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22 giugno 2011 - 20 Sivan 5771
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Adolfo Locci Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova

"Oy larashà, oy lishchenò - guai al malvagio e guai al suo vicino". La questione di Korach, che rappresentava una disputa fra cugini della tribù di Levi, è stata abbracciata anche da Datan, Aviram e On della tribù di Reuven. La tribù di Reuven e i figli di Kehat si  accampavano, vicini, a sud e Rashy spiega che fu questa vicinanza ad influenzare Datan e gli altri e non il merito della diatriba. Vicino al "rashà", è d'obbligo avere una propria opinione...
Davide
Assael,
 ricercatore



Davide Assael
Questa settimana si è svolto a Brezzo Bedero un interessante convegno sulla scuola filosofica e poetica milanese, come noto fra le più importanti del secolo scorso e non solo a livello italiano. Tra i diversi spunti, si è particolarmente insistito sul rapporto maestri-allievi, indicando come punto di merito dei primi l’aver promosso nei propri studenti una libertà critica che, spesso, si è rivolta contro la fonte originaria, dando vita a contrasti e rotture. L’obiettivo di un percorso di formazione è dunque l’uccisione del padre? Che differenza con la cultura ebraica, dove viene sempre ricordata la linea genealogica, senza che tutto ciò si sia tradotto in una limitazione della parola, che anzi si è moltiplicata nella civiltà del pilpul. Una visione del processo formativo che si incentra su categorie differenti da quelle edipico-greche e che ha il merito di impedire deliri di onnipotenza degli alunni, che oggi, chi insegna lo sa, appaiono sempre più come il prodotto finale di un antico percorso.

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davar
Bob Dylan, la leggenda del folk sbarca in Italia
Grande attesa questa sera a Milano per il concerto di Bob Dylan che segue la travolgente esibizione di Tel Aviv e la celebrazione del suo settantesimo compleanno. La tourneé viene definita Never Ending Tour perché prosegue ininterrottamente da più di venti anni ed è il terzo anno consecutivo che tocca il nostro Paese. Milano sarà l'unica tappa italiana toccata dall'artista. Quest’anno poi è un momento importante della sua carriera visto che oltre al settantesimo compleanno Dylan ha festeggiato i cinquant’anni di attività musicale.
Il giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche di giugno ha dedicato al cantautore alcuni articoli che riproponiamo ai nostri lettori.


Il ritorno di Dylan. Torah, Midrash e un appuntamento in Italia

Bob DylanSettanta candeline appena soffiate sulla torta di compleanno non gli hanno fatto passare la voglia di cantare e neanche quella di andare in giro per il mondo con la sua chitarra. Così Bob Dylan in queste ore sta di nuovo preparando le valige e si appresta ad iniziare la sua nuova tournée europea, che lo porterà fra pochi giorni, lunedì 20 giugno, allo stadio di Tel Aviv-Ramat Gan e subito dopo, mercoledì 22, all’Alcatraz di Milano per l’unico appuntamento con il pubblico italiano. E fioriscono ancora nuove iniziative. In questi giorni arriva in libreria una raccolta di testimonianze Play a song for me a cura di Giovanni Cerutti (Interlinea edizioni) con molti testi di ammiratori di Dylan di cui i lettori troveranno alcuni esempi in queste pagine.
«Io sono le mie parole» aveva scritto il menestrello - spiega oggi Cerutti - e in occasione dei 
suoi settant’anni sono qui raccolte le voci di compagni di strada (come Joan Baez, innamorata di «lui e la sua chitarra e le sue splendide, sconnesse, mistiche parole», Allen Ginsberg e Fernanda Pivano) e di chi è cresciuto con le sue canzoni (da Richard Gere a Bob DylanBruce Springsteen, per il quale è stato «il fratello che non ho mai avuto»). Non mancano cantautori come De André e Guccini («Dylan è le nostre idee di allora, le nostre discussioni di politica e di musica»), con una canzone tradotta da Patrizia Valduga e testi di Stefano Benni e Carlo Feltrinelli, senza dimenticare il rapporto di Dylan con Obama, di cui scrive Carrera: «Hey! Mr. Tamburine man, play a song for me!» con una divertente e semisconosciuta finta lettera scritta dallo stesso Dylan alla madre della Baez, riemersa dai cassetti della folksinger.
Nuovi studi continuano anche a decodificare la profonda ispirazione ebraica del grande cantautore americano. “Che ne sia consapevole o meno - spiega Seth Rogovoy, critico musicale e autore di Bob Dylan, Prophet, Mystic, Poet - Bob Dylan, profeta, mistico, poeta (Scribner, New York) - l’uso che fa Dylan dei modelli del discorso profetico ebraico come uno dei suoi mezzi di comunicazione primari non determina solo il contenuto delle sue canzoni, ma anche lo stile espressivo, che è molto più vicino a una declamazione che a una melodia”. “Attraverso la sua carriera - continua - che abbia Bob Dylanparlato dell’ingiustizia sociale in Blowin’ in the Wind e Hurricane, delle ansietà della Guerra fredda in A Hard Rain is Gonna Fall e Masters of the War, dell’accoglienza dei veterani rientrati dal Vietnam in Clean-Cut Kid o dei politici corrotti in Political World e in Disease of Conceit, Dylan non ha fatto altro che tornare alla tradizione profetica per infondere nelle sue canzoni una misura di impatto e di dignità che con molta evidenza distacca la sua opera da quella di tutti gli altri suoi colleghi dell’era del rock. Bono, la voce del gruppo irlandese degli U2, lui stesso fortemente ispirato da una vena di cristianità intensamente legata alle origini ebraiche, riconosce che Dylan ‘è sempre stato un critico della modernità, perché in fondo lui viene da un luogo antico’”.
“Una delle maniere più soddisfacenti di accostarsi alle liriche di Dylan - prosegue Rogovoy - è quello di leggerle come il lavoro di una mente poetica immersa nei testi ebraici e impegnata nel processo di costruzione del Midrash, un genere di elaborazione formale o informale dei Testi che è utile a chiarire o elaborare il loro messaggio recondito. Forse uno degli esempi migliori in questo senso lo troviamo in una delle composizioni di Dylan più note: Highway 61 Revisited, la sua personale reinterpretazione della Akeidah, il sacrificio di Isacco. La statale 61 è la principale via di comunicazione fra New Orleans e Duluth in
Bob DylanMinnesota, il luogo natale di Dylan. L’uomo da cui il cantate era nato portava il nome di Abram”. Ma gli esempi sono molto numerosi. Quando nel 1982 suo figlio Samuel raggiunse l’età della maggiorità religiosa e festeggiò il Bar Mitzvah a Gerusalemme, poco dopo questo viaggio nacque una composizione ispirata a una dura linea sionistica. L’album Infidels mostra una copertina con Dylan protetto dagli occhiali scuri sotto la luce brillante di Gerusalemme e all’interno lo stesso cantante che guarda verso le mura della Città vecchia. Fra le varie canzoni, la celebre Neighbourhood Bully sostiene apertamente le ragioni dello Stato di Israele nei confronti delle aggressioni dei vicini (“Lo sovrastano un milione contro uno / non ha dove mettersi in salvo, nessuna via per fuggire”) e in questa forte identificazione nazionale con il popolo ebraico non mette in questione la sua dichiarata appartenenza alla sinistra, ma non non si lascia mettere in imbarazzo nemmeno dagli esiti tragici della prima guerra del Libano, dei massacri nei campi di Sabra e Chatila. Dopo una lunga crisi, alla fine degli anni ‘80, Dylan fa un grande ritorno sulla scena con uno degli album più forti di tutta la sua carriera: Oh Mercy, che riflette una riflessione ben radicata nella visione ebraica della vita. Da questa svolta prende il via il cosiddetto Never Ending Tour che lo avrebbe portato senza più interruzioni a tenere un centinaio di apparizioni pubbliche ogni anno. Con Everything is broken traspare una lettura cabalistica del mondo che ha bisogno di riparazione. Political Word trasmette una vivida descrizione del Kiddush Hashem, il martirio religiosamente ispirato che affrontarono coloro che morirono ad Auschwitz proprio negli anni in cui Dylan era venuto alla luce. Quando Dylan accetta il prestigioso Lifetime Achievement Award ai Grammy Awards del 1991 presenta nel suo discorso di accettazione una parafrasi del Salmo 27 ispirata agli insegnamenti di un grande maestro dell’ebraismo tedesco del diciannovesimo secolo, Samson Raphael Hirsch.
“Dylan - aggiunge Rogovoy - ha continuato a a trovare ispirazione nelle Scritture ebraiche fino ai tempi più recenti. Il suo Time Out of Mind (1997) è un catalogo di riflessioni sulla morte dove riappaiono molti temi contenuti nel Pirké Avot (le Massime dei padri) e nel Cantico dei cantici del re Shlomo. ‘Sono malato d’amore’ è il pianto di un uomo invecchiato che si confronta con la gente solo salendo sulla scena per uno dei suoi concerti del Never Ending Tour. Oggi molti attendono di incontrarlo in una sinagoga, quando l’avvicinarsi dello Yom Kippur lo fa sostare nella sua eterna peregrinazione artistica lontano da casa. E molti, sfiorandolo durante la preghiera, hanno forse immaginato, al momento di invocare l’iscrizione nel Libro della vita, di sentire fra le tante voci anche quella che scandisce Tryin’ to Get to Heaven. Una preghiera fin qui esaudita con una carriera straordinaria e milioni di ascoltatori commossi e ispirati. Ora, continua a cantare Dylan. puoi chiudere il libro e smettere di scrivere. Ho attraversato la valle della solitudine cercando di giungere al Cielo prima che si chiudessero le porte”.
g.v.


Menestrello dell’inquietudine umana 

Bob DylanIn uno scritto pubblicato nel 1998, Alessandro Pizzorno mette in evidenza come la pervasività dei media nelle società contemporanee abbia finito per configurarli come vere e proprie istituzioni dotate dell’autorità di assegnare riconoscimenti pubblici senza tenere conto delle tradizionali sfere di competenza. In conseguenza di ciò si strutturano due sfere all’interno delle quali viene definita la percezione della qualità di opere e persone: una composta dal gruppo dei pari, in grado di valutare tecnicamente le competenze, l’altra, sempre più prevalente, dove predomina una forma di riconoscimento indifferenziato. In questa seconda sfera, l’immagine di Bob Dylan ha attraversato fasi diverse, in cui si sono alternati momenti nei quali ha occupato il centro della scena ad altri nei quali la sua figura è stata considerata decisamente marginale. Ma tra chi a diverso titolo fa parte della prima sfera, la rilevanza del suo lavoro è sempre stata un punto di riferimento preciso. E non solo, come sembra più naturale, tra chi scrive canzoni o del mondo della canzone si occupa, ma anche tra chi frequenta altre forme espressive e, più in generale, si confronta con la condizione umana nelle sue diverse dimensioni. L’insieme delle sue canzoni ci restituisce una visione del mondo precisa e potente, nella quale sono descritte con rara profondità le inquietudini dell’uomo contemporaneo, la sua difficoltà di stabilire un rapporto autentico con se stesso e con il mondo che lo circonda. Che canti dei rivolgimenti epocali dei tempi che stanno cambiando, o che prenda coscienza che le risposte sono inafferrabili, che indaghi con dolore infinito il mistero di una relazione che finisce, o che evochi con incanto una donna con la bocca di mercurio, che contempli dalla torre di vedetta il vano affaccendarsi del mondo, o che concluda rabbioso e impotente che viviamo in un mondo dove il coraggio non trova più cittadinanza, che danzi al ritornello di un usignolo o che cerchi l’essenza dei tempi moderni, siamo ogni volta trasportati in luoghi cruciali della nostra esperienza, dove ci vengono mostrati punti di vista inediti di quello che siamo diventati e di quello che saremmo potuti diventare.
L’assoluta fedeltà alla forma canzone, l’amore profondo per la musica e per la tradizione attraverso la quale ha viaggiato nel tempo sono forse la chiave per cercare di spiegare questa capacità così penetrante. Nel piccolo mondo disegnato dall’equilibrio ricreato ogni volta tra parole, musica e canto – performing artist innanzitutto, secondo una fortunata e centrata definizione – Dylan è riuscito a trovare quanto bastava per catturare quanto aveva da dire, senza cercare altre forme espressive dalla tradizione più autorevole e senza sentirsi subalterno a esse.
Gli scritti qui raccolti danno conto del rispetto e dell’amore che ha sempre circondato il lavoro di Dylan tra chi ha incrociato la sua strada condividendone tratti di vita o sviluppando la propria avventura artistica. Ognuno ci riconsegna aspetti diversi della sua personalità e dell’influenza che ha esercitato, ma tutti sono accomunati dalla consapevolezza di essere venuti in contatto con un luogo cruciale della cultura del nostro tempo, una cultura profondamente radicata nell’esperienza umana.
Giovanni Cerutti


Bringing It All Back

Copertina FeltrinelliNasco da genitori con poco orecchio per la musica. Ma se per la madre il ballo è l’occasione preferita, per il padre c’è sempre il fatto della canzone popolare, la Resistenza, i curdi, i guatemaltechi, i messicani... Così, non lontano dal camino, al quarto piano di via Andegari, un giradischi di ottima marca tedesca, squadrato ed essenzialmente elegante, fa la sua bella figura. E ci sono le coste sottili dei dischi allineati: un po’ di classica, molta moderna. Intendo dire, i dischi del Sole, curdi, guatemaltechi e messicani e, certo, le antologie della Folkway Records, della Columbia Library, Cisco, Leadbelly, Big Bill Broonzy... Ma anche After Math, Françoise Hardy, Sgt. Pepper’s, Coltrane, Jannacci, i Rockets, Lotte Lenya canta Brecht, Bringing It All Back Home, Mina. Popular music, insomma, per tutti i gusti e di tutti i generi. Ho stabilito con precisione che, insieme agli inni degli spartachisti, era Sgt. Pepper’s il disco favorito di mio padre, quello con il collage delle facce in copertina. A me, invece, incuriosisce la copertina di Bringing It All Back Home. Lo scopro quando sono già fuori dalla storia del bambino. E non voglio parlare delle canzoni, per la prima volta “elettriche”, ma proprio della copertina. Intanto, la copia scovata nello scaffale porta una dedica misteriosa, con l’inchiostro blu in alto a destra: «Für Giangiacomo, von Manuela». E anche una data: «16.3.66».
Quanto alla foto al centro dell’album, è meglio dire come la descrive Robert Shelton: «La fotografia è di Daniel Kramer, scattata attraverso un obiettivo ad effetto: un vero saggio di simboli. Dylan accarezza il suo gatto Rolling Stone. Dietro di lui si vedono gli album di Von Schmidt, Lotte Lenya, Robert Johnson. C’è poi l’indicazione di un rifugio atomico, una copia del Time, un ritratto dell’Ottocento. A sinistra sul caminetto si vede The Clown, un collage di vetro che Bob aveva fatto per Bernard Paturel, utilizzando pezzetti di vetro colorato che Bernard stava buttando via».
Con ogni probabilità, il “saggio di simboli” è una creazione del tutto involontaria, così come è frutto di pura suggestione pensare ciò che pensai, e continuo a pensare, della fotografia di Bringing It All Back Home: quella foto l’hanno scattata in casa nostra, proprio nella stanza in cui ci si siede per parlare, vicino al giradischi, riconosco tutto! Quando Manuela (?) regala il disco a mio padre, il 16 marzo 1966, lui forse lo ascolta – un regalo di Manuela si ascolta almeno una volta – e intorno non manca nulla: ci sono camino, Time, sofà, rifugio atomico, disco, ritratto, Ottocento (ma anche Quattrocento), collage, pezzi di vetro, “elettricità”… Ancora oggi si può fare il confronto: sono passati trent’anni e il camino è ancora al suo posto, abbastanza uguale, qualche libro in più e qualche simbolo in meno.
Carlo Feltrinelli, da Senior Service (Feltrinelli, 436 pp.)


Quell’estro difficile da tradurre in italiano

Copertina Passaggi di tempoComporre in lingua italiana è difficile proprio tecnicamente. Se devi scrivere in metrica hai bisogno di una grande quantità, per esempio, di parole tronche che in italiano non ci sono. A questo punto ti succede, proprio per la necessaria avvenenza estetica del verso, di cambiare talvolta addirittura il significato di ciò che vuoi dire. Il genovese invece è una lingua più agile, puoi trovare un sinonimo tronco che abbia lo stesso significato dello scritto in prosa che tu hai fatto precedentemente al verso (si scrive in prosa perché difficilmente ti viene l’idea in metrica e poi cerchi di adattarla al contesto ritmico). Questa è la differenza fondamentale. Ma non soltanto il genovese, anche il francese ha molte parole tronche e l’inglese non ne parliamo. Per questo è agevolissimo scrivere in inglese (naturalmente per chi lo conosce). Dylan in italiano sarebbe stato lo stesso Dylan, però penso che le sonorità non sarebbero state altrettanto eccellenti. Cioè, l’amalgama fonema e musica non sarebbe stato identico.
Sicuramente tante cose scritte in rima che suonano talmente bene in Dylan non avrebbero potuto o per conservare la rima e quindi l’eleganza fonetica avrebbe dovuto cambiare diversi significati e sarebbe stato un grosso dramma. Dylan è bello così com’è. Ora questa è un’ipotesi assurda, però penso che in italiano gli sarebbe stato più difficile esprimersi. Forse avrebbe trovato un’altra forma di espressione, la prosa magari, o la poesia senza musica o la declamazione con la musica in sottofondo.

Fabrizio De André, “Passaggi di tempo da Carlo Martello a Princesa” di Doriano Fasoli (Coniglio editore, 346 pp.)

Qui Roma - Israele e il futuro del Medio Oriente
Convegno - relatoriScriveva alcune settimane fa Fiamma Nirenstein sul Giornale che dopo le “primavere arabe” c’è adesso da aspettarsi un “autunno caldo” per Israele. Una previsione sulla quale molti osservatori ed esperti in materia sembrano concordare. E allora, alla luce del fermento politico e sociale dei paesi limitrofi, della possibile risoluzione unilaterale delle Nazioni Unite sullo Stato palestinese e del rapporto almeno in apparenza allentatosi con lo storico alleato statunitense, quali scenari sono all’orizzonte per lo Stato ebraico? Obama ha davvero “tradito” Israele come alcuni dicono? Quale profilo tenere davanti a un mondo vicino geograficamente e culturalmente che sta mutando? Quali alleanze rinsaldare, quali allentare, quali ancora costruire ex novo (o quasi) per garantire la sopravvivenza di Israele in futuro? A discuterne ieri sera al Centro ebraico Il Pitigliani di Roma, coordinati dal consigliere UCEI Victor Magiar, un trio di giornalisti d’eccezione – il direttore de Il Foglio Giuliano Ferrara, il corrispondente dagli Stati Uniti per La Stampa Maurizio Molinari e il corrispondente da Roma di Yediot Aharonot Menachem Gantz. Alla presenza di un pubblico folto, tra cui vari rappresentanti delle istituzioni ebraiche italiane e romane, i protagonisti del dibattito hanno aperto numerose finestre di approfondimento sui grandi temi in discussione in queste settimane: dal dialogo privilegiato tra Stati Uniti e Israele che in molti a Gerusalemme vedono in pericolo, alla comprensione del significato e dei possibili effetti politici portati dal vento di insurrezione dei paesi arabi, al ruolo che una rapida soluzione delle partite diplomatiche ancora aperte nell’area avrebbe per Obama nell’ottica di una strategia che include i futuri equilibri del pianeta alla luce della prossima probabile polarizzazione su scala globale tra Stati Uniti e Cina.

Giovani ebrei e giovani musulmani verso una rottura
Daniele RegardIl telefono tace, da parte dei Giovani Musulmani d’Italia ancora nessun segnale. “Se non ci saranno ulteriori sviluppi posso assicurare che con loro abbiamo chiuso” commenta il presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia Daniele Regard. C’è molta amarezza nella sua voce ma anche la consapevolezza che un percorso dialogico tra ebrei e musulmani non può prescindere dai capisaldi del reciproco rispetto e della sobrietà verbale. Elementi venuti meno con la pubblicazione su youtube lunedì scorso di un filmato in cui il presidente del Gmi Omar Jibril e altri rappresentanti dell’organizzazione, soffermatisi davanti ai totem della rassegna Unexpected Israel ancora in fase di svolgimento in piazza del Duomo a Milano, usavano una terminologia molto violenta e ricca di infondatezze storiche nei confronti di Israele arrivando a parlare di kermesse organizzata “per ricordare l’occupazione israeliana nei territori palestinesi” e di paese responsabile di “bagni di sangue” e “operazioni trucidanti” con successivo invito ad imbarcarsi sulla Freedom Flotilla che a breve cercherà nuovamente di violare le leggi internazionali sul blocco marittimo. La pubblicazione del video suscitava ieri pomeriggio la ferma reazione dell’Ugei che in un comunicato stampa a firma del presidente Regard chiedeva l’assunzione da parte dei Giovani Musulmani d’Italia di posizioni più moderate e la rettifica di quanto affermato da Jibril in piazza del Duomo. “Mi auguro che le scuse arrivino il prima possibile così da poter continuare il proficuo rapporto instaurato tra Ugei e Gmi, rappresentanti di due minoranze italiane con simili radici culturali e da sempre impegnate nel dialogo tra le religioni” si legge nel comunicato. Al momento però dai Giovani Musulmani nessuno si è fatto sentire. A farsi avanti comunque alcuni esponenti dell’Islam moderato tra cui Dounia Ettaib, presidente delle Donne Arabe d’Italia, che ha inviato all’Ugei il seguente messaggio: “Come donna e come essere umano libero esprimo la mia più profonda solidarietà. Chi partecipa a questa denigrazione non può condividere i valori di libertà e di democrazia. Chi sostiene la libertà non può negare l'esistenza di uno Stato libero e democratico come Israele”.

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pilpul
Esploratori, ma’apilim e coloni
Gianfranco Di SegniDa millenni la Torah è letta settimanalmente per trarne insegnamenti rilevanti per la nostra vita attuale. Come dice il Talmud, ma’ase avot siman la-banim (gli atti dei padri sono un segno per i figli). Ha quindi ragione il professor Volli, commentando l’episodio degli esploratori nella parashà di Shelakh lekha letta shabbat scorso, a “chiedersi che cosa possano significare oggi, tremila anni dopo, le sue storie e i suoi personaggi, che cosa possiamo impararne noi rispetto ai nostri problemi collettivi attuali” (l'Unione informa). Per inciso, il ciclo di lettura annuale della Torah seguito in tutto il mondo è secondo l’uso delle antiche comunità ebraiche babilonesi; quelle della terra d’Israele la leggevano con un ciclo triennale, e le parashot erano di conseguenza divise diversamente e più corte. Nell’Ottocento ci fu un rabbino italiano che propose di adottare il ciclo di lettura triennale, forse per non prolungare troppo la preghiera del sabato. Se questa idea avesse preso piede, una newsletter sul web con il commento alla parashà settimanale sarebbe oggi di difficile lettura per quelle comunità.
Ma torniamo agli esploratori e al loro rifiuto di entrare nella Terra di Canaan per il timore di essere sconfitti dalla popolazione autoctona. Volli si lancia in parallelismi apparentemente aderenti alla situazione odierna. Coloro (pochi) che volevano entrare nella Terra sono come i coloni di oggi. Gli altri (molti) che stavano dalla parte degli esploratori sono i “pacifisti” (Volli dice proprio così, interpretando in questo senso il verso Numeri 14:3, mentre è chiaro che la motivazione non è affatto il pacifismo, ma la paura di morire infilzati dalla spada). I secondi si sarebbero rifiutati di considerare fratelli i primi, dove “fratelli” è un termine di facile presa, visti i dibattiti recenti; peccato che nel testo questo non ci sia scritto. Si parla di fratelli, ma in senso positivo (14:4). È vero che i secondi volevano lapidare i primi, ma i fratelli non c’entrano.
Il rischio, quando si vuole a tutti i costi dimostrare un proprio teorema, è di “forzare (lett. curvare) il senso delle parole della Torah” (vedi in Ha’ameq davar, il commento del Netziv di Volozhin, all’inizio della parashà). Ma la lettura della Torah non è mai univoca, come l’intervento del rav Roberto Della Rocca del 21 giugno ci ha ricordato. Secondo Volli, dato che gli esploratori e i loro sostenitori furono puniti, potremmo automaticamente concludere che hanno ragione coloro che oggi vogliono entrare a tutti i costi nella Terra. Però basta andare alla fine del racconto dell’episodio narrato nella Torah, qualche decina di versi più in là (14:40-45), per rendersi conto che le cose non stanno così. Quando alcuni, nonostante D-o avesse già decretato la peregrinazione per quarant’anni nel deserto, vollero “salire” nella Terra di Canaan (i cosiddetti ma’apilim), facendosi interpreti della “vera” parola divina, furono duramente sconfitti dagli amaleciti e dai cananei. Il ripensamento era arrivato troppo tardi. Il problema dei ma’apilim e di coloro che oggi li vogliono imitare è che è difficile interpretare correttamente la parola divina. Chi pensa di farsene portavoce rischia “di forzarne le parole”. Come ha scritto tempo fa il professor Yeshayahu Leibowitz (un grande talmid chakham, pure per i suoi oppositori): “Per quanto concerne poi le tesi 'religiose' in favore dell'annessione dei territori, esse non sono che espressione di un'inconsapevole (o forse anche consapevole) ipocrisia, espressione di una trasformazione della religione d'Israele in avallo del nazionalismo israeliano. Una religiosità fasulla [...]. La conquista della «terra» ad opera dell’esercito dello Stato d’Israele è un successo nazionale di vaste e memorabili proporzioni per ogni ebreo, religioso o laico, che abbia una coscienza nazionale. Ma come fatto in sé essa è intanto priva di significato religioso. Non ogni «ritorno a Sion» è definibile un’impresa religiosa: può esservi un ritorno a Sion nel senso di «e verrete e renderete impura la Mia terra, facendo del Mio possedimento un abominio» (Geremia 2,7)…” (Jeshajahu Leibowitz, Ebraismo, popolo ebraico e Stato d'Israele, Carucci ed. DAC, 1980, pag. 163-164, traduzione a cura del mio Maestro Ariel Rathaus). In un altro testo Leibowitz definisce “machrid” (terrificante) l’episodio dei ma’apilim.
Finché ci si limita ad attualizzare la parashà settimanale per trarne divrè torah per la se’udà shelishit dello shabbat pomeriggio va benissimo. Ma se si vuole giungere a conclusioni di ordine halakhico (o politico, come in questo caso), allora le cose si fanno molto più complicate e facilmente si finisce per “curvare il testo” a proprio uso e consumo.

Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano

A proposito di furto
Francesco LucreziIn un suo breve, toccante intervento, pubblicato su pilpul del 20 maggio scorso - significativamente intitolato “il furto” -, Anna Segre esprime - traendo spunto dalle ripugnanti farneticazioni di Lars von Trier, al Festival di Cannes -, con rara efficacia, il triste sentimento di espropriazione che colpisce gli ebrei quando le manifestazioni di antisemitismo non provengono da qualche rozzo e inacculturato facinoroso, ma, al contrario, da raffinati artisti, le cui opere, fino a quel momento, avevano suscitato emozione e ammirazione. Si può continuare ad ammirare l’opera di qualcuno che apertamente ti disprezza? È evidente che è difficile: “La frase sgradevole - scrive la Segre - è come un veleno che si propaga e intossica tutto ciò che ha intorno. Il personaggio che prima ammiravamo si rivela nemico, e di colpo una luce sgradevole cala su libri, canzoni o film che abbiamo adorato; non riusciamo più a sentirli “nostri” come prima, e contemporaneamente ci sentiamo defraudati per questa perdita. Intorno a noi colleghi e amici continuano con l’ammirazione di sempre, e in fondo li invidiamo perché ci piacerebbe continuare a leggere quei libri o guardare quei film con gli occhi di prima. Così ci sentiamo in qualche modo discriminati, diversi dagli altri, e non per nostra scelta. Chissà se Lars von Trier si è reso conto di avermi rubato Dogville?”.
Tali considerazioni ci rimandano a un problema di fondo, che è quello della relazione tra etica e arte, e del rapporto tra l’artista e la sua opera: l’arte dovrebbe sempre essere eticamente ‘corretta’ e edificante? E le eventuali colpe dell’artista si riflettono, e in che misura, anche sulla sua opera?
In genere, com’è noto, tale tipo di collegamento viene naturalmente effettuato nei confronti dei filosofi e in genere dei pensatori, le cui idee personali difficilmente possono essere scisse dalle opere, facendo sì che il giudizio morale sul percorso biografico dell’autore si sovrapponga, o coincida col giudizio sui suoi prodotti culturali (talvolta, con un automatismo anche eccessivo: si pensi ai casi di Giovanni Gentile e Carl Schmitt, rivalutati solo dopo la fine della guerra fredda e il crollo del muro di Berlino, o di Martin Heidegger, rigettato come filosofo ‘nazista’ solo per una compromissione col regime alquanto episodica e marginale [in pratica, per una sola prolusione universitaria]). Nel campo delle arti, invece, i giudizi sulla biografia e sulle idee dell’artista non portano, generalmente, diretto nocumento (o vantaggio) alla sua opera: per Richard Wagner, per esempio, è evidente, e ben conosciuto, il profondo legame tra il tenebroso e tempestoso spirito nibelungico della musica e il violento, morboso razzismo del suo creatore, ma ciò non ne ha minimamente intaccato la fama mondiale (se non in Israele, ma, anche lì, in modo non definitivo e irreversibile); anche Paul Valery era aspramente antisemita, ma la sua poesia non ha per questo pagato alcun prezzo; e nessuno rimprovera a Caravaggio la sua vita violenta e dissoluta (che, anzi, ha contribuito a conferire un fosco e inquietante fascino personale al sommo maestro del Seicento).
Nel caso di Lars von Trier, evidentemente, il problema si pone soprattutto per il fatto che non si tratta di un personaggio del passato, ma di un soggetto vivente e attivo, che può continuare a fare danno, e alle cui fortune non si vuole in nessun modo contribuire. E la sensazione del furto, purtroppo, c’è. Può essere una magra consolazione per la Segre sapere che essa non riguarda solo gli ebrei: provai un’identica sensazione, per esempio, quando, leggendo l’autobiografia di Leah Rabin, appresi dell’evidente ripugnanza manifestata da Gabriel Garcia Marquez, in una cerimonia pubblica, nel darle la mano, prima di abbracciare con ostentata foga Yasser Arafat (e, prima di quell’occasione, lo scrittore non aveva incontrato nessuna delle due persone). E, in quel caso, si trattò di un ‘furto’ di ben maggiore portata. Di Dogville, in fin dei conti, si può anche fare a meno.

Francesco Lucrezi, storico

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Gli israeliani vogliono Shalit libero,
anche alle pesanti condizioni di Hamas

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A cinque anni dal rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit il quotidiano Haartz lancia un sondaggio il cui esito dimostra che gli israeliani sono pronti ad accettare le condizioni poste da Hamas per il rilascio di Shalit. Il movimento palestinese reclama il rilascio di un migliaio di prigionieri palestinesi. Secondo questo sondaggio, realizzato alla fine del mese di maggio dall’istituto Rafi Smith su un campione di 600 persone rappresentative della popolazione israeliana. Il 63 per cento degli persone intervistate è a favore del rilascio dei detenuti palestinesi di cui 450 nomi richiesti da Hamas considerati da Israele come “terroristi con le mani macchiate di sangue israeliano”. Il 19 per cento si oppone a un tale scambio e 18 per cento si dichiara senza opinione.
 

Le ultime giornate sono state prive di grandi avvenimenti sulla scena del Medio Oriente. Le visite di ieri di Putin a Parigi e del premier Erdogan a Washington avranno tuttavia importanti conseguenze che non tarderanno a farsi sentire. Sui rapporti molto tesi tra Israele e Turchia stanno lavorando dietro le quinte gli Stati Uniti, e un primo segnale viene dalla annunciata non partecipazione della Mavi Marmara turca alla spedizione Flotilla 2. Nicola Mirenzi su Europa ne parla, dimenticando, purtroppo, che le relazioni tra i due paesi, a lungo alleati, divennero difficili non dopo i 9 morti della Mavi Marmara, ma dopo lo scontro tra Erdogan e Peres a Davos in seguito alla guerra di Gaza...»

Emanuel Segre Amar







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