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Pacifici: "Una lettura
distorta delle proteste romane"
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L'intervento del nostro
presidente Gattegna rischia, per chi non conosce da vicino la
cronologia dei fatti, di avere una distorta lettura delle proteste
romane. Nella quale ci sono due "vittime", Giorgio Gomel e Moni Ovadia
da una parte e dall'altra quelli della cosiddetta "Piazza" quali
"incivili e prevaricatori". Gattegna lancia su questo Portale una
dichiarazione che lascia intendere agli ebrei italiani e a coloro che
leggono il nostro Portale dell'ebraismo italiano che nella Comunità che
ho l'orgoglio di guidare non ci sia spazio al dissenso e alla pluralità
delle opinioni. Cosa non vera. Anche perché Gattegna, pur non
condividendo l'espressioni forti e lo strappo di Gomel, si dimentica di
chiarirlo nel suo comunicato. Così facendo coloro che non conoscono i
fatti avranno la sensazione e forse la certezza che Gattegna si sia
schierato con Gomel e Ovadia contro la Comunità Ebraica di Roma. Ma i
fatti fortunatamente sono altri.
Gomel, come spesso avviene, trova spazio senza alcuna "censura" nel
mensile "Shalom" e nella foga di dissentire con il sottoscritto per
avere guidato una delegazione di solidarietà e vicinanza agli abitanti
degli insediamenti di Itamar, vittime di una strage aberrante (vennero
sgozzati nel sonno una famiglia di cinque persone di cui tre bambini a
cominciare da quello di tre mesi), non si limita ad esprimere un
legittimo dissenso sull'opportunità di vivere nella Giudea e Samaria,
ma si avventura nello scrivere che gli abitanti di Itamar "non sono
nostri fratelli". Ma non si ferma qua, condanna il diritto/dovere della
polizia israeliana di ricercare a Nablus gli assassini violando
sostanzialmente la loro autonomia e dignità (peccato per Gomel che
grazie a quella indagine due giorni dopo gli assassini sono stati
catturati con il confronto del dna, due fratelli di 17 e 19 anni rei
confessi).
Il direttore Khan si ritrova a pubblicazione avvenuta con una valanga
di email di protesta ed il sottoscritto a Yom Hazmaut viene insultato
dalla "Piazza" per avere "permesso" la pubblicazione di quello strappo
(il presidente della Cer non controlla Shalom). Scatta l'indignazione
che difficilmente riesco a placare. Il 18 maggio, mentre io e il
Segretario della Cer ci troviamo in Israele, compare una scritta
volgare con vernice nera sui muri della scuola ebraica. Il 19 maggio
notte dei ragazzi della nostra Comunità con gesto di civiltà la vanno
prima a coprire con dei cartoni bianchi e il sottoscritto la fa poi
definitivamente cancellare il giorno dopo. Tutto sembrava risolto,
finché la domenica mattina del 22 maggio in un altro striscione, a
questo punto organizzato e sempre sui muri della scuola scrivono "tutti
gli ebrei sono nostri fratelli: Gomel e Ovadia No". Una "pasquinata"
romana che non mostra alcun insulto né volgarità se non l'ironizzare
sulle maldestre parole di Gomel su Shalom ma che ancora una volta usa i
muri della scuola (cosa sbagliata) per sfogare la propria rabbia e
dissenso. Striscione che lunedì mattina del 23 maggio alle ore 8,10
personalmente rimuovo e alle 9 faccio cancellare tutte le nuove scritte.
La protesta insomma non è sul legittimo, anche se non condivisibile
politicamente da parte mia, diritto di dissentire sugli Insediamenti
(anche se Gomel e non solo lui continua in forma malvagia a chiamarle
Colonie) ma sul fatto che abbia scritto che "Non sono nostri fratelli".
Gomel, persona intelligente e non sprovveduta, sapeva di colpire nel
segno e sapeva, ad arte, di creare una profonda lacerazione,
difficilmente risanabile. E' riuscito con abilità e godendo delle
simpatie degli pseudo intellettuali ebrei italiani, a trasformare il
suo strappo e patto di fratellanza ebraica in una "aggressione" alla
sua libertà di opinione. Mi dispiace, ma pur condannando l'uso dei muri
della scuola, cosi come di ogni spazio della nostra città per esprimere
dissenso, rivendico il diritto di dissentire da Gomel come da Moni
Ovadia, reo spesso di illustrare all'opinione pubblica italiana una
realtà distorta di cosa sia Israele, sconfinando in alcuni casi al suo
diritto di esistere.
Mentre noi litighiamo, perdiamo di vista con gravi rischi per la nostra
stessa esistenza, di comprendere quale sia il momento storico che
attraversiamo in Europa, da ebrei e da europei e del fatto che Israele
è accerchiata da regimi fanatici, che nonostante le "primavere arabe",
dal Libano di Hezbollah, alla Siria non più di Assad ma di Ahmadinejad
e all'Egitto del "nuovo corso, dove la nuova dirigenza ed i loro Imam
proclamano di voler "marciare su Gerusalemme e Tel Aviv". La domenica
della Naqbà lo hanno fatto da tre confini provocando la morte di 17
persone. Siamo in una guerra nella quale non ci saranno vincitori e
perdenti ma dove potremmo rischiare di essere estinti come popolo.
Nonostante questo dobbiamo difenderci dalle posizione buoniste, sempre
dentro le nostre Comunità, che con l'entusiasmo di difendere il diritto
agli islamici di aprire propri luoghi di culto, ci si dimentica molto
spesso di ricordare che abbiamo la necessità di far chiudere quelle
Moschee che sono ad oggi, non solo e nella stragrande maggioranza,
controllate da organizzazioni affiliate ai "Fratelli Musulmani" e ad
Hamas, ma che sono spesso covo del terrorismo Fondamentalista in cui
Imam predicano l'odio contro i "crociati, gli ebrei ed i sionisti".
Ieri, mentre il nostro Rabbino capo era a parlare alla grande Moschea
di Roma, una genuina protesta di musulmani democratici chiedevano a
gran voce ai dirigenti di rendere trasparente la gestione di quel
luogo, oggi nelle mani di amministratori nominati dalle ambasciate di
Paesi Arabi e Musulmani, le cui nazioni in alcuni casi fra loro negano
il diritto della libertà religiosa e l'apertura di Chiese.
Gomel, Ovadia, Lerner, con le loro espressioni mettono in serio
imbarazzo non solo gli ebrei "cattivi" come il sottoscritto ma anche
quelli "buoni" che da sempre hanno assunto posizione a sinistra molto
moderate. Aggiungo infine che l'aberrante comparazione di una radice
comune nei sentimenti di antisemitismo ed islamofobia, sostenuta a gran
voce da nostri giovani emergenti rischia di confondere l'opinione
pubblica. Costruendo difatti una pericolosissima associazione di idee.
Ma torniamo a noi. Non sono i "coloni" di Itamar ad esser un ostacolo
per la pace in Medio Oriente ma coloro che sia dentro il partito di Abu
Mazen che dentro Hamas negano ad Israele il diritto di esistere. Sono
personalmente orgoglioso della standing ovation che ha raccolto il
primo ministro Biby Nethanyhau al Congresso americano. Un discorso, il
suo, molto coraggioso dove ha sottolineato che la real politik non
potrà consentire di ritornare ai confini del 67 (cosa detta anche da
Obama), ma che certamente si dovranno fare scelte dolorose e molti
insediamenti potrebbero rimanere sotto il controllo del futuro Stato di
Palestina. Abu Mazen non ha fatto attendere la sua risposta: nessun
israeliano potrà vivere nel nostro futuro Stato!
A questo punto rivolgo a voi tutti una domanda: perché un arabo può
vivere con pieni diritti a Yafo, a Haifa, a Yerushalaim, Nazareth,
ecc,ecc e un israeliano non può vivere in Palestina? Le risposte ce le
daremo serenamente in un convegno al quale sarà invitato Gomel, e dove
Gattegna, l'ambasciatore d'Israele e un abitante di Itamar hanno dato
loro disponibilità a confrontarsi. L'appuntamento è a giugno nel
cortile delle Scuole ebraiche. Questo è l'unico metodo di confronto
civile e speriamo che Gomel troverà l'umiltà di chieder scusa se,
involontariamente come voglio pensare, ha offeso la nostra sensibilità.
Riccardo
Pacifici, presidente Comunità ebraica di Roma
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Havi’u et
Hayom: "Oltre il muro"
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Pochi giorni fa, sui muri
della scuola ebraica, è apparsa una scritta: un anonimo autore
insultava un membro della nostra comunità. Un’opinione dura e forse
poco condivisa, espressa su una lettera pubblicata da Shalom, la causa
che probabilmente ha spinto a compiere tale gesto. Due giorni di
attesa, e l’insulto continuava ad imbrattare le mura di un edificio che
per definizione dovrebbe essere il luogo della cultura, del confronto,
del rispetto reciproco. Assistere a tutto questo e rimanere da parte
non ci è stato possibile: in questo episodio abbiamo visto una minaccia
alla libertà di espressione e di pensiero, proprio all’interno della
realtà che è a noi più vicina: la comunità ebraica. La difesa di un
valore, dunque, e non di un’opinione è stata la spinta a mobilitarci.
L’idea è stata quella di coprire simbolicamente quella che per noi era
un’espressione di intolleranza, nell’attesa che venisse rimossa
definitivamente; così, muniti di fogli bianchi e scotch, abbiamo
creduto, forse ingenuamente, di impegnarci per salvaguardare un
interesse generale. La reazione a tutto questo, però, è stata
totalmente inaspettata. Il giorno dopo, un’altra scritta è apparsa
accanto alla precedente, e stavolta l'oggetto dell’insulto eravamo noi.
Noi, Havi’u et Hayom, un gruppo di giovani ebrei nato dall’esigenza
comune di proporre uno spazio di incontro e di crescita, autonomi
rispetto a qualsiasi altro gruppo o movimento già esistente. Troviamo
che la modalità con cui siamo stati criticati non sia soltanto
sbagliata, ma sia soprattutto scoraggiante: ci ha stupiti il clima di
intolleranza che regna nella nostra comunità, la totale assenza di un
dialogo, l’impossibilità di esprimere un qualsiasi pensiero. È triste e
frustrante pensare che proprio tra noi ebrei regni un clima così aspro
e chiuso al confronto; la nostra storia ci dovrebbe indurre a
privilegiare la libera espressione e il dibattito anche sulle tematiche
più spinose, perché solo dal confronto può nascere il dialogo
indispensabile a mantenere viva e vitale la nostra comunità e a
consentire a tutti di coltivare la propria identità ebraica.
I ragazzi di
Havi’u et Hayom
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Antisemitismo e
islamofobia, una par condicio difficile
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Il recente convegno di studio
sul tema "Antisemitismo e islamofobia" – svoltosi il 16 maggio presso
la Camera dei Deputati, su iniziativa dell’organizzazione Hans Jonas -
ha suggerito a Ugo
Volli, nel Pilpul del 15 maggio, alcune considerazioni, volte
essenzialmente a respingere una facile equiparazione tra i due
fenomeni, che sarebbero intrinsecamente diversi quanto a radice
ideologica, estrinsecazione storica, intensità di manifestazione
(almeno nell’epoca attuale: a danno dei musulmani “non vi sono in
Europa oggi né campi di sterminio e piani di ‘soluzioni finali’ e
neppure linciaggi di massa né pogrom, né ghetti, inquisizioni, segni
vestimentari di discriminazione, cerimonie di umiliazione, statuti
civili differenziati per origine etnica o religione e tutto quel che ha
subito il popolo ebraico”).
Ma Tobia
Zevi, organizzatore del convegno, osserva il 17 maggio che
contro l’Islam è certamente in atto, nel nostro Paese, una campagna di
disinformazione ed emarginazione contro la quale appare doveroso
pronunciarsi e schierarsi, sul piano morale e civile, essendo anche
interesse comune di ebrei e musulmani, come minoranze, pronunciarsi
insieme, contro ogni forma di intolleranza e prevaricazione. (“Molte
questioni, a cominciare dalla politica internazionale, ci divideranno.
Ma siccome è altamente auspicabile che le relazioni non si traducano in
scontro, è altrettanto auspicabile che le due comunità sappiano
ingerirsi reciprocamente non solo nel male ma anche nel bene”).
Il problema sollevato appare di grande importanza e delicatezza, e
rinvia direttamente a una più ampia questione, etica e pratica: è
giusto, utile e opportuno affrontare congiuntamente diverse forme di
pregiudizio e di intolleranza, per meglio combatterle, tutte insieme
(per così dire, “unendo le forze”)? O non si rischia forse, in tal
modo, di creare confusione riguardo agli obiettivi da perseguire,
rendendone meno chiara la natura e l’identità (col rischio, così, al
contrario, di “disperdere le forze”)?
Come già abbiamo avuto modo di dire, a proposito della Giornata della
Memoria (Pilpul
del 26 gennaio), la scelta di affiancare la denuncia di una specifica
violenza a quella di altre forme di ingiustizia e sopraffazione dipende
dalla sensibilità individuale, dalle specifiche circostanze ed esigenze
ideologiche e culturali, e può essere difficilmente contestata.
L’impegno contro qualsiasi prevaricazione, grande o piccola che sia,
non potrà mai essere considerato negativo.
E’ anche vero, però, che il paragone e l’apparentamento di diversi tipi
di sopruso e ingiustizia può a volte apparire improprio e fuorviante,
non tanto perché si tratti di cose diverse (la comparazione è sempre
tra cose in parte differenti), quanto perché il confronto tra
differenti tipi di sofferenza impone - per una forma di rispetto e
considerazione umana - una sorta di “par condicio” di solidarietà: si
potrà mai dire, a chi abbia patito una qualche ingiustizia, “non
lamentarti troppo, perché quella che ho subito io è peggiore?”. Anche
un dolore “piccolo” (o, almeno, più piccolo di altri) merita rispetto.
Chi, per esempio, si lamentasse per un mal di denti, non apprezzerebbe
che il suo interlocutore iniziasse a parlare di qualcuno che soffre di
cancro, perché ciò avrebbe l’amaro sapore di un ridimensionamento, di
una banalizzazione del suo “piccolo” (ma non perciò insignificante)
dolore. E non apparirebbe certo di buon gusto invitare chi pianga un
parente, scomparso per morte naturale, a considerare lo strazio,
indubbiamente più crudele, di chi abbia subito l’uccisone violenta di
un congiunto.
Si può, quindi, parlare insieme di antisemitismo e islamofobia, perché
sono indubbiamente due cose che, entrambe, esistono, e sono entrambe da
condannare e combattere. Ma, nel farlo, occorre essere avvertiti del
fatto che si entra, fatalmente, sul terreno di una “par condicio” che,
nel confronto tra due fenomeni molto diversi (credo, al proposito, che
gli elementi di differenza siano assai maggiori di quelli di identità),
può risultare di difficile attuazione, a meno di non cedere a calibrati
equilibrismi o imbarazzanti forzature.
Francesco
Lucrezi, storico
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