Alla vigilia della prova referendaria, che riguardava anche la politica
energetica e gli investimenti sul nucleare, Pagine Ebraiche di giugno,
attualmente in distribuzione, ha pubblicato questi contributi:
Nelle terre bizzarre di Chernobyl
Alcune delle mie più strane
avventure hanno avuto inizio nei negozi degli antiquari: luoghi di
divagazioni incongrue, dove si scopre ciò che non ci si aspetta e molte
cose rimangono in sospeso, senza una conclusione. Nel tiepido settembre
del 1983, entrai in una piccola libreria parigina, tra rue Madame e rue
du Vieux Colombier, affollata di mappe geografiche e stampe di antichi
edifici egizi e babilonesi, come in una rappresentazione di un’antica
Loggia massonica. Avevo intenzione d’acquistare per un regalo una
vecchia carta della Polonia. Non ne avevano, e così mi fu proposta una
mappa colorata dell’Ucraina: un bel cartiglio opera di Giovan Battista
Homann (1663- 1724) di Norimberga, che la incise nel 1705. In alto a
sinistra, attorniata da alcune buffe figure con baffoni, colbacchi e
sciabole sguainate, c’era la scritta: “Ukrania quae est terra
cosaccorum”. Mentre, indeciso, la stavo esaminando, mi si accostò un
altro cliente: smisuratamente alto, volto pallido e capelli biondi
impiastricciati in un vezzoso riporto, intabarrato in un elegante,
anche se un po’ consunto, pastrano nero. Si presentò bofonchiando dei
nomi incomprensibili e asserendo di essere principe di non so dove:
“traduttore e studioso di fenomeni chimici”. Parlava un francese un po’
asiatico, ma poi passò con naturalezza all’italiano, con un beffardo
accento napoletano. Mi sfilò delicatamente la carta dalle
mani e la guardò abbozzando un ghigno. Percorrendo con l’indice
ingiallito dalla nicotina la verticale al centro della carta, lungo la
linea nera di un fiume, sussurrò: “È l’amaro Nipro, il Dnepr,
menzionato da Erodoto col nome di Borysthenes, che in scita significava
‘ampia terra’; mentre i romani lo chiamavano: Danaper. Qui forma quasi
un lago e, appena più sopra, in un reticolo di fiumi, incontra il
Pripjat’, da pripecˇ, che significa, come saprà, ‘riva sabbiosa’. Ecco,
vede qui, nella prima ansa a sinistra, e segnata Czernobel o Chernobyl.
Il nome della città deriva da una combinazione tra chornyi (nero) e
byllia (steli d’erba o gambi). Il suo significato letterale sarebbe
quindi: nero stelo d’erba. La ragione di questo nome non è ben nota e
ci sono varie ipotesi, una di queste la fa derivare dalla parola
ucraina che definisce l’Artemisia (Artemisia absinthum): la componente
principale dell’assenzio, assieme ai semi di anice verde, finocchio,
issopo, melissa, mischiati ad angelica, menta, ginepro, camomilla e
coriandolo”.
Barbara, l’amica polacca alla quale portai la mappa, pagata a caro
prezzo, non apprezzò affatto il regalo. Anzi, si arrabbiò moltissimo e
me la tirò dietro urlandomi con disprezzo: “Quell’Ucraina è sempre
stata Polonia: non vedi che c'è anche Lublino, Leopoli e tutta la
Podolia!”. Così quella carta e rimasta a me. Lo scorso anno, in una
gelida alba novembrina, mi ritrovai sul lungo marciapiede di fronte
alla rugginosa stazione ferroviaria di Kiev. Su decine di pullman si
riversavano donne di tutte le età che andavano a lavorare in giro per
l’Europa. Proprio davanti a una moderna, ed esageratamente dorata,
chiesa ortodossa, stava parcheggiato un piccolo
furgoncino giallo munito di bandierina col simbolo della radioattivita.
Appoggiati alla portiera c’erano due giovani, gli accompagnatori: uno
smilzo e barbuto, vestito di nero, con l’aria mistica di un prete
ortodosso; l’altro, tarchiato, la faccia tempestata dai brufoli, i
capelli con taglio militare e due orecchini per lobo. Attendevano i
clienti e controllavano la loro registrazione su un nuovissimo iPad.
Eravamo in sette: due fisici dell’Università di San Pietroburgo, una
coppietta di allegri fidanzatini moscoviti, una psicologa bielorussa
che somigliava a Juliette Binoche da bionda, un lituano armato di una
ricca attrezzatura fotografica. [...] Dopo una mezz’ora di assonnato
silenzio, il tarchiato, che stava seduto accanto al perplesso Autista,
prese il microfono e recitò, guardando dritto davanti a sè, “una breve
introduzione alla gita”. Disse che non c’era più nulla da temere perché
“è tutto in sicurezza”. Per la prima volta sentii nominare la Zona:
“Niente di commestibile potrà essere portato dentro la Zona e niente
riportato fuori; niente potrà essere raccolto nella Zona”. [...] Quando
giungemmo alla periferia della città di Chernobyl ci trovammo di fronte
pochi edifici in stile sovietico, circondati da alberi attorcigliati.
Ci dissero che, in tutta la Zona, c’erano solo 700 abitanti: uomini e
donne, per lo più anziani, che avevano scelto di tornare alle loro
case, incuranti del pericolo, o lavoratori ai quali era permesso di
stare lì solo per 14 giorni, obbligati poi a osservarne altrettanti per
il riposo e i controlli sanitari. [...] Proseguimmo in direzione della
parte vecchia della città: rare abitazioni a un piano abbandonate,
qualcuna ancora in legno. [...] Sembrava un triste e fitto bosco,
punteggiato qua e là da case senza luce né vita. Slabbrate staccionate
delimitavano quelli che erano stati fiorenti orti e giardini, che
circondavano centinaia di dimore di campagna attaccatesi, nei secoli,
le une alle altre fino a formare una verde città.
L’epoca staliniana e la guerra hitleriana avevano già definitivamente
provveduto a creare delle macchie disabitate, a scollare le poche
costruzioni che tenevano assieme quel mondo: cancellando soprattutto le
Sinagoghe, i negozi e i palazzi dei mercanti. L’unico vecchio edificio
pubblico rimasto in piedi, restaurato e colorato come un dolcetto di
marzapane, era la vecchia chiesa ortodossa, con la facciata a campanile.
Francesco
Cataluccio
Il nucleare e
l'eredità per i nostri figli
In una serie di articoli
pubblicati nelle scorse settimane, il New York Times, analizza le
reticenze e i ritardi della Tokyo Electric Power Company nel rilasciare
i dati sulla reale entità del disastro nucleare di Fukushima. Tentativo
di difesa della Tepco: la verità avrebbe seminato il panico. Come se il
popolo non fosse sovrano e responsabile del proprio destino, ma un
bambino da non spaventare. Cecchi Paone, nel dvd commissionatogli da
Enel e Edf e capillarmente diffuso tra gli utenti-elettori, dice: “in
ogni fase di vita dell'impianto [...] vengono adottate tutte le misure
tecniche e organizzative necessarie per controllare in qualsiasi
circostanza il funzionamento del reattore e la gestione delle scorie”
come se la fusione del nocciolo fosse un evento remoto. Ma Thomas B.
Cochran, del National Resources Defense Council, in preparazione lo
scorso aprile a una testimonianza davanti alla commissione senatoriale
Ambiente e lavori pubblici degli Stati Uniti, elenca 12 fusioni
parziali o totali di noccioli di reattori nucleari già avvenute in giro
per il mondo (quattro negli USA, due in Francia, una in Scozia, come in
Germania e Ucraina, e tre in Giappone), alla media di una ogni tre
anni. Mi domando: è possibile, oggi, gestire o pianificare un impianto
nucleare senza reticenze o “dimenticanze”? Per vent'anni ho
sperimentato in laboratorio la Fisica dello stato solido finalizzata al
nucleare: fisica dei metalli, effetti fisici delle radiazioni sui
materiali, diffusione intermetallica (serve per l'incamiciatura delle
barre di combustibile nei reattori). Ho insegnato Fisica per 38 anni
all'Università degli studi di Milano, ho diretto per anni una divisione
di Fisica e una divisione Materiali, e rifiuto la polemica etichetta di
“antinuclearista”. Anzi, auspico ingenti sforzi e investimenti nella
ricerca e sviluppo di reattori di quarta generazione, per verificarne
l'effettiva sicurezza; e di seri processi per lo smaltimento delle
scorie radioattive, problema tuttora insoluto. Ma la tecnologia
attuale, ivi compresa la terza generazione “avanzata” dei reattori Epr
previsti in Italia, non è sicura. La parola “avanzata” è una foglia di
fico. Sono in sostanza reattori ad acqua in pressione (cioè di terza
generazione) il cui nocciolo può fondere per il mancato funzionamento
di uno qualsiasi dei delicati passaggi in serie del sistema di
raffreddamento, con l'aggiunta di un secondo involucro, di cemento
armato, che, in caso di fusione, dovrebbe contenere le barre
radioattive fuse. Ma, anche a reattore spento (o addirittura fuso),
l'incontrollabile radioattività del combustibile che ha subito reazioni
di fissione continua ad emettere energia, a un ritmo iniziale di circa
il 10% della potenza nominale del reattore: per un Epr da 1600 MW
sarebbero 160 MW inarrestabili, cioè una piccola (o media) centrale
impazzita, con tempi di dimezzamento che si contano a decine o
centinaia di anni. La radioattività, per essere contenuta
dall'involucro, deve depositarvi anche la propria energia, facendo così
salire la temperatura fino al punto in cui il cemento si dissocia
dall'acqua di presa (che, come tutti gli ingegneri sanno, è la vita
stessa del cemento), polverizzandosi. A Chernobyl ogni vent’anni gli
elicotteri devono colare una nuova coltre di cemento, perché la
precedente diventa polvere sollevata dal vento. A Fukushima non si è
trovato di meglio che innaffiare tutto con acqua di mare, riversando la
radioattività prima nelle falde acquifere, poi in quello stesso mare da
cui i giapponesi traggono il pesce e le alghe per il proprio
nutrimento. Ma anche a prescindere da incidenti, chi vuol conservare le
scorie radioattive (barre di combustibile esaurite e reattori
smantellati a fine vita) in depositi sotterranei, trascura che la Terra
è di fatto un pianeta liquido, la cui crosta è in proporzione più
sottile del guscio di un uovo. Solo che, per motivi di scala (il
trenino elettrico dei nostri figli trasporta il ferro da stiro, che
pesa cinque volte più di lui, ma un vagone delle ferrovie vere non
porterebbe mai un carico cinque volte superiore al proprio peso!) il
guscio dell'uovo è fragile ma rigido, la crosta terrestre non lo è
affatto. È frantumata in zolle contigue, galleggianti sul magma fuso e
in lentissimo ma continuo movimento: è la ben nota "deriva dei
continenti", per la quale, per esempio, l'Africa ruota lentamente in
senso antiorario, premendo sullo zoccolo continentale siciliano ed
italiano e sollecitando la faglia dell'Irpinia, e ha così provocato, in
un secolo, terremoti a Messina, nel Belice, in Irpinia e all'Aquila.
Per questo i sismografi non stanno mai fermi, oscillano in
continuazione, e i terremoti non sono che oscillazioni più ampie. Il
sedimentario stratificato, come la Pianura Padana, ne è quasi esente,
ma, appunto perché sedimentario stratificato, è pervaso da acque
sotterranee, che nel corso dei millenni di vita degli isotopi
radioattivi, finirebbero per corrodere pareti dei depositi
(inavvicinabilmente radioattivi e perciò non riparabili in caso di
guasto) e contenitori, per quanto spessi.
Lo Special Report R&D 2004 della prestigiosa Technology Review
del Massachusetts Institute of Technology (il Politecnico più famoso
del mondo) recava in copertina il simbolo di un deposito radioattivo
coperto solo a metà da un cerotto, e il commento: “La migliore opzione
per le scorie nucleari: non sappiamo come immagazzinarle per sempre.
Lasciamo la soluzione a una generazione che lo saprà.” Un baratto tra
un vantaggio energetico per noi e un problema forse insolubile per le
generazioni future. Con quale diritto? Infine, il confronto con le
fonti fossili di energia. I sostenitori del nucleare affermano che
anche carbone e petrolio mietono vittime, perché provocano inquinamento
e affrettano il riscaldamento del pianeta. In realtà solo un terzo,
cioè una minoranza, degli studiosi crede nell'origine antropogenica del
riscaldamento globale, che segue l'attività delle macchie solari e si
riscontra anche in corpi del sistema solare non abitati. E le vittime
(accertate) delle miniere e quelle (non accertate) dell'inquinamento
atmosferico sono in questa generazione, non un'eredità che lasciamo
alle future. Le radiazioni nucleari provocano invece teratogenesi e
malattie mortali almeno fino a tante generazioni quante ne sono passate
dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945. E Chernobyl sta
purtroppo confermando che questo odioso effetto non è appannaggio delle
esplosioni nucleari solo militari.
Che cosa c'entra tutto questo con l'amore per la propria discendenza?
Ecco: io sono un ebreo non osservante, ma molto tradizionalista. So che
Maimonide ha gettato le basi della filosofia ebraica moderna, che
Joseph Caro ci ha imbandito la tavola perché ci nutrissimo di Talmud,
che Elia Benamozegh ha confrontato le morali ebraica e cristiana. Ma se
dovessi sintetizzare in che cosa l'ebraismo si distingue da tutte le
altre religioni, ricorderei alcune parole dello Shemà: “le ripeterai ai
tuoi figli e ne parlerai con loro”; e penserei all'intensità di
sentimenti con la quale mio padre mi dava la berachà e io la ridò ai
miei figli e ai miei nipoti. Penserei all'importanza della progenie
nella tradizione ebraica, per cui le maledizioni si fermano alla
settima generazione, ma le benedizioni si propagano fino alla
millesima. E mi domanderei con quale cuore un ebreo potrebbe non andare
a votare al referendum per una moratoria nucleare non di qualche anno,
ma che duri finché non siano risolti i due problemi della sicurezza
delle centrali e dell'eliminazione delle scorie radioattive.
Aurelio Ascoli
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