se
non visualizzi correttamente questo messaggio, fai click qui
|
22 giugno
2011 - 20 Sivan 5771 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova
|
"Oy larashà, oy lishchenò - guai al malvagio e guai al suo vicino".
La questione di Korach, che rappresentava una disputa fra cugini della
tribù di Levi, è stata abbracciata anche da Datan, Aviram e On della
tribù di Reuven. La tribù di Reuven e i figli di Kehat
si accampavano, vicini, a sud e Rashy spiega che fu
questa vicinanza ad influenzare Datan e gli altri e non il
merito della diatriba. Vicino al "rashà", è d'obbligo avere una
propria opinione...
|
|
|
Davide
Assael,
ricercatore
|
|
Questa settimana si è svolto a
Brezzo Bedero un interessante convegno sulla scuola filosofica e
poetica milanese, come noto fra le più importanti del secolo scorso e
non solo a livello italiano. Tra i diversi spunti, si è particolarmente
insistito sul rapporto maestri-allievi, indicando come punto di merito
dei primi l’aver promosso nei propri studenti una libertà critica che,
spesso, si è rivolta contro la fonte originaria, dando vita a contrasti
e rotture. L’obiettivo di un percorso di formazione è dunque
l’uccisione del padre? Che differenza con la cultura ebraica, dove
viene sempre ricordata la linea genealogica, senza che tutto ciò si sia
tradotto in una limitazione della parola, che anzi si è moltiplicata
nella civiltà del pilpul.
Una visione del processo formativo che si incentra su categorie
differenti da quelle edipico-greche e che ha il merito di impedire
deliri di onnipotenza degli alunni, che oggi, chi insegna lo sa,
appaiono sempre più come il prodotto finale di un antico percorso.
|
|
|
torna su ˄
|
|
|
Bob Dylan, la leggenda del folk sbarca in Italia |
|
Grande
attesa questa sera a Milano per il concerto di Bob Dylan che segue la
travolgente esibizione di Tel Aviv e la celebrazione del suo
settantesimo compleanno. La tourneé viene definita Never Ending Tour
perché prosegue ininterrottamente da più di venti anni ed è il terzo
anno consecutivo che tocca il nostro Paese. Milano sarà l'unica tappa
italiana toccata dall'artista. Quest’anno poi è un momento importante
della sua carriera visto che oltre al settantesimo compleanno Dylan ha
festeggiato i cinquant’anni di attività musicale. Il giornale
dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche di giugno ha dedicato al
cantautore alcuni articoli che riproponiamo ai nostri lettori.
Il ritorno di Dylan. Torah, Midrash e un appuntamento in Italia
Settanta
candeline appena soffiate sulla torta di compleanno non gli hanno fatto
passare la voglia di cantare e neanche quella di andare in giro per il
mondo con la sua chitarra. Così Bob Dylan in queste ore sta di nuovo
preparando le valige e si appresta ad iniziare la sua nuova tournée
europea, che lo porterà fra pochi giorni, lunedì 20 giugno, allo stadio
di Tel Aviv-Ramat Gan e subito dopo, mercoledì 22, all’Alcatraz di
Milano per l’unico appuntamento con il pubblico italiano. E fioriscono
ancora nuove iniziative. In questi giorni arriva in libreria una
raccolta di testimonianze Play a song for me a cura di Giovanni Cerutti
(Interlinea edizioni) con molti testi di ammiratori di Dylan di cui i
lettori troveranno alcuni esempi in queste pagine. «Io sono le mie parole» aveva scritto il menestrello - spiega oggi Cerutti - e in occasione dei suoi
settant’anni sono qui raccolte le voci di compagni di strada (come Joan
Baez, innamorata di «lui e la sua chitarra e le sue splendide,
sconnesse, mistiche parole», Allen Ginsberg e Fernanda Pivano) e di chi
è cresciuto con le sue canzoni (da Richard Gere a Bruce
Springsteen, per il quale è stato «il fratello che non ho mai avuto»).
Non mancano cantautori come De André e Guccini («Dylan è le nostre idee
di allora, le nostre discussioni di politica e di musica»), con una
canzone tradotta da Patrizia Valduga e testi di Stefano Benni e Carlo
Feltrinelli, senza dimenticare il rapporto di Dylan con Obama, di cui
scrive Carrera: «Hey! Mr. Tamburine man, play a song for me!» con una
divertente e semisconosciuta finta lettera scritta dallo stesso Dylan
alla madre della Baez, riemersa dai cassetti della folksinger. Nuovi
studi continuano anche a decodificare la profonda ispirazione ebraica
del grande cantautore americano. “Che ne sia consapevole o meno -
spiega Seth Rogovoy, critico musicale e autore di Bob Dylan, Prophet,
Mystic, Poet - Bob Dylan, profeta, mistico, poeta (Scribner, New York)
- l’uso che fa Dylan dei modelli del discorso profetico ebraico come
uno dei suoi mezzi di comunicazione primari non determina solo il
contenuto delle sue canzoni, ma anche lo stile espressivo, che è molto
più vicino a una declamazione che a una melodia”. “Attraverso la sua
carriera - continua - che abbia parlato
dell’ingiustizia sociale in Blowin’ in the Wind e Hurricane, delle
ansietà della Guerra fredda in A Hard Rain is Gonna Fall e Masters of
the War, dell’accoglienza dei veterani rientrati dal Vietnam in
Clean-Cut Kid o dei politici corrotti in Political World e in Disease
of Conceit, Dylan non ha fatto altro che tornare alla tradizione
profetica per infondere nelle sue canzoni una misura di impatto e di
dignità che con molta evidenza distacca la sua opera da quella di tutti
gli altri suoi colleghi dell’era del rock. Bono, la voce del gruppo
irlandese degli U2, lui stesso fortemente ispirato da una vena di
cristianità intensamente legata alle origini ebraiche, riconosce che
Dylan ‘è sempre stato un critico della modernità, perché in fondo lui
viene da un luogo antico’”. “Una delle maniere più soddisfacenti
di accostarsi alle liriche di Dylan - prosegue Rogovoy - è quello di
leggerle come il lavoro di una mente poetica immersa nei testi ebraici
e impegnata nel processo di costruzione del Midrash, un genere di
elaborazione formale o informale dei Testi che è utile a chiarire o
elaborare il loro messaggio recondito. Forse uno degli esempi migliori
in questo senso lo troviamo in una delle composizioni di Dylan più
note: Highway 61 Revisited, la sua personale reinterpretazione della
Akeidah, il sacrificio di Isacco. La statale 61 è la principale via di
comunicazione fra New Orleans e Duluth in Minnesota,
il luogo natale di Dylan. L’uomo da cui il cantate era nato portava il
nome di Abram”. Ma gli esempi sono molto numerosi. Quando nel 1982 suo
figlio Samuel raggiunse l’età della maggiorità religiosa e festeggiò il
Bar Mitzvah a Gerusalemme, poco dopo questo viaggio nacque una
composizione ispirata a una dura linea sionistica. L’album Infidels
mostra una
copertina con Dylan protetto dagli occhiali scuri sotto la luce
brillante di Gerusalemme e all’interno lo stesso cantante che guarda
verso le mura della Città vecchia. Fra le varie canzoni, la celebre
Neighbourhood Bully sostiene apertamente le ragioni dello Stato di
Israele nei confronti delle aggressioni dei vicini (“Lo sovrastano un
milione contro uno / non ha dove mettersi in salvo, nessuna via per
fuggire”) e in questa forte identificazione nazionale con il popolo
ebraico non mette in questione la sua dichiarata appartenenza alla
sinistra, ma non non si lascia mettere in imbarazzo nemmeno dagli esiti
tragici della prima guerra del Libano, dei massacri nei campi di Sabra
e Chatila. Dopo una lunga crisi, alla fine degli anni ‘80, Dylan fa un
grande ritorno sulla scena con uno degli album più forti di tutta la
sua carriera: Oh Mercy, che riflette una riflessione ben radicata nella
visione ebraica della vita. Da questa svolta prende il via il
cosiddetto Never Ending Tour che lo avrebbe portato senza più
interruzioni a tenere un centinaio di apparizioni pubbliche ogni anno.
Con Everything is broken traspare una lettura cabalistica del mondo che
ha bisogno di riparazione. Political Word trasmette una vivida
descrizione del Kiddush Hashem, il martirio religiosamente ispirato che
affrontarono coloro che morirono ad Auschwitz proprio negli anni in cui
Dylan era venuto alla luce. Quando Dylan accetta il prestigioso
Lifetime Achievement Award ai Grammy Awards del 1991 presenta nel suo
discorso di accettazione una parafrasi del Salmo 27 ispirata agli
insegnamenti di un grande maestro dell’ebraismo tedesco del
diciannovesimo secolo, Samson Raphael Hirsch. “Dylan - aggiunge
Rogovoy - ha continuato a a trovare ispirazione nelle Scritture
ebraiche fino ai tempi più recenti. Il suo Time Out of Mind (1997) è un
catalogo di riflessioni sulla morte dove riappaiono molti temi
contenuti nel Pirké Avot (le Massime dei padri) e nel Cantico dei
cantici del re Shlomo. ‘Sono malato d’amore’ è il pianto di un uomo
invecchiato che si confronta con la gente solo salendo sulla scena per
uno dei suoi concerti del Never Ending Tour. Oggi molti attendono di
incontrarlo in una sinagoga, quando l’avvicinarsi dello Yom Kippur lo
fa sostare nella sua eterna peregrinazione artistica lontano da casa. E
molti, sfiorandolo durante la preghiera, hanno forse immaginato, al
momento di invocare l’iscrizione nel Libro della vita, di sentire fra
le tante voci anche quella che scandisce Tryin’ to Get to Heaven. Una
preghiera fin qui esaudita con una carriera straordinaria e milioni di
ascoltatori commossi e ispirati. Ora, continua a cantare Dylan. puoi
chiudere il libro e smettere di scrivere. Ho attraversato la valle
della solitudine cercando di giungere al Cielo prima che si chiudessero
le porte”. g.v.
Menestrello dell’inquietudine umana
In
uno scritto pubblicato nel 1998, Alessandro Pizzorno mette in evidenza
come la pervasività dei media nelle società contemporanee abbia finito
per configurarli come vere e proprie istituzioni dotate dell’autorità
di assegnare riconoscimenti pubblici senza tenere conto delle
tradizionali sfere di competenza. In conseguenza di ciò si strutturano
due sfere all’interno delle quali viene definita la percezione della
qualità di opere e persone: una composta dal gruppo dei pari, in grado
di valutare tecnicamente le competenze, l’altra, sempre più prevalente,
dove predomina una forma di riconoscimento indifferenziato. In questa
seconda sfera, l’immagine di Bob Dylan ha attraversato fasi diverse, in
cui si sono alternati momenti nei quali ha occupato il centro
della scena
ad altri nei quali la sua figura è stata considerata decisamente
marginale. Ma tra chi a diverso titolo fa parte della prima sfera, la
rilevanza del suo lavoro è sempre stata un punto di riferimento
preciso. E non solo, come sembra più naturale, tra chi scrive canzoni o
del mondo della canzone si occupa, ma anche tra chi frequenta altre
forme espressive e, più in generale, si confronta con la condizione
umana nelle sue diverse dimensioni. L’insieme delle sue canzoni ci
restituisce una visione del mondo precisa e potente, nella quale sono
descritte con rara profondità le inquietudini dell’uomo contemporaneo,
la sua difficoltà di stabilire un rapporto autentico con se stesso e
con il mondo che lo circonda. Che canti dei rivolgimenti epocali dei
tempi che stanno cambiando, o che prenda coscienza che le risposte sono
inafferrabili, che indaghi con dolore infinito il mistero di una
relazione che finisce, o che evochi con incanto una donna con la bocca
di mercurio, che contempli dalla torre di vedetta il vano affaccendarsi
del mondo, o che concluda rabbioso e impotente che viviamo in un mondo
dove il coraggio non trova più cittadinanza, che danzi al ritornello di
un usignolo o che cerchi l’essenza dei tempi moderni, siamo ogni volta
trasportati in luoghi cruciali della nostra esperienza, dove ci vengono
mostrati punti di vista inediti di quello che siamo diventati e di
quello che saremmo potuti diventare. L’assoluta
fedeltà alla forma canzone, l’amore profondo per la musica e per la
tradizione attraverso la quale ha viaggiato nel tempo sono forse la
chiave per cercare di spiegare questa capacità così penetrante. Nel
piccolo mondo disegnato dall’equilibrio ricreato ogni volta tra parole,
musica e canto – performing artist innanzitutto, secondo una fortunata
e centrata definizione – Dylan è riuscito a trovare quanto bastava per
catturare quanto aveva da dire, senza cercare altre forme espressive
dalla tradizione più autorevole e senza sentirsi subalterno a esse. Gli
scritti qui raccolti danno conto del rispetto e dell’amore che ha
sempre circondato il lavoro di Dylan tra chi ha incrociato la sua
strada condividendone tratti di vita o sviluppando la propria avventura
artistica. Ognuno ci riconsegna aspetti diversi della sua personalità e
dell’influenza che ha esercitato, ma tutti sono accomunati dalla
consapevolezza di essere venuti in contatto con un luogo cruciale della
cultura del nostro tempo, una cultura profondamente radicata
nell’esperienza umana. Giovanni Cerutti
Bringing It All Back
Nasco
da genitori con poco orecchio per la musica. Ma se per la madre il
ballo è l’occasione preferita, per il padre c’è sempre il fatto della
canzone popolare, la Resistenza, i curdi, i guatemaltechi, i
messicani... Così, non lontano dal camino, al quarto piano di via
Andegari, un giradischi di ottima marca tedesca, squadrato ed
essenzialmente elegante, fa la sua bella figura. E ci sono le coste
sottili dei dischi allineati: un po’ di classica, molta moderna.
Intendo dire, i dischi del Sole, curdi, guatemaltechi e messicani e,
certo, le antologie della Folkway Records, della Columbia Library,
Cisco, Leadbelly, Big Bill Broonzy... Ma anche After Math, Françoise
Hardy, Sgt. Pepper’s, Coltrane, Jannacci, i Rockets, Lotte Lenya canta
Brecht, Bringing It All Back Home, Mina. Popular music, insomma, per
tutti i gusti e di tutti i generi. Ho stabilito con precisione che,
insieme agli inni degli
spartachisti, era Sgt. Pepper’s il disco favorito di mio padre, quello
con il collage delle facce in copertina. A me, invece, incuriosisce la
copertina di Bringing It All Back Home. Lo scopro quando sono già fuori
dalla storia
del bambino. E non voglio parlare delle canzoni, per la prima volta
“elettriche”, ma proprio della copertina. Intanto, la copia scovata
nello scaffale porta una dedica misteriosa, con l’inchiostro blu in
alto a destra: «Für Giangiacomo, von Manuela». E anche una data:
«16.3.66». Quanto
alla foto al centro dell’album, è meglio dire come la descrive Robert
Shelton: «La fotografia è di Daniel Kramer, scattata attraverso un
obiettivo ad effetto: un vero saggio di simboli. Dylan accarezza il suo
gatto Rolling Stone. Dietro di lui si vedono gli album di Von Schmidt,
Lotte Lenya, Robert Johnson. C’è poi l’indicazione di un rifugio
atomico, una copia del Time, un ritratto dell’Ottocento. A sinistra
sul caminetto si vede The Clown, un collage di vetro che Bob aveva
fatto per Bernard Paturel, utilizzando pezzetti di vetro colorato che
Bernard stava buttando via». Con ogni probabilità, il “saggio di
simboli” è una creazione del tutto involontaria, così come è frutto di
pura suggestione pensare ciò che pensai, e continuo a pensare, della
fotografia di Bringing It All Back Home: quella foto l’hanno scattata
in casa nostra, proprio nella stanza in cui ci si siede per parlare,
vicino al giradischi, riconosco tutto! Quando Manuela (?) regala il
disco a mio padre, il 16 marzo 1966, lui forse lo ascolta – un regalo
di Manuela si ascolta almeno una volta – e intorno non manca nulla: ci
sono camino, Time, sofà, rifugio atomico, disco, ritratto, Ottocento
(ma anche Quattrocento), collage, pezzi di vetro, “elettricità”… Ancora
oggi si può fare il confronto: sono passati trent’anni e il camino è
ancora al suo posto, abbastanza uguale, qualche libro in più e qualche
simbolo in meno. Carlo Feltrinelli, da Senior Service (Feltrinelli, 436 pp.)
Quell’estro difficile da tradurre in italiano
Comporre
in lingua italiana è difficile proprio tecnicamente. Se devi scrivere
in metrica hai bisogno di una grande quantità, per esempio, di parole
tronche che in italiano non ci sono. A questo punto ti succede, proprio
per la necessaria avvenenza estetica del verso, di cambiare talvolta
addirittura il significato di ciò che vuoi dire. Il genovese invece è
una lingua più agile, puoi trovare un sinonimo tronco che abbia lo
stesso significato dello scritto in prosa che tu hai fatto
precedentemente al verso (si scrive in prosa perché difficilmente ti
viene l’idea in metrica e poi cerchi di adattarla al contesto ritmico).
Questa è la differenza fondamentale. Ma non soltanto il genovese, anche
il francese ha molte parole tronche e l’inglese non ne parliamo. Per
questo è agevolissimo scrivere in inglese (naturalmente per chi lo
conosce). Dylan in italiano sarebbe stato lo stesso Dylan, però penso
che le sonorità non sarebbero state altrettanto eccellenti. Cioè,
l’amalgama fonema e musica non sarebbe stato identico. Sicuramente
tante cose scritte in rima che suonano talmente bene in Dylan non
avrebbero potuto o per conservare la rima e quindi l’eleganza fonetica
avrebbe dovuto cambiare diversi significati e sarebbe stato un grosso
dramma. Dylan è bello così com’è. Ora questa è un’ipotesi assurda, però
penso che in italiano gli sarebbe stato più difficile esprimersi. Forse
avrebbe trovato un’altra forma di espressione, la prosa magari, o la
poesia senza musica o la declamazione con la musica in sottofondo.
Fabrizio De André, “Passaggi di tempo da Carlo Martello a Princesa” di Doriano Fasoli (Coniglio editore, 346 pp.)
|
|
Qui Roma - Israele e il futuro del Medio Oriente |
|
Scriveva
alcune settimane fa Fiamma Nirenstein sul Giornale che dopo le
“primavere arabe” c’è adesso da aspettarsi un “autunno caldo” per
Israele. Una previsione sulla quale molti osservatori ed esperti in
materia sembrano concordare. E allora, alla luce del fermento politico
e sociale dei paesi limitrofi, della possibile risoluzione unilaterale
delle Nazioni Unite sullo Stato palestinese e del rapporto almeno in
apparenza allentatosi con lo storico alleato statunitense, quali
scenari sono all’orizzonte per lo Stato ebraico? Obama ha davvero
“tradito” Israele come alcuni dicono? Quale profilo tenere davanti a un
mondo vicino geograficamente e culturalmente che sta mutando? Quali
alleanze rinsaldare, quali allentare, quali ancora costruire ex novo (o
quasi) per garantire la sopravvivenza di Israele in futuro? A
discuterne ieri sera al Centro ebraico Il Pitigliani di Roma,
coordinati dal consigliere UCEI Victor Magiar, un trio di giornalisti
d’eccezione – il direttore de Il Foglio Giuliano Ferrara, il
corrispondente dagli Stati Uniti per La Stampa Maurizio Molinari e il
corrispondente da Roma di Yediot Aharonot Menachem Gantz. Alla presenza
di un pubblico folto, tra cui vari rappresentanti delle istituzioni
ebraiche italiane e romane, i protagonisti del dibattito hanno aperto
numerose finestre di approfondimento sui grandi temi in discussione in
queste settimane: dal dialogo privilegiato tra Stati Uniti e Israele
che in molti a Gerusalemme vedono in pericolo, alla comprensione del
significato e dei possibili effetti politici portati dal vento di
insurrezione dei paesi arabi, al ruolo che una rapida soluzione delle
partite diplomatiche ancora aperte nell’area avrebbe per Obama
nell’ottica di una strategia che include i futuri equilibri del pianeta
alla luce della prossima probabile polarizzazione su scala globale tra
Stati Uniti e Cina.
|
|
Giovani ebrei e giovani musulmani verso una rottura |
|
Il
telefono tace, da parte dei Giovani Musulmani d’Italia ancora nessun
segnale. “Se non ci saranno ulteriori sviluppi posso assicurare che con
loro abbiamo chiuso” commenta il presidente dell’Unione Giovani Ebrei
d’Italia Daniele Regard. C’è molta amarezza nella sua voce ma anche la
consapevolezza che un percorso dialogico tra ebrei e musulmani non può
prescindere dai capisaldi del reciproco rispetto e della sobrietà
verbale. Elementi venuti meno con la pubblicazione su youtube lunedì
scorso di un filmato in cui il presidente del Gmi Omar Jibril e altri
rappresentanti dell’organizzazione, soffermatisi davanti ai totem della
rassegna Unexpected Israel ancora in fase di svolgimento in piazza del
Duomo a Milano, usavano una terminologia molto violenta e ricca di
infondatezze storiche nei confronti di Israele arrivando a parlare di
kermesse organizzata “per ricordare l’occupazione israeliana nei
territori palestinesi” e di paese responsabile di “bagni di sangue” e
“operazioni trucidanti” con successivo invito ad imbarcarsi sulla
Freedom Flotilla che a breve cercherà nuovamente di violare le leggi
internazionali sul blocco marittimo. La pubblicazione del video
suscitava ieri pomeriggio la ferma reazione dell’Ugei che in un
comunicato stampa a firma del presidente Regard chiedeva l’assunzione
da parte dei Giovani Musulmani d’Italia di posizioni più moderate e la
rettifica di quanto affermato da Jibril in piazza del Duomo. “Mi auguro
che le scuse arrivino il prima possibile così da poter continuare il
proficuo rapporto instaurato tra Ugei e Gmi, rappresentanti di due
minoranze italiane con simili radici culturali e da sempre impegnate
nel dialogo tra le religioni” si legge nel comunicato. Al momento però
dai Giovani Musulmani nessuno si è fatto sentire. A farsi avanti
comunque alcuni esponenti dell’Islam moderato tra cui Dounia Ettaib,
presidente delle Donne Arabe d’Italia, che ha inviato all’Ugei il
seguente messaggio: “Come donna e come essere umano libero esprimo la
mia più profonda solidarietà. Chi partecipa a questa denigrazione non
può condividere i valori di libertà e di democrazia. Chi sostiene la
libertà non può negare l'esistenza di uno Stato libero e democratico
come Israele”.
|
|
|
torna su ˄
|
|
|
Esploratori, ma’apilim
e coloni
|
|
Da millenni la Torah è letta
settimanalmente per trarne insegnamenti rilevanti per la nostra vita
attuale. Come dice il Talmud, ma’ase avot siman la-banim (gli atti dei
padri sono un segno per i figli). Ha quindi ragione il professor Volli,
commentando l’episodio degli esploratori nella parashà di Shelakh lekha
letta shabbat scorso, a “chiedersi che cosa possano significare oggi,
tremila anni dopo, le sue storie e i suoi personaggi, che cosa possiamo
impararne noi rispetto ai nostri problemi collettivi attuali” (l'Unione informa). Per inciso, il
ciclo di lettura annuale della Torah seguito in tutto il mondo è
secondo l’uso delle antiche comunità ebraiche babilonesi; quelle della
terra d’Israele la leggevano con un ciclo triennale, e le parashot
erano di conseguenza divise diversamente e più corte. Nell’Ottocento ci
fu un rabbino italiano che propose di adottare il ciclo di lettura
triennale, forse per non prolungare troppo la preghiera del sabato. Se
questa idea avesse preso piede, una newsletter sul web con il commento
alla parashà settimanale sarebbe oggi di difficile lettura per quelle
comunità.
Ma torniamo agli esploratori e al loro rifiuto di entrare nella Terra
di Canaan per il timore di essere sconfitti dalla popolazione
autoctona. Volli si lancia in parallelismi
apparentemente aderenti alla situazione odierna. Coloro (pochi) che
volevano entrare nella Terra sono come i coloni di oggi. Gli altri
(molti) che stavano dalla parte degli esploratori sono i “pacifisti”
(Volli dice proprio così, interpretando in questo senso il verso Numeri
14:3, mentre è chiaro che la motivazione non è affatto il pacifismo, ma
la paura di morire infilzati dalla spada). I secondi si sarebbero
rifiutati di considerare fratelli i primi, dove “fratelli” è un termine
di facile presa, visti i dibattiti recenti; peccato che nel testo
questo non ci sia scritto. Si parla di fratelli, ma in senso positivo
(14:4). È vero che i secondi volevano lapidare i primi, ma i fratelli
non c’entrano.
Il rischio, quando si vuole a tutti i costi dimostrare un proprio
teorema, è di “forzare (lett. curvare) il senso delle parole della
Torah” (vedi in Ha’ameq davar, il commento del Netziv di Volozhin,
all’inizio della parashà). Ma la lettura della Torah non è mai univoca,
come l’intervento del rav Roberto Della Rocca del 21
giugno ci ha ricordato. Secondo Volli, dato che gli esploratori e i
loro sostenitori furono puniti, potremmo automaticamente concludere che
hanno ragione coloro che oggi vogliono entrare a tutti i costi nella
Terra. Però basta andare alla fine del racconto dell’episodio narrato
nella Torah, qualche decina di versi più in là (14:40-45), per rendersi
conto che le cose non stanno così. Quando alcuni, nonostante D-o avesse
già decretato la peregrinazione per quarant’anni nel deserto, vollero
“salire” nella Terra di Canaan (i cosiddetti ma’apilim), facendosi
interpreti della “vera” parola divina, furono duramente sconfitti dagli
amaleciti e dai cananei. Il ripensamento era arrivato troppo tardi. Il
problema dei ma’apilim e di coloro che oggi li vogliono imitare è che è
difficile interpretare correttamente la parola divina. Chi pensa di
farsene portavoce rischia “di forzarne le parole”. Come ha scritto
tempo fa il professor Yeshayahu Leibowitz (un grande talmid chakham,
pure per i suoi oppositori): “Per quanto concerne poi le tesi
'religiose' in favore dell'annessione dei territori, esse non sono che
espressione di un'inconsapevole (o forse anche consapevole) ipocrisia,
espressione di una trasformazione della religione d'Israele in avallo
del nazionalismo israeliano. Una religiosità fasulla [...]. La
conquista della «terra» ad opera dell’esercito dello Stato d’Israele è
un successo nazionale di vaste e memorabili proporzioni per ogni ebreo,
religioso o laico, che abbia una coscienza nazionale. Ma come fatto in
sé essa è intanto priva di significato religioso. Non ogni «ritorno a
Sion» è definibile un’impresa religiosa: può esservi un ritorno a Sion
nel senso di «e verrete e renderete impura la Mia terra, facendo del
Mio possedimento un abominio» (Geremia 2,7)…” (Jeshajahu Leibowitz,
Ebraismo, popolo ebraico e Stato d'Israele, Carucci ed. DAC, 1980, pag.
163-164, traduzione a cura del mio Maestro Ariel Rathaus). In un altro
testo Leibowitz definisce “machrid” (terrificante) l’episodio dei
ma’apilim.
Finché ci si limita ad attualizzare la parashà settimanale per trarne
divrè torah per la se’udà shelishit dello shabbat pomeriggio va
benissimo. Ma se si vuole giungere a conclusioni di ordine halakhico (o
politico, come in questo caso), allora le cose si fanno molto più
complicate e facilmente si finisce per “curvare il testo” a proprio uso
e consumo.
Gianfranco
Di Segni, Collegio rabbinico italiano
|
|
A proposito di furto
|
|
In un suo breve, toccante intervento, pubblicato su pilpul
del 20 maggio scorso - significativamente intitolato “il furto” -, Anna
Segre esprime - traendo spunto dalle ripugnanti farneticazioni di Lars
von Trier, al Festival di Cannes -, con rara efficacia, il triste
sentimento di espropriazione che colpisce gli ebrei quando le
manifestazioni di antisemitismo non provengono da qualche rozzo e
inacculturato facinoroso, ma, al contrario, da raffinati artisti, le
cui opere, fino a quel momento, avevano suscitato emozione e
ammirazione. Si può continuare ad ammirare l’opera di qualcuno che
apertamente ti disprezza? È evidente che è difficile: “La frase
sgradevole - scrive la Segre - è come un veleno che si propaga e
intossica tutto ciò che ha intorno. Il personaggio che prima ammiravamo
si rivela nemico, e di colpo una luce sgradevole cala su libri, canzoni
o film che abbiamo adorato; non riusciamo più a sentirli “nostri” come
prima, e contemporaneamente ci sentiamo defraudati per questa perdita.
Intorno a noi colleghi e amici continuano con l’ammirazione di sempre,
e in fondo li invidiamo perché ci piacerebbe continuare a leggere quei
libri o guardare quei film con gli occhi di prima. Così ci sentiamo in
qualche modo discriminati, diversi dagli altri, e non per nostra
scelta. Chissà se Lars von Trier si è reso conto di avermi rubato
Dogville?”. Tali considerazioni ci rimandano a un problema di
fondo, che è quello della relazione tra etica e arte, e del rapporto
tra l’artista e la sua opera: l’arte dovrebbe sempre essere eticamente
‘corretta’ e edificante? E le eventuali colpe dell’artista si
riflettono, e in che misura, anche sulla sua opera? In genere,
com’è noto, tale tipo di collegamento viene naturalmente effettuato nei
confronti dei filosofi e in genere dei pensatori, le cui idee personali
difficilmente possono essere scisse dalle opere, facendo sì che il
giudizio morale sul percorso biografico dell’autore si sovrapponga, o
coincida col giudizio sui suoi prodotti culturali (talvolta, con un
automatismo anche eccessivo: si pensi ai casi di Giovanni Gentile e
Carl Schmitt, rivalutati solo dopo la fine della guerra fredda e il
crollo del muro di Berlino, o di Martin Heidegger, rigettato come
filosofo ‘nazista’ solo per una compromissione col regime alquanto
episodica e marginale [in pratica, per una sola prolusione
universitaria]). Nel campo delle arti, invece, i giudizi sulla
biografia e sulle idee dell’artista non portano, generalmente, diretto
nocumento (o vantaggio) alla sua opera: per Richard Wagner, per
esempio, è evidente, e ben conosciuto, il profondo legame tra il
tenebroso e tempestoso spirito nibelungico della musica e il violento,
morboso razzismo del suo creatore, ma ciò non ne ha minimamente
intaccato la fama mondiale (se non in Israele, ma, anche lì, in modo
non definitivo e irreversibile); anche Paul Valery era aspramente
antisemita, ma la sua poesia non ha per questo pagato alcun prezzo; e
nessuno rimprovera a Caravaggio la sua vita violenta e dissoluta (che,
anzi, ha contribuito a conferire un fosco e inquietante fascino
personale al sommo maestro del Seicento). Nel caso di Lars von
Trier, evidentemente, il problema si pone soprattutto per il fatto che
non si tratta di un personaggio del passato, ma di un soggetto vivente
e attivo, che può continuare a fare danno, e alle cui fortune non si
vuole in nessun modo contribuire. E la sensazione del furto, purtroppo,
c’è. Può essere una magra consolazione per la Segre sapere che essa non
riguarda solo gli ebrei: provai un’identica sensazione, per esempio,
quando, leggendo l’autobiografia di Leah Rabin, appresi dell’evidente
ripugnanza manifestata da Gabriel Garcia Marquez, in una cerimonia
pubblica, nel darle la mano, prima di abbracciare con ostentata foga
Yasser Arafat (e, prima di quell’occasione, lo scrittore non aveva
incontrato nessuna delle due persone). E, in quel caso, si trattò di un
‘furto’ di ben maggiore portata. Di Dogville, in fin dei conti, si può
anche fare a meno.
Francesco Lucrezi, storico
|
|
|
torna su ˄
|
notizieflash |
|
rassegna
stampa |
Gli
israeliani vogliono Shalit libero,
anche alle pesanti condizioni di Hamas
|
|
Leggi la rassegna |
A cinque anni dal rapimento del
soldato israeliano Gilad Shalit il quotidiano Haartz lancia un
sondaggio il cui esito dimostra che gli israeliani sono pronti ad
accettare le condizioni poste da Hamas per il rilascio di Shalit. Il
movimento palestinese reclama il rilascio di un migliaio di prigionieri
palestinesi. Secondo questo sondaggio, realizzato alla fine del mese di
maggio dall’istituto Rafi Smith su un campione di 600 persone
rappresentative della popolazione israeliana. Il 63 per cento degli
persone intervistate è a favore del rilascio dei detenuti palestinesi
di cui 450 nomi richiesti da Hamas considerati da Israele come
“terroristi con le mani macchiate di sangue israeliano”. Il 19 per
cento si oppone a un tale scambio e 18 per cento si dichiara senza
opinione.
|
|
Le
ultime giornate sono state prive di grandi avvenimenti sulla scena del
Medio Oriente. Le visite di ieri di Putin a Parigi e del premier
Erdogan a Washington avranno tuttavia importanti conseguenze che non
tarderanno a farsi sentire. Sui rapporti molto tesi tra Israele e
Turchia stanno lavorando dietro le quinte gli Stati Uniti, e un primo
segnale viene dalla annunciata non partecipazione della Mavi Marmara
turca alla spedizione Flotilla 2. Nicola Mirenzi su Europa ne parla,
dimenticando, purtroppo, che le relazioni tra i due paesi, a lungo
alleati, divennero difficili non dopo i 9 morti della Mavi Marmara, ma
dopo lo scontro tra Erdogan e Peres a Davos in seguito alla guerra di
Gaza...»
Emanuel
Segre Amar
|
|
|
|
torna su ˄
|
|
è il giornale dell'ebraismo
italiano |
|
|
|
|
Dafdaf
è il giornale ebraico per bambini |
|
L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it
Avete ricevuto questo
messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare
con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete
comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: desk@ucei.it
indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. © UCEI -
Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo
aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione
informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale
di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.
|