - 9 Iyar 5771 |
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Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
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All'inizio
della parashà di Behàr viene ripetuto per due volte una mitzvà, il
divieto della honaà che comprende una serie molto eterogenea di casi. È
vietato per esempio approfittare economicamente di una persona che ha
necessità di vendere o comprare un terreno. È vietato dire a un padre
che sta seppellendo i suoi figli "non c'è punizione senza peccato". È
vietato ricordare a una persona che ha fatto teshuvà le sue azioni
passate. Che rapporto c'è tra questi divieti? Una possibile risposta è
che in questi casi si approfitta della debolezza altrui o di un momento
particolare di debolezza. Questo tipo di atteggiamento è esattamente
opposto a quello previsto dalla Torah. La debolezza di una persona
dovrebbe suscitare la nostra solidarietà. Siamo chiamati non solo ad
aiutare il prossimo ma a capire le necessità degli altri. È questo il
significato di uno dei tre pilastri su cui, secondo i Pirkè Avot,
poggia il mondo, cioè la ghemilùt chassadìm.
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Alfredo
Mordechai
Rabello,
giurista
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La tristezza chiude la porta del cielo, la preghiera apre le porte
chiuse e la fede riesce a spezzare le muraglie. (Baal Shem
Tov)
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Comunità-Unione: documento comune per superare la crisi
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Grazie
alla mediazione del Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, Renzo Gattegna, e del Rabbino capo di Roma, Riccardo Di
Segni, il presidente della Comunità Ebraica di Roma,
Riccardo Pacifici, e il vice presidente dell’UCEI, Anselmo
Calò,
si sono incontrati per provare a spiegare alla collettività ebraica
l'oggetto del contendere di una diatriba che rischiava, in assenza di
chiarimenti fra le parti, di aprire un serio strappo istituzionale tra
la CER e l'UCEI. Soprattutto lasciava disorientati i lettori di
Moked.it e del mensile ebraico Shalom in
distribuzione
in questi giorni che non conoscevano i reali contenuti di una
lettera allegata alla mail di dimissioni di Anselmo Calò dalle sue
cariche nella Giunta dell’Unione e da Membro del Consiglio dell’UCEI
che avrebbe dovuto rimanere rigorosamente riservata fra il
dimissionario vice presidente dell'UCEI ed i suoi 17 colleghi del
Consiglio e invece è circolata parzialmente e impropriamente in molte
“comunità” virtuali.
Le forti reazioni del presidente della CER sono state determinate dalla
non conoscenza dei reali contenuti della missiva.
Pacifici e Calò convengono, dopo ampia e leale discussione e
riflessione, quanto segue:
1.
Pacifici prende atto che le valutazioni contenute nella lettera
“riservata” sono legittime considerazioni personali e opinioni
politiche di Calò, il quale non aveva alcuna intenzione di esprimere
giudizi denigratori nei confronti del presidente della CER.
Insieme convengono che le rispettive valutazioni politiche espresse,
rappresentano due approcci profondamente diversi del proprio impegno
all’interno la vita delle Comunità Ebraiche Italiane.
2. In merito
all'opinione espressa da Calò, che il presidente Pacifici abbia
travalicato i propri compiti, "esercitando funzioni di spettanza
dell'Unione" (tenendo aperta una trattativa con il Ministro
dell'Istruzione, onorevole Maria Stella Gelmini, per individuare un
sistema di finanziamento delle scuole ebraiche romane e con il Ministro
della Giustizia onorevole Angelino Alfano, per un intervento
legislativo per perseguire i negazionisti della Shoà) e prescindendo
dal parere e dal coinvolgimento dell'UCEI e del suo Presidente, Renzo
Gattegna.
Pacifici obietta che, per quanto riguarda il MIUR, non
c'è stata alcuna trattativa, semmai solo un primo contatto tra
funzionari ministeriali e l'assessore alle scuole della CER; sui
contatti con il Ministro Alfano ribadisce di aver tenuto informato il
Presidente Gattegna che, da parte sua, aveva manifestato perplessità
nel proporre una legge che potesse risultare limitativa del
"diritto d'opinione". Pacifici rivendica comunque, nel suo
ruolo
di presidente della CER così come di semplice cittadino di questo
Paese, il diritto di esprimere valutazioni o fare proposte per
contrastare ogni azione dei Negazionisti, convinto di avere uno
ampio consenso fra gli iscritti alle Comunità. Pacifici
respinge
pertanto l'accusa di aver violato lo Statuto dell'Ucei, affermando al
contrario di averlo sempre rispettato, riconoscendo i diversi ruoli tra
Ucei e Comunità Ebraica di Roma.
3. In merito alla rilevanza
politica del Finanziamento pubblico delle Scuole ebraiche sostenuta da
Calò e al rischio che la comunità ebraica italiana potrebbe trovarsi
nella situazione di svolgere, di fatto, una funzione di paravento per
il finanziamento pubblico di tutte le scuole non statali.
Pacifici
conviene che questo potrebbe essere un possibile rischio. Tuttavia
ritiene sia diritto/dovere di ogni presidente di Comunità che gestisce
scuole ebraiche, con enormi sacrifici per i propri iscritti, esplorare
ogni strada per verificare se, con le attuali normative di legge, si
possano far aumentare i finanziamenti pubblici per le scuole ebraiche.
Pacifici afferma, d’altro canto, che, se per raggiungere tale obiettivo
si dovesse chiedere una norma per le nostre Comunità, richiesta ed iter
legislativo rimarrebbero rigorosamente compito, come da Statuto,
dell'Ucei. Il tema della Laicità dello Stato sollevato da Calò, è,
secondo Pacifici, un argomento che impone comunque una seria
riflessione all’interno delle nostre comunità e dell’UCEI.
4.
Pacifici riconosce che Calò, nella sua lettera riservata, non lo ha
accusato di essere "fiancheggiatore" dell'esecutivo, ma che Calò ha
solo rilevato che l'intera comunità ebraica italiana potrebbe trovarsi
in tale posizione. La questione sollevata merita una riflessione
meditata sul ruolo che debbono svolgere gli ebrei, le Comunità
Ebraiche, e L'UCEI nei confronti della Politica e ldelle
Istituzioni.
5. Pacifici riconosce con piacere che Calò, nella sua
lettera riservata, ha ritenuto democraticamente rilevante la sua
elezione e non ha mai inteso denigrare i suoi elettori, né - come da
qualcuno sostenuto -delegittimarne l'elezione a Presidente della CER.
6.
Calò tiene, nuovamente, a ribadire che la lettera è stata inviata in
via riservata ai Consiglieri UCEI non per tenerne all'oscuro Pacifici o
chiunque altro, ma proprio perché solo a quelle 17 persone doveva
motivare la sua decisione. La scelta della riservatezza era stata
perciò effettuata - al contrario di quanto immaginato da Pacifici -
proprio per non diffondere in maniera incontrollata le critiche alla
politica del Presidente della CER. Come rilevato da Pacifici e da Rav
Di Segni, Calò riconosce di essere stato ingenuo ad immaginare che una
lettera inviata via email a 17 persone potesse rimanere confinata ai
soli destinatari, ma non può far a meno di far rilevare, nuovamente,
che aveva espressamente scritto: “Vi chiedo di ritenere questa lettera
riservata, e faccio conto sul senso di responsabilità di tutti affinché
le mie dimissioni non divengano un caso da discutere pubblicamente".
7.
Anselmo Calò tiene a precisare inoltre che, nel momento in cui aveva
presentato le dimissioni, era genuinamente convinto mantenere ferma la
propria decisione e che non era sua intenzione conseguire con il suo
gesto alcun “obiettivo politico”. A differenza di quanto si possa
immaginare, il ritiro delle dimissioni è maturato, non in
presenza
di un mutato quadro politico all’interno l'UCEI, ma a seguito delle
numerose richieste ricevute da esponenti di molte comunità affinché
proseguisse nella sua azione nell'Unione. Nessuna delle sollecitazioni
ricevute si è espressa sul contenuto della lettera - che a suo
parere oltre i destinatari, pochissimi hanno letto - ma tutti
lo
hanno richiamato alla suo senso di responsabilità nei confronti di
coloro che lo hanno eletto nel Consiglio dell'UCEI. Pacifici sottolinea
che avrebbe richiesto anch'egli il ritiro delle dimissioni di Calò, se
solo avesse potuto conoscere il contenuto della lettera. Entrambi
tengono a precisare che l'intervento su Moked.it del Rabbino Capo di
Roma, Riccardo Di Segni, nel quale chiedeva a Calò di ritornare sui
suoi propositi, non è stato dettato dalla condivisione del contenuto
della "lettera riservata", poiché il Rabbino Capo, ad oggi, non ha
letto la lettera delle dimissioni di Calò.
8. Calò apprezza
l'intento pacificatore dell'incontro e accoglie fraternamente il
proposito di Pacifici di ritirare le accuse sprezzanti, ironiche e
provocatorie che in questi giorni di generale nervosismo gli ha rivolto
pubblicamente. Cosi come Calò esprime la solidarietà
a
Pacifici per gli attacchi che ha subito pubblicamente da coloro che,
non avendo letto la sua lettera, avevano mal interpretato lo spirito
delle considerazioni in essa contenute. Pacifici da parte sua dichiara
inoltre che a seguito della lettura della lettera non intende
proseguire nella denuncia al Bet Din di Milano.
9. Pur nei diversi
modi di intendere la gestione della vita comunitaria, per
opinioni, stile e azioni, entrambi convengono convintamente che la
mozione votata all'unanimità dal Consiglio dell'UCEI a Firenze
costituisca una solida base affinché la CER così come tutte le singole
Comunità e l'UCEI esercitino liberamente i rispettivi ruoli
istituzionali sanciti dallo Statuto. Auspicano pertanto che vengano
istituiti i gruppi di lavoro a cui prenderanno parte anche
rappresentanti delle Comunità.
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Qui Torino - La riscoperta del Piemonte ebraico
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La
riscoperta del Piemonte ebraico va in scena al Salone del Libro di
Torino. Tre i libri presentati al pubblico del Lingotto per raccontare
il secolare legame tra gli ebrei e la regione sabauda: Vita Ebraica a
Fossano (ed. Fondazione Sacco); Ebrej, Via Vico. Mondovì XV-XX secolo
(ed. Zamorani) e Gli Ebrei di Cherasco (ed. Zamorani). Tre libri, tre
piccole città e la storia di una esistenza passata che lascia le sue
impronte nel presente. A spiegare gli intrecci fra queste realtà sono
stati gli storici Luciano Allegra per Fossano e Bruno Taricco per
Cherasco mentre su Mondovì si è soffermato il ricordo personale di
Franco Segre, presidente del Gruppo di Studi Ebraici. Dopo
l’intervento di apertura del presidente della Comunità Ebraica di
Torino, Tullio Levi, l’incontro è entrato nel vivo. “L’obiettivo dei
saggi presenti in questo volume – spiega il professor Allegra in merito
alla pubblicazione su Fossano – non era fare una semplice cronologia
della presenza ebraica nella città ma affrontare problemi di rilevanza
storica a partire da casi specifici”. Dall’analisi di Sharon Reichel
dei contratti di nozze degli ebrei fossanesi, al quadro demografico e
sociale fornito da Agnese Cuccia, dai saggi sulla costruzione del
ghetto e sul tema delle sepolture dei defunti di Maria Teresa Milano al
contributo di Cristina Zuccaro sull’accesso alla proprietà
immobiliare degli ebrei dopo gli editti di emancipazione. Temi
specifici che sembrano incastonati in un periodo storico lontano e
privo di influenza sul presente della città. “In realtà questo libro
mostra come gli ebrei, benché oggi scomparsi da Fossano, hanno
profondamente modificato il corso degli eventi del luogo – afferma
Allegra – ne hanno influenzato la cultura, contribuendo a plasmare i
comportamenti dei suoi abitanti e a costruire nei secoli la fisionomia
economica e sociale della città”. Un’opera, dunque, che parte dal
particolare per aprire spunti di riflessione più generali e attuali e a
cui hanno collaborato Alberto Cavaglion, Igor Bergese, Sarah Kaminski e
rav Alberto Moshe Somekh. Un percorso più classico, invece, è
stato seguito da Bruno Taricco nel comporre il libro Gli Ebrei di
Cherasco. “Noi abbiamo scelto un approccio abbastanza tradizionale –
spiega l’autore – ripercorrendo, attraverso una rassegna cronologica,
la storia della presenza ebraica nella città”. La prima testimonianza
di questa presenza a Cherasco risale all’8 luglio del 1547 con
l’accoglimento della richiesta di due ebrei, Anselmo Montagnana e
Benedetto De Benedetti, di risiedere nel comune. Da allora la Comunità
ebraica cominciò a fiorire trovando il suo massimo splendore sotto la
dominazione napoleonica. “La realtà ebraica di Cherasco rimase
indipendente fino agli anni ’30 del Novecento, quando i pochi ebrei
rimasti, otto per la precisione, furono accolti sotto all’ala della
Comunità di Torino – sottolinea Taricco – Di quegli otto, è doveroso
ricordarlo – tre morirono nella Shoah”. A Marco Levi è
dedicato il primo pensiero di Franco Segre. “Se parliamo di Mondovì non
possiamo non fare riferimento a mio cugino Marco, l’ultimo ebreo della
città monregalese. Nella sua vita lui era riuscito a coniugare
perfettamente il suo amore per l’ebraismo a quello per il territorio,
per quelle colline stupende. Era conosciuto e ben voluto in città e i
impegnò fortemente per recuperare la memoria ebraica di quei luoghi”.
Grazie all’intervento di Levi, infatti, iniziarono i lavori di
ristrutturazione della sinagoga monregalese, rimasta chiusa a lungo e
per questo in stato di degrado. “Ricordo ancora – continua Segre
- quando entrammo per la prima volta nei locali della Sinagoga. A
terra giacevano centimetri di documenti e polvere che poi raccogliemmo
e recuperammo”. In quel luogo, in Via Vico, si concentrò per circa
mezzo millennio la vita ebraica di Mondovì, oggi raccontata nel libro
curato da Alberto Cavaglion e pubblicato da Zamorani con l’Archivio
Terracini di Torino, senza dimenticare il contributo di Guido Neppi
Modona, già giudice della Corte Costituzionale nonché nipote di Marco
Levi.
Daniel Reichel
Nel
numero di maggio di Pagine Ebraiche, attualmente in distribuzione, un
grande dossier dedicato, in occasione della manifestazione culturale
torinese, al libro e alla cultura ebraica. Fra i diversi servizi gli
agenti letterari Susanna Zevi e Marco Vigevani racconto il loro
rapporto con i libri e la scrittura.
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Il
lavoro con i libri? Un’avventura senza tregua
È
nata e cresciuta in un mondo di libri, temprata, fin dalla più tenera
età, a una severa pratica di buone letture. Bando alle storie da
ragazzine e largo a Edgar Allan Poe, Kafka, Proust, Dickens e
quant’altro poteva pescare dalla biblioteca di casa. Una biblioteca
fornitissima e di ottima qualità, grazie a due genitori d’eccezione: il
papà Alberto, matematico e inventore, cofondatore con l’amico
d’infanzia Luciano Foà della casa editrice Adelphi e la mamma, Bianca
Candian, di professione medico oculista avvezza a dedicare il tempo
libero alla difficile alchimia della traduzione letterarie. Nulla di
strano dunque se a metà degli anni Settanta Susanna Zevi, allora
studentessa universitaria, imbocca, quasi per caso, la via dei libri.
Per ritrovarsi subito, grazie alla rete di frequentazioni familiari,
sulla strada maestra. Entra infatti nell’Agenzia letteraria
internazionale, con Erich Linder, mitico agente letterario che nel suo
carnet d’autori ha annoverato nomi sacri quali Ezra Pound, James Joyce,
Kafka e Philip Roth.
È la nascita di una vocazione che nel giro
di qualche decennio fa di Susanna Zevi un agente letterario di fama.
Tra i suoi autori, uno scrittore al top delle classifiche di vendita
quale Erri De Luca e, in campo ebraico, Meir Shalev, Haim Baharier e il
grande Moshe Idel. Quest’ultimo pubblicato proprio da Adelphi: la casa
fondata dal padre Alberto dove oggi a governare il settore
dell’ebraistica è la sorella di Susanna, Elisabetta.
Susanna Zevi,
ha scelto molto presto di lavorare con i libri ma non ne ha mai
scritti. Per quale motivo?
La
scelta di lavorare nell’editoria è stata del tutto naturale. Avevo
un’inclinazione per la lettura che fin da piccola è sempre stata
incoraggiata e certo ha giocato un notevole influsso l’ambiente in cui
sono cresciuta. Mio padre era editore, mia madre una donna molto colta,
autrice di traduzioni pubblicate da Adelphi che ancora oggi sono in
circolazione. A casa nostra s’incontravano scrittori e intellettuali.
Erich Linder, per dirne una, era una presenza consueta.
Forse
proprio per questo non ho mai voluto scrivere ma ho optato per un
mestiere più umile. Abituata a una qualità di scrittura eccellente ed
essendo così vicina ai libri non ho voluto essere così presuntuosa da
scriverne.
Leggere i
classici fin da bambini in effetti può essere un buon freno inibitore.
In
un certo senso è stato così. Anche se di tanti libri letti in quegli
anni capivo ben poco. Devo dire che mi sono rifatta dopo il matrimonio,
quando mi sono data a letture più leggere: sempre di nascosto dai miei,
s’intende.
Il lavoro di
scrittore esercita un fascino notevole, forse quello dell’agente
letterario ha meno appeal sull’immaginario collettivo.
È
invece un’attività appassionante, perché si rinnova senza tregua. È
un’avventura quotidiana in cui non c’è mai il senso della ripetizione.
Gli autori sono personaggi creativi, interessanti, mutevoli. E il libro
non è un prodotto come gli altri: ognuno è una storia a sé. Proprio per
questo il dialogo che s’intreccia con gli autori e con gli editori ogni
volta comporta un impegno diverso. Ed è il bello di questo lavoro.
Certo, è un’attività che ha anche una parte molto noiosa, soprattutto
di carattere amministrativo. Ma nel complesso comporta un tasso
notevole di creatività e personalità.
La sua
agenzia riceve ogni giorno decine di libri, manoscritti e proposte.
Come fa a scegliere?
Guardo
tutto ciò che arriva. Per moltissimi testi, ad esempio la saggistica
che arriva da prestigiose case editrici straniere, non c’è necessità di
una nostra lettura e dunque li inoltriamo agli editori nostri clienti.
La letteratura ha invece sempre bisogno di un’occhiata.
Quali sono
gli autori da lei rappresentati di cui è particolarmente fiera?
Tra gli scrittori di cui sono contenta ci sono Mauro Corona, Cristina
Comencini e Erri De Luca.
E la cultura
ebraica? Che ruolo ha giocato nella sua formazione?
Sono
cresciuta in un ambiente del tutto laico, in cui erano forti la
consapevolezza e la fierezza di essere ebrei ma l’ebraismo non era
presente come pratica. Esisteva invece quale interesse culturale, al
pari di altre religioni che studiavamo. Il mio percorso di
avvicinamento è avvenuto molto più tardi, a metà degli anni Novanta,
quando ho seguito alcuni lezioni di Haim Baharier e approfondito molti
aspetti della tradizione e del pensiero. In quegli anni ho iniziato a
rispettare lo Shabbat e le feste.
La
letteratura ebraica ha avuto un ruolo in questo senso?
Senz’altro.
È stato Isaac Bashevis Singer, con la sua opera gigantesca, a far
nascere in me il desiderio di conoscere meglio il mondo ebraico. Se
dovessi scegliere un libro da portare su un’isola deserta ne sceglierei
uno qualunque dei suoi.
Che ruolo ha
la letteratura ebraica e israeliana nel suo lavoro?
Il
mio interesse per l’ebraismo ha senz’altro contribuito a rendermi più
vicina a questi autori. Per anni ho rappresentato David Grossman mentre
ora nel catalogo della mia agenzia vi sono autori israeliani quali Meir
Shalev, Lizzie Doron, Sarah Shilo o Batya Gur. Rappresentiamo poi Haim
Baharier e Moshe Idel.
Come vede il
boom della letteratura israeliana in Italia?
Da
un certo punto di vista è molto divertente. Più gli italiani diventano
anti Israele più sembrano amarne gli scrittori. Basti pensare a quanto
è accaduto al Salone del libro di Torino l’anno in cui venne scelto
Israele come paese ospite. Per mesi ci si mobilitò a favore del
boicottaggio e alla fine si registrò un numero di presenze così elevato
da non trovare eguali negli anni successivi.
Come
sarà il nuovo grande romanzo ebraico italiano
Il
prossimo grande romanzo ebraico italiano? Non giungerà dal mondo che
abbiamo imparato a conoscere dalle pagine di Giorgio Bassani, di
Natalia Ginzburg o di Alberto Vigevani. Ma si alimenterà della nuova
linfa portata dalle immigrazioni. E dunque sgorgherà dalla penna di un
ebreo libanese o persiano o tripolino, da quel gusto della vita che si
alimenta negli incroci e scontri tra mondi e culture diverse, da quel
tratto cosmopolita che contrassegna i nostri tempi.
Il
pronostico è prezioso, perché viene da Marco Vigevani, figlio di
quell’Alberto che nei suoi romanzi raccontò l’ebraismo italiano e
agente letterario di collaudata esperienza. Uno che prima di passare a
questo mestiere, dieci anni fa, si è impadronito dei delicati
meccanismi editoriali, prima da Longanesi e poi alla Mondadori
occupandosi di narrativa e saggistica imparando, in qualità di editor,
a riconoscere le impalpabili qualità del libro che funziona.
Uno
che ha seguito Vedi alla voce amore di David Grossman, il libro che in
Italia diede il via al boom della letteratura israeliana, il Libro nero
di Grossman e Erenburg o il Libro nero del comunismo e oggi rappresenta
autori di gran successo quali Giorgio Bocca, Mario Pirani o Paolo
Rumiz.
La sua agenzia letteraria si trova nel cuore chic di
Milano, a due passi da Sant’Ambrogio. È un angolo di pace, affacciato
sul verde di un bel cortile, stipato di libri ben allineati sugli
scaffali lucidi. Ma a fugare ogni tentazione nostalgica provvede una
pioggia battente di telefonate, messaggi e mail che parlano di libri,
diritti, nuovi autori, fiere internazionali, aerei da prendere e
appuntamenti urgenti.
Marco
Vigevani, sembra un lavoro tanto divertente …
È
un lavoro molto vario, che però rimane ancora abbastanza artigianale. E
in questo sta la sua bellezza. I libri consentono di confrontarsi con
mondi diversi, la storia, la narrativa, l’arte o la scienza e, a
differenza di quanto accade con la tivù o con il cinema, sono sempre
dei piccoli prototipi che vanno messi a punto per poi trovare un’ampia
diffusione. Il brutto è che si legge troppo. Mi piacerebbe trovare il
tempo di leggere per me stesso anziché dedicarmi solo ai libri di
lavoro, ma è un’impresa quasi impossibile. Di giorno c’è da mandare
avanti il lavoro di routine, per la lettura non rimangono dunque che le
sere e i week end.
Com’è
maturata la scelta di lavorare con i libri?
È
iniziato tutto per caso. Dopo la laurea in filosofia non sapevo bene
che strada scegliere. Sapevo però che non volevo lavorare insieme a mio
padre, libraio antiquario e fondatore della Polifilo, casa editrice che
propone grandi classici e libri antichi. Così ho trovato un posto nella
segreteria editoriale di Mario Spagnol alla Longanesi e vi sono rimasto
fino al 2000 quando sono passato alla Mondadori dove ho lavorato a
lungo come editor, occupandomi soprattutto della scelta degli autori
stranieri.
Dunque è una
specie di vocazione familiare.
Da
un certo punto di vista sì. Da ragazzino mio padre mi dava da leggere e
verificare i suoi testi, quindi mi sono preparato fin da giovanissimo
al lavoro di editor. Ma mi sono sempre occupato di libri commerciali e
per questo mio padre mi ha sempre preso in giro.
Come avviene
la scelta dei libri da proporre alle case editrici?
Gli
autori ormai si sono resi conto che rivolgersi per conto proprio agli
editori è molto difficile. Le richieste dunque sono molte, ogni giorno
ne riceviamo sei o sette. L’esperienza ci consente di fare subito una
prima scrematura: eliminiamo quelli che chiamiamo i manoscrittori, i
fanatici della scrittura che ci subissano di testi mai pubblicati.
Alcune proposte le dirottiamo a lettori professionisti per avere un
loro parere mentre altre che ci sembrano interessanti possiamo decidere
di rappresentarle. Se si tratta invece di autori già conosciuti
cerchiamo di valutare le opportunità insieme a loro.
C’è un libro
che ha seguito di cui è particolarmente fiero?
Senz’altro
il Libro nero di Vasilij Grossman e Il’ja Grigor’evicˇ Erenburg, edito
da Mondadori nel ‘99, che su incarico del Comitato antifascista ebraico
documenta, attraverso una serie di testimonianze, i crimini di guerra
perpetrati dai nazisti e dai loro alleati nel territorio dell’Unione
sovietica. La sua pubblicazione venne bloccata dalle autorità
sovietiche con l’ondata antisemita e il libro vide la luce nel ‘94, con
cinquant’anni di ritardo, in un’edizione a cura di Arno Lustiger.
Un successo?
Rivendico
sempre di aver acquistato i diritti del Libro nero del comunismo,
anch’esso pubblicato da Mondadori. Un libro francese, una raccolta di
saggi sugli Stati comunisti, che secondo me era molto importante.
Purtroppo ebbe però in Italia una lettura molto strumentale tanto da
venire usato per sdoganare il fascismo.
Un incidente
di percorso?
Il
caso di Binjamin Wilkomirski che in Fragments: Memories of a Wartime
Childhood aveva narrato la sua infanzia di sopravvissuto alla Shoah. Il
libro aveva un valore letterario e perciò fu scelto per la
pubblicazione italiana con il titolo di Frammenti. Fu un successo,
finché un giornalista svizzero scoprì che Wilkomirski si era inventato
tutto.
Le è mai
capitato di rifiutare un libro che poi ha avuto fortuna?
All’inizio
della mia carriera di agente mi è capitato con Antonia Arslan, autrice
de La masserie delle allodole, un libro che è diventato un best seller
al punto che ne è stato tratto anche un film.
Parliamo di
letteratura israeliana. Perché è così amata in Italia?
È
la terza grande ondata della letteratura ebraica, dopo quella yiddish e
quella americana. Forse in Italia è apprezzata, oltre che per le sue
notevoli qualità, perché amiamo gli autori da cui possiamo farci
impartire lezioni di morale. Non a caso gli scrittori più giovani e
irriverenti, penso ad esempio a Edgar Keret, da noi non hanno
particolare successo.
E la
letteratura ebraica italiana?
Abbiamo
storici e saggisti di qualità ma il mondo letterario ebraico negli
ultimi cinquant’anni ha subito una cesura. Il mondo di Bassani, della
Ginzburg e di mio padre è scomparso. Quella storia è finita e il
romanzesco si è spostato. Per scrivere un romanzo davvero interessante
ci vorrebbe un ebreo persiano, tripolino, libanese che ha sperimentato
l’emigrazione, il confronto con una nuova cultura e vive in quella
dimensione cosmopolita che ormai segna il contemporaneo.
Interviste
a cura di Daniela Gross, Pagine Ebraiche, maggio 2011
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Qui
Milano - L'identità
professionale medica e l'etica ebraica
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L’identità professionale in
sanità tra spesa e qualità della cura è stato il tema di un prestigioso
convegno tenutosi il 12 maggio all'Assolombarda di Milano.
Fra i molti interventi in programma anche una presenza di primo piano
dell'Associazione Medica Ebraica.
Il convegno ha visto l’apertura di Renato Botti di Confindustria
Lombardia Sanità Servizi e gli interventi, nella prima parte, moderata
da Maria Giulia Marini di Fondazione ISTUD e da Giorgio Mortara
dell’Associazione Medica Ebraica Italia di Delia Duccoli (Fondazione
ISTUD), Cesare Efrati (Ospedale Israelitico Roma), Giovanni Fattore
(Presidente economisti sanitari italiani), Alberto Scanni
(Fatebenefratelli Oftalmico Milano), Lorenzo Moja (Università Statale
di Milano), Enrico Mairov (Associazione Monte Sinai).
Nella seconda parte dell’incontro una tavola rotonda moderata da
Giovanni Fattore e Sergio Harari, all’interno della quale sono
intervenuti Walter Locatelli (Direttore Generale ASL Milano), Antonio
Panti (Presidente Ordine dei medici di Firenze), Gianni Giorgi (medico
e manager della sanità), Carlo Maria Terruzzi (FIMMG), Leonardo La
Pietra (Direttore Sanitario IEO), Bruno Piperno (Presidente Ospedale
Israelitico di Roma).
Le conclusioni sono state affidate a Luciano Bresciani, Assessore alla
Sanità Regione Lombardia.
“Con la fondazione dell’Associazione Medica Ebraica - Italia nel 2004 -
ha affermato nel corso dei lavori il presidente AME Giorgio Moratara -
si è realizzata la fusione in un unico organismo nazionale delle
diverse associazioni di medici ebrei già presenti da molti anni in
numerose Comunità locali italiane (AME-Nord Italia, Gruppo Maimonide,
Associazione Medica romana). Lo scopo era armonizzare la specificità
delle esperienze individuali con il comune senso di appartenenza alle
singole Comunità, nelle quali l’assistenza medica ed il volontariato
sociale hanno sempre avuto un ruolo fondamentale. L’ebraismo, infatti,
attribuisce uno straordinario valore alla vita: “Scegli la vita” (Deut.
XXX, 19). L’attività dell’Associazione è poliedrica. Infatti l’AME ha
come scopi statutari: promuovere incontri culturali e scientifici tra
coloro che hanno interesse nell’approfondimento della tradizione, della
cultura e dell’etica ebraica in campo sanitario; agevolare i rapporti
con le Associazioni e le Istituzioni sanitarie in Israele, in Italia,
in Europa e nel resto del mondo attraverso la partecipazione e
l’organizzazione di convegni medici e di scambi culturali con
particolare riguardo alla ricerca, alla bio-etica e alla medicina
sociale; contribuire alla diffusione della cultura etica medica ebraica
nella società italiana; dare sviluppo coordinato ad una “medicina di
comunità” secondo le direttive dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità.
L’AME mette a disposizione di tutti un patrimonio di competenze
professionali e di solidarietà umana e sociale che si propone di
interagire in modo organico con le Istituzioni, con i Servizi Sociali e
le Associazioni di Volontariato.
“Secondo la nostra etica è indispensabile la presa in carico del
paziente in senso globale che consideri l’unità bio-psico-sociale del
paziente in contrapposizione ad una medicina settorializzata e
super-specializzata. L’esistenza di figure professionali dedicate
(psicologo, educatore..) non può infatti esimere gli altri operatori
sanitari dall’attenzione alla relazione con il paziente.
“L’aspetto relazionale non passa solo attraverso la parola, ma
attraverso il prendersi cura che ha nel contatto fisico e nella visita
medica al letto del paziente un ruolo importante. La parola, il
contatto ma soprattutto l’ascolto permettono al medico e a tutto il
personale socio-sanitario di relazionarsi correttamente con il malato e
instaurare un sodalizio, che è base indispensabile per la cura.
“Ritengo - ha ripreso Mortara - che la società civile e le
associazioni, quale l’AME , tra le prime in Italia a raggruppare
insieme medici, psicologi e operatori della sanità, debbano
interrogarsi su queste problematiche e sforzarsi di trovare delle
risposte per migliorare la qualità dell’assistenza e il benessere della
popolazione.
Da qui il nostro interesse nel cercare non solo la migliore cura per
ogni singolo malato, ma anche il sistema sociosanitario che meglio
possa soddisfare le esigenze di tutta la popolazione tenendo conto del
crescente costo della sanità. La ricerca del bene comune non è
appannaggio esclusivo dell’azione politica. Tutte le componenti della
società infatti ne sono responsabili. Per esempio, i medici non devono
demandare ad altri i problemi dei costi della sanità, ma devono avere
un ruolo sia nella gestione della spesa, sia nel garantire la qualità
delle cure. Come potremo farlo? Puntando, in primo luogo,
sull’appropriatezza dei percorsi diagnostici e dei trattamenti.
“Veniamo ora al perché di questa nostra iniziativa. La difficoltà di
trovare delle soluzioni soddisfacenti nei diversi modelli sanitari
proposti ci ha portato alla necessità di riesaminare anche la nostra
identità professionale di operatori sanitari per verificare come essa
sia cambiata alla luce delle peggiorate condizioni socio-economiche e
dei mutati scenari di riferimento in cui è inserita la professione
medica, non solo in Italia ma in tutto il mondo. Alcuni dei temi che
sentivamo la necessità di affrontare sono: il concetto di salute alla
luce delle nuove indicazioni della O.M.S. (dal curare al prendersi cura
del paziente); il rapporto duale medico-paziente viene sostituito dal
rapporto triadico medico-paziente-controllore; lo sviluppo di un lavoro
in equipe per produrre una miglior cura del malato ha evidenziato la
necessità di creare da un lato un reale coordinamento tra i vari
operatori e dall’altro la necessità di rapportarsi in modo unitario nei
confronti dei pazienti; vantaggi e limiti delle linee guida e dei
percorsi diagnostici-terapeutici versus un approccio personalizzato al
paziente attraverso la diagnosi e la cura basata sulla “narrazione”.
“Dobbiamo favorire l’equilibrio tra la dimensione scientifica della
medicina e la dimensione antropologica, che intende il processo di
malattia/cura come un’esperienza globale della persona; la necessità di
integrare il mondo ospedaliero con la medicina generale soprattutto per
i pazienti anziani e cronici; ho voluto coinvolgere in questo
brain-storming medici e studiosi che potessero affrontare queste
problematiche da diversi punti di vista: economico, sociologico,
culturale ed etico. Affinché questa riflessione non rimanesse limitata
alla nostra associazione o ad un salotto di addetti ai lavori ho
chiesto la collaborazione di Sergio Harari, del prof Fattore del CERGAS
di Maria Giulia Marini dell’ISTUD ed infine dell’Assolombarda sanità e
servizi per aiutarmi a condividerla con i colleghi e con i responsabili
delle strutture sanitarie pubbliche e private.
L’auspicio è che da questo incontro nascano idee e vengano suggerite
indicazioni per un uso etico delle risorse economiche, mantenendo al
centro del proprio operare la persona”.
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Tradizioni e traduzioni
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La versione dal latino o dal
greco è un esercizio strano: i ragazzi si trovano tra le mani un testo
di dieci o quindici righe, senza conoscere il contesto e nemmeno
l’opera da cui è tratto, e devono tradurlo rispettando esattamente la
sintassi, con una precisione che si potrebbe definire maniacale; tutto
ciò non tanto per poter apprezzare il significato del testo, coglierne
il messaggio, o gustarne il valore letterario, ma per dimostrare la
propria conoscenza delle regole grammaticali. Potrebbe sembrare davvero
bizzarro, se non fosse sostenuto da una lunga tradizione: così hanno
fatto i nostri nonni, i nostri genitori, lo abbiamo fatto noi e lo
facciamo fare ai nostri allievi perché lo facciano fare ai loro
allievi. Credo si tratti di una tradizione tipicamente italiana. Questo
non significa necessariamente che sia una cattiva tradizione, non solo
perché insegna a usare la logica, ma anche perché, pur non dando troppo
peso ai contenuti, insegna comunque a rispettare i testi e a coglierne
ogni aspetto, anche il più sottile: perché è stata usata quella forma
verbale? Perché è stato scelto quel vocabolo? Perché quel termine è
ripetuto? Sembrerebbe quasi un allenamento per il midrash. Sorprende,
però, che una tradizione così consolidata di attenzione alla lettera
del testo si sia sviluppata in un paese in cui si considera
perfettamente normale leggere e commentare i testi sacri in traduzione
anziché in lingua originale.
Anna
Segre, insegnante
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Da una
lingua all'altra,
viaggio verso l'ebraico
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Proiettato in anteprima italiana nella sala del Centro bibliografico
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane il documentario Misafà
lesafa - Da una lingua all'altra, realizzato dalla regista israeliana
Nurith Aviv. Il documentario, è costruito su interviste a intellettuali
israeliani provenienti da tutto il mondo, che ‘originari’ di diverse
madrelingue, ‘approdano’ in un’altra lingua, quasi fosse un’altra
patria. Alla presentazione del documentario è seguito il
dibattito cui ha partecipato anche la regista in videoconferenza,
coordinato da Victor Magiar, assessore alla cultura UCEI, cui sono
intervenuti, Muriel Drazien, Charles Melman, Shalom Bahbout, David
Meghnagi e Laura Quercioli Mincer. Ci si può intendere parlando la
lingua dell'altro? E' possibile penetrare il proprio
inconscio con uno psicanalista di un paese straniero? Cos'è
la lingua del paradiso? Cosa significa Babele per il variegato mondo
israeliano? Qual è il luogo dell'impossibile nel comprendersi
e quale la terra della nostalgia? La parola, il narrare storie, possono
salvare dal dolore del mondo? Siamo necessariamente inchiodati alla
lingua materna? E quale lingua madre nel crocevia di lingue che
attraversano il soggetto?. Questi, fra gli altri, gli interrogativi cui
si è cercato di dare una risposta nel corso della serata.
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