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25 maggio 2011 - 21 Iyar 5771
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Adolfo Locci
Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova

Nel trattato talmudico di Yomà (21b) si discute il verso del profeta Oshea (2, 1) che leggeremo il prossimo Shabbat: "E sarà il numero dei figli d’Israele come la sabbia del mare che non si può misurare né contare". I maestri del Talmud, molto spesso hanno usato i numeri non per il loro “valore matematico”, ma per esaltare dei concetti “esagerando” in misure, quantità ecc. In questo caso, però, notano giustamente che il verso del profeta Oshea, inizia con il termine “numero” e si chiude con le parole “che non si può misurare né contare”. In effetti non esiste in natura un numero che non si possa contare o misurare. La risposta dei maestri per risolvere la possibile incongruenza è esemplare: il numero...non si può misurare né contare quando si mette in pratica la volontà del Signore. Questo detto talmudico, insegna che siamo equiparabili a quel “numero” che non si misura e non si conta, quando l’identità del popolo d’Israele è commisurata all’essere “popolo prescelto” che studia la Torà e osserva le Mitzwoth.
Sandro Natan
Di Castro,
Haifa


Sandro Natan Di Castro
Mi associo a quanto ha scritto Sergio Della Pergola sulla recente visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo  44 anni dalla fine della Guerra dei Sei Giorni, Giorgio  Napolitano non è l'unico amico di Israele a sostenere l'urgente necessità della creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato  d'Israele. Aggiungo  che gli attuali "nemici"  d'Israele non comprendono solo quelli che, in vari angoli della Terra, non accettano l'esistenza del nostro Stato. Il gruppo di questi nemici comprende anche molti ebrei italiani, in Italia e anche in Israele, incapaci di liberarsi  da superate ideologie colonialistiche che contrastano - fra  l'altro - con gli interessi del nostro stesso Stato. Alla luce di quanto accade attualmente nei Paesi arabi (confinanti e non con Israele), oltre a Netanyahu e a Lieberman anche non pochi israeliani ed ebrei della Diaspora, fra cui molti italiani, dovrebbero finalmente accendere una lampadina rossa per cominciare a riflettere seriamente.

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davar
Progetto Meridione - Il Gargano e l'ebraismo
Shabbat a San NicandroCon lo shabbaton tenutosi nei giorni scorsi a Torre Mileto nei pressi di San Nicandro Garganico si è ufficialmente aperto il Progetto Meridione. Questo progetto è organizzato dal dipartimento Educazione e Cultura dell’UCEI in partnership con Shavei Israel e con la collaborazione della Comunità Ebraica di Napoli.
Descrivere in un articolo le emozioni che abbiamo provato durante questo shabbaton non è semplice. L’evento si è tenuto presso il villaggio vacanze Cala Del Principe in un paesaggio di mare decisamente suggestivo. All’evento hanno partecipato circa sessanta persone provenienti principalmente da Roma ma anche da Napoli, Brindisi, Bari, Palmi, Reggio Calabria e Bologna. All’evento, è stata invitata come ospite Daniela Abravanel, che ha tenuto una lezione su Rabbi Shim’on Bar Jochai e Cabalà. Fra i presenti anche il Rav Shalom Bahbout, rabbino capo di Napoli, che ha tenuto una lezione sui racconti talmudici inerenti Rabbi Shim’on Bar Jochai.
Ma ciò che ha reso veramente straordinari questi giorni è stato l’incontro con la Comunità di San Nicandro, che ha partecipato all’intero shabbaton. Come molti sanno, dopo la Aliyà di circa settanta persone nel 1949, da quattro donne rimaste a San Nicandro, si è riformato un nuovo gruppo, che ora conta una trentina di persone e che ha già dato luogo alla prima conversione, quella di Grazia Gualano. Può sembrare incredibile ma oggi a San Nicandro vivono una decina di famiglie che si incontrano ogni shabbat nel loro Bet Hakkeneset, piccolo sì ma ottimamente tenuto e ben fornito. 
A proposito, un aneddoto. Giovedì in piena fase preparativa scopriamo che la spedizione che avrebbe dovuto dotarci di piatti kasher, plate, siddurim, libri di Torah non sarebbe arrivato in tempo. Per i piatti poco male, ma il resto rischiava di metterci in grossa difficoltà. Avremmo mangiato freddo, e pregato senza siddurim. Lo sconforto stava per prenderci ma non avevamo tenuto conto del fatto che a San Nicandro c’erano (almeno) cinque famiglie che usano la Plata di shabbat! Quanto ai libri poi… la mia station wagon è tornata al villaggio carica di tutto quanto ci ha permesso di portare a termine uno splendido shabbat. Il nostro mashghiach Ettore Segrè era letteralmente incredulo.
La domenica il gruppo si è trasferito a San Nicandro dove, oltre alla visita del tempio e delle altre strutture della Comunità, abbiamo potuto gustare orecchiette, parmigiana di matzot, e altre prelibatezze locali. Il tutto si è concluso con una Bircat hamazon cantata e quasi strillata: un modo per esternare la grande gioia che ha pervaso tutti i partecipanti.
Tutti sono rimasti affascinati e colpiti dalla forza di questa Comunità che pur distando 400 chilometri dai principali centri ebraici è riuscita a risorgere e a vivere un ebraismo intenso, fatto di rispetto delle mitzvoth, ma anche di tradizioni che solo in questo posto si possono trovare.
Per ragioni di brevità non posso andare oltre, chiunque voglia saperne di più deve solo chiedere a chi è stato con noi. Ma i racconti non riescono a riprodurre le sensazioni che abbiamo provato lì. L’unico modo è andare a San Nicandro.

Gadi Piperno, coordinatore Progetto Meridione

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Pacifici: "Una lettura distorta delle proteste romane"
Riccardo PacificiL'intervento del nostro presidente Gattegna rischia, per chi non conosce da vicino la cronologia dei fatti, di avere una distorta lettura delle proteste romane. Nella quale ci sono due "vittime", Giorgio Gomel e Moni Ovadia da una parte e dall'altra quelli della cosiddetta "Piazza" quali "incivili e prevaricatori". Gattegna lancia su questo Portale una dichiarazione che lascia intendere agli ebrei italiani e a coloro che leggono il nostro Portale dell'ebraismo italiano che nella Comunità che ho l'orgoglio di guidare non ci sia spazio al dissenso e alla pluralità delle opinioni. Cosa non vera. Anche perché Gattegna, pur non condividendo l'espressioni forti e lo strappo di Gomel, si dimentica di chiarirlo nel suo comunicato. Così facendo coloro che non conoscono i fatti avranno la sensazione e forse la certezza che Gattegna si sia schierato con Gomel e Ovadia contro la Comunità Ebraica di Roma. Ma i fatti fortunatamente sono altri.
Gomel, come spesso avviene, trova spazio senza alcuna "censura" nel mensile "Shalom" e nella foga di dissentire con il sottoscritto per avere guidato una delegazione di solidarietà e vicinanza agli abitanti degli insediamenti di Itamar, vittime di una strage aberrante (vennero sgozzati nel sonno una famiglia di cinque persone di cui tre bambini a cominciare da quello di tre mesi), non si limita ad esprimere un legittimo dissenso sull'opportunità di vivere nella Giudea e Samaria, ma si avventura nello scrivere che gli abitanti di Itamar "non sono nostri fratelli". Ma non si ferma qua, condanna il diritto/dovere della polizia israeliana di ricercare a Nablus gli assassini violando sostanzialmente la loro autonomia e dignità (peccato per Gomel che grazie a quella indagine due giorni dopo gli assassini sono stati catturati con il confronto del dna, due fratelli di 17 e 19 anni rei confessi).
Il direttore Khan si ritrova a pubblicazione avvenuta con una valanga di email di protesta ed il sottoscritto a Yom Hazmaut viene insultato dalla "Piazza" per avere "permesso" la pubblicazione di quello strappo (il presidente della Cer non controlla Shalom). Scatta l'indignazione che difficilmente riesco a placare. Il 18 maggio, mentre io e il Segretario della Cer ci troviamo in Israele, compare una scritta volgare con vernice nera sui muri della scuola ebraica. Il 19 maggio notte dei ragazzi della nostra Comunità con gesto di civiltà la vanno prima a coprire con dei cartoni bianchi e il sottoscritto la fa poi definitivamente cancellare il giorno dopo. Tutto sembrava risolto, finché la domenica mattina del 22 maggio in un altro striscione, a questo punto organizzato e sempre sui muri della scuola scrivono "tutti gli ebrei sono nostri fratelli: Gomel e Ovadia No". Una "pasquinata" romana che non mostra alcun insulto né volgarità se non l'ironizzare sulle maldestre parole di Gomel su Shalom ma che ancora una volta usa i muri della scuola (cosa sbagliata) per sfogare la propria rabbia e dissenso. Striscione che lunedì mattina del 23 maggio alle ore 8,10 personalmente rimuovo e alle 9 faccio cancellare tutte le nuove scritte.
La protesta insomma non è sul legittimo, anche se non condivisibile politicamente da parte mia, diritto di dissentire sugli Insediamenti (anche se Gomel e non solo lui continua in forma malvagia a chiamarle Colonie) ma sul fatto che abbia scritto che "Non sono nostri fratelli". Gomel, persona intelligente e non sprovveduta, sapeva di colpire nel segno e sapeva, ad arte, di creare una profonda lacerazione, difficilmente risanabile. E' riuscito con abilità e godendo delle simpatie degli pseudo intellettuali ebrei italiani, a trasformare il suo strappo e patto di fratellanza ebraica in una "aggressione" alla sua libertà di opinione. Mi dispiace, ma pur condannando l'uso dei muri della scuola, cosi come di ogni spazio della nostra città per esprimere dissenso, rivendico il diritto di dissentire da Gomel come da Moni Ovadia, reo spesso di illustrare all'opinione pubblica italiana una realtà distorta di cosa sia Israele, sconfinando in alcuni casi al suo diritto di esistere.
Mentre noi litighiamo, perdiamo di vista con gravi rischi per la nostra stessa esistenza, di comprendere quale sia il momento storico che attraversiamo in Europa, da ebrei e da europei e del fatto che Israele è accerchiata da regimi fanatici, che nonostante le "primavere arabe", dal Libano di Hezbollah, alla Siria non più di Assad ma di Ahmadinejad e all'Egitto del "nuovo corso, dove la nuova dirigenza ed i loro Imam proclamano di voler "marciare su Gerusalemme e Tel Aviv". La domenica della Naqbà lo hanno fatto da tre confini provocando la morte di 17 persone. Siamo in una guerra nella quale non ci saranno vincitori e perdenti ma dove potremmo rischiare di essere estinti come popolo. Nonostante questo dobbiamo difenderci dalle posizione buoniste, sempre dentro le nostre Comunità, che con l'entusiasmo di difendere il diritto agli islamici di aprire propri luoghi di culto, ci si dimentica molto spesso di ricordare che abbiamo la necessità di far chiudere quelle Moschee che sono ad oggi, non solo e nella stragrande maggioranza, controllate da organizzazioni affiliate ai "Fratelli Musulmani" e ad Hamas, ma che sono spesso covo del terrorismo Fondamentalista in cui Imam predicano l'odio contro i "crociati, gli ebrei ed i sionisti". Ieri, mentre il nostro Rabbino capo era a parlare alla grande Moschea di Roma, una genuina protesta di musulmani democratici chiedevano a gran voce ai dirigenti di rendere trasparente la gestione di quel luogo, oggi nelle mani di amministratori nominati dalle ambasciate di Paesi Arabi e Musulmani, le cui nazioni in alcuni casi fra loro negano il diritto della libertà religiosa e l'apertura di Chiese.
Gomel, Ovadia, Lerner, con le loro espressioni mettono in serio imbarazzo non solo gli ebrei "cattivi" come il sottoscritto ma anche quelli "buoni" che da sempre hanno assunto posizione a sinistra molto moderate. Aggiungo infine che l'aberrante comparazione di una radice comune nei sentimenti di antisemitismo ed islamofobia, sostenuta a gran voce da nostri giovani emergenti rischia di confondere l'opinione pubblica. Costruendo difatti una pericolosissima associazione di idee.
Ma torniamo a noi. Non sono i "coloni" di Itamar ad esser un ostacolo per la pace in Medio Oriente ma coloro che sia dentro il partito di Abu Mazen che dentro Hamas negano ad Israele il diritto di esistere. Sono personalmente orgoglioso della standing ovation che ha raccolto il primo ministro Biby Nethanyhau al Congresso americano. Un discorso, il suo, molto coraggioso dove ha sottolineato che la real politik non potrà consentire di ritornare ai confini del 67 (cosa detta anche da Obama), ma che certamente si dovranno fare scelte dolorose e molti insediamenti potrebbero rimanere sotto il controllo del futuro Stato di Palestina. Abu Mazen non ha fatto attendere la sua risposta: nessun israeliano potrà vivere nel nostro futuro Stato!
A questo punto rivolgo a voi tutti una domanda: perché un arabo può vivere con pieni diritti a Yafo, a Haifa, a Yerushalaim, Nazareth, ecc,ecc e un israeliano non può vivere in Palestina? Le risposte ce le daremo serenamente in un convegno al quale sarà invitato Gomel, e dove Gattegna, l'ambasciatore d'Israele e un abitante di Itamar hanno dato loro disponibilità a confrontarsi. L'appuntamento è a giugno nel cortile delle Scuole ebraiche. Questo è l'unico metodo di confronto civile e speriamo che Gomel troverà l'umiltà di chieder scusa se, involontariamente come voglio pensare, ha offeso la nostra sensibilità.

Riccardo Pacifici, presidente Comunità ebraica di Roma

Havi’u et Hayom: "Oltre il muro"
Logo Havi'u et HayomPochi giorni fa, sui muri della scuola ebraica, è apparsa una scritta: un anonimo autore insultava un membro della nostra comunità. Un’opinione dura e forse poco condivisa, espressa su una lettera pubblicata da Shalom, la causa che probabilmente ha spinto a compiere tale gesto. Due giorni di attesa, e l’insulto continuava ad imbrattare le mura di un edificio che per definizione dovrebbe essere il luogo della cultura, del confronto, del rispetto reciproco. Assistere a tutto questo e rimanere da parte non ci è stato possibile: in questo episodio abbiamo visto una minaccia alla libertà di espressione e di pensiero, proprio all’interno della realtà che è a noi più vicina: la comunità ebraica. La difesa di un valore, dunque, e non di un’opinione è stata la spinta a mobilitarci.
L’idea è stata quella di coprire simbolicamente quella che per noi era un’espressione di intolleranza, nell’attesa che venisse rimossa definitivamente; così, muniti di fogli bianchi e scotch, abbiamo creduto, forse ingenuamente, di impegnarci per salvaguardare un interesse generale. La reazione a tutto questo, però, è stata totalmente inaspettata. Il giorno dopo, un’altra scritta è apparsa accanto alla precedente, e stavolta l'oggetto dell’insulto eravamo noi. Noi, Havi’u et Hayom, un gruppo di giovani ebrei nato dall’esigenza comune di proporre uno spazio di incontro e di crescita, autonomi rispetto a qualsiasi altro gruppo o movimento già esistente. Troviamo che la modalità con cui siamo stati criticati non sia soltanto sbagliata, ma sia soprattutto scoraggiante: ci ha stupiti il clima di intolleranza che regna nella nostra comunità, la totale assenza di un dialogo, l’impossibilità di esprimere un qualsiasi pensiero. È triste e frustrante pensare che proprio tra noi ebrei regni un clima così aspro e chiuso al confronto; la nostra storia ci dovrebbe indurre a privilegiare la libera espressione e il dibattito anche sulle tematiche più spinose, perché solo dal confronto può nascere il dialogo indispensabile a mantenere viva e vitale la nostra comunità e a consentire a tutti di coltivare la propria identità ebraica.

I ragazzi di Havi’u et Hayom

Antisemitismo e islamofobia, una par condicio difficile
Francesco LucreziIl recente convegno di studio sul tema "Antisemitismo e islamofobia" – svoltosi il 16 maggio presso la Camera dei Deputati, su iniziativa dell’organizzazione Hans Jonas - ha suggerito a Ugo Volli, nel Pilpul del 15 maggio, alcune considerazioni, volte essenzialmente a respingere una facile equiparazione tra i due fenomeni, che sarebbero intrinsecamente diversi quanto a radice ideologica, estrinsecazione storica, intensità di manifestazione (almeno nell’epoca attuale: a danno dei musulmani “non vi sono in Europa oggi né campi di sterminio e piani di ‘soluzioni finali’ e neppure linciaggi di massa né pogrom, né ghetti, inquisizioni, segni vestimentari di discriminazione, cerimonie di umiliazione, statuti civili differenziati per origine etnica o religione e tutto quel che ha subito il popolo ebraico”).
Ma Tobia Zevi, organizzatore del convegno, osserva il 17 maggio che contro l’Islam è certamente in atto, nel nostro Paese, una campagna di disinformazione ed emarginazione contro la quale appare doveroso pronunciarsi e schierarsi, sul piano morale e civile, essendo anche interesse comune di ebrei e musulmani, come minoranze, pronunciarsi insieme, contro ogni forma di intolleranza e prevaricazione. (“Molte questioni, a cominciare dalla politica internazionale, ci divideranno. Ma siccome è altamente auspicabile che le relazioni non si traducano in scontro, è altrettanto auspicabile che le due comunità sappiano ingerirsi reciprocamente non solo nel male ma anche nel bene”).
Il problema sollevato appare di grande importanza e delicatezza, e rinvia direttamente a una più ampia questione, etica e pratica: è giusto, utile e opportuno affrontare congiuntamente diverse forme di pregiudizio e di intolleranza, per meglio combatterle, tutte insieme (per così dire, “unendo le forze”)? O non si rischia forse, in tal modo, di creare confusione riguardo agli obiettivi da perseguire, rendendone meno chiara la natura e l’identità (col rischio, così, al contrario, di “disperdere le forze”)?
Come già abbiamo avuto modo di dire, a proposito della Giornata della Memoria (Pilpul del 26 gennaio), la scelta di affiancare la denuncia di una specifica violenza a quella di altre forme di ingiustizia e sopraffazione dipende dalla sensibilità individuale, dalle specifiche circostanze ed esigenze ideologiche e culturali, e può essere difficilmente contestata. L’impegno contro qualsiasi prevaricazione, grande o piccola che sia, non potrà mai essere considerato negativo.
E’ anche vero, però, che il paragone e l’apparentamento di diversi tipi di sopruso e ingiustizia può a volte apparire improprio e fuorviante, non tanto perché si tratti di cose diverse (la comparazione è sempre tra cose in parte differenti), quanto perché il confronto tra differenti tipi di sofferenza impone - per una forma di rispetto e considerazione umana - una sorta di “par condicio” di solidarietà: si potrà mai dire, a chi abbia patito una qualche ingiustizia, “non lamentarti troppo, perché quella che ho subito io è peggiore?”. Anche un dolore “piccolo” (o, almeno, più piccolo di altri) merita rispetto. Chi, per esempio, si lamentasse per un mal di denti, non apprezzerebbe che il suo interlocutore iniziasse a parlare di qualcuno che soffre di cancro, perché ciò avrebbe l’amaro sapore di un ridimensionamento, di una banalizzazione del suo “piccolo” (ma non perciò insignificante) dolore. E non apparirebbe certo di buon gusto invitare chi pianga un parente, scomparso per morte naturale, a considerare lo strazio, indubbiamente più crudele, di chi abbia subito l’uccisone violenta di un congiunto.
Si può, quindi, parlare insieme di antisemitismo e islamofobia, perché sono indubbiamente due cose che, entrambe, esistono, e sono entrambe da condannare e combattere. Ma, nel farlo, occorre essere avvertiti del fatto che si entra, fatalmente, sul terreno di una “par condicio” che, nel confronto tra due fenomeni molto diversi (credo, al proposito, che gli elementi di differenza siano assai maggiori di quelli di identità), può risultare di difficile attuazione, a meno di non cedere a calibrati equilibrismi o imbarazzanti forzature.

Francesco Lucrezi, storico

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Qui Milano - Scritte omobofe alla Bocconi,
condanna dell'Unione Giovani Ebrei d'Italia

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“L’omofobia è purtroppo all’ordine del giorno in Italia e oggi va persino a toccare i muri di una prestigiosa Istituzione Accademica come l’Università Bocconi..".»
 

Si è chiusa ieri una “sei giorni” durante la quale, a Washington, si è parlato quasi soltanto di Medio Oriente. Si è iniziato con il discorso di Obama fatto subito prima dell’incontro con Netanyahu... »

Emanuel Segre Amar








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