Amy
Winehouse non rinuncia a provocare e a sorprendere anche a costo di
infliggere un dispiacere ai suoi numerosi fan. E' stato così
bruscamente interrotto a causa delle sue intemperanze il tour della
regina trasgressiva della musica soul e annullata quindi anche l'unica
tappa italiana prevista, quella di Lucca, il 16 luglio. Alla
cantante inglese il giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche
dedica nel numero di luglio nei prossimi giorni in distribuzione alcuni
servizi che anticipiamo ai nostri lettori.
Amy Winehouse non è solo la
ragazzina ebrea inglese scapestrata e provocatoria, ma anche una delle
interpreti e cantautrici più popolare del nuovo millenio. Riccardo
Santangelo, che scrive sulla rivista musicale Amadeus, dove ha una
rubrica (Fuoritema) dedicata alle musiche non classiche, spaziando da
quella popolare al rock, dalla etnica al cantautorato italiano, fino al
progressive e al jazz contaminato e sulla testata web
amadeusonline.net, dove cura anche la rubrica Speaker’s Corner di
segnalazione per dischi di ogni genere, racconta ai lettori di Pagine
Ebraiche i segreti cel ciclone inglese.
La musica di
Amy Winehouse spazia tra molti stili, come il rythm and Blues, il soul,
il jazz. Lei scrive per una rivista che si occupa di vari generi
musicali tra cui il jazz. Cosa si trova negli album della cantante
inglese?
Bisogna partire dal fatto che oggi i generi musicali sono sempre meno
identificabili in stilemi precisi, perché imbastarditi da influenze
varie. In quest’ottica il mondo interpretativo di Amy Winehouse si
avvicina di più al soul, al rhythm and blues che al jazz. Sempre se non
si vuole considerare come jazz quell’ibrido sonoro che lo mescola con
il pop e l’easy listening. Nel primo album le influenze jazz erano più
evidenti, ma con Back to black sono sostanzialmente scomparse.
Un gruppo che
alla Winehouse è sempre piaciuto, sin da quand’era piccola, è quello
delle Salt’n’Pepa. Lei stessa, all’età di dieci anni, fondò assieme a
una sua amica le Sweet’n’- Sour, che descrisse come la versione bianca
ed ebraica delle Salt’n’ Pepa. Anche nei suoi ultimi album c’è qualcosa
di quello stile?
Se proprio si vuole trovare, nei lavori della Winehouse, delle
influenze derivate dalla musica del trio statunitense, lo si può forse
fare in brani come Fuck me pumps. Ma il tutto è riportato a un mercato
commerciale più europeo, meno musicghetto. Si deve però precisare che
il sound di un disco, soprattutto quello di artisti esordienti, è molto
condizionato dalle scelte artistiche di produttore e arrangiatore, due
figure molto importanti nel mondo musicale anglossassone e molto meno
considerate in quello italiano.
Nell’album
Frank si può dire che come stile ci sia anche il jazz, da sempre
considerato appartenente alle comunità ebraiche statunitensi, oltre che
a quelle afroamericane. Ritiene che questo sia stato un modo della
Winehouse per esprimere la propria identità religiosa?
In Frank intanto possiamo trovare una vicinanza al jazz solo in brani
come I heard love is blind, Moody mood for love e soprattutto No
greater love, forse l’unico pezzo che possa far paragonare la Winehouse
a cantanti come Sarah Vaughan e Dinah Washington, anche se il paragone
è un po’ forzato. La Winehouse sarebbe da accostare piuttosto ad
artiste come Macy Gray o Erykah Badu.
Per quanto riguarda l’identità religiosa, dovrebbe essere invece
lasciata fuori dalla musica. L’espressione sonora è intrinsecamente
connotata nel genere umano. Trovo assolutamente sbagliato “tagliare” i
generi musicali a seconda della religione. Per esempio ci sono più
citazioni bibliche in Springsteen che nella Winehouse. E poi, facendo
una piccola analisi spicciola, il jazz è nato come composizione
strumentale, dunque slegata dalla parola, e soprattutto ha radici a New
Orleans nella comunità afroamericana e nei cent’anni di vita ha avuto
contributi da esponenti delle più disparate religioni.
Parlando
sempre dell’album Frank, il primo della cantante inglese, la Winehouse
si lamentò del disco, affermando addirittura di non riuscire nemmeno
più ad ascoltarlo, anche per il fatto che non lo considerava totalmente
suo. Ritiene che l’enorme successo di Back to black sia dovuto anche al
fatto che in quest’album la Winehouse ha potuto esprimersi più
liberamente?
Forse sì. Dopo il successo del primo, penso abbia potuto imporre alla
produzione in modo più deciso il suo punto di vista. È anche vero che
tra i due album si sente molto forte la presenza dell’abuso di alcool e
droghe. La voce è più ruvida, più bluesy.
In canzoni
come You know I’m no good o Rehab la Winehouse affronta il tema della
colpa, un aspetto molto importante nella cultura ebraica. In che modo
ritiene che la cantante lo sviluppi?
Penso che, come per tutte le forme artistiche, anche nella musica ci
sia un aspetto terapeutico.
La Winehouse nelle sue canzoni citate racconta i suoi vizi, come se il
parlarne potesse essere un passaggio per venirne fuori. Ma nel suo caso
mi pare che non lo faccia per tale motivo. Si sente forte
l’affermazione di quello che è, e del fatto che in quello stato lei si
sente vera e autentica. C’è una consapevolezza della colpa, ma non un
messaggio di redenzione; e in effetti la stessa vita personale ne è
testimonianza.
Tommaso De Pas
Amy e Natalie due star agli
antipodi
Sono i due personaggi dello
spettacolo più noti e richiesti del momento. Una ha vinto quest’anno
l’Oscar come migliore attrice. L’altra ha ottenuto nel 2006 cinque
Grammy Award, tra i quali tre dei cosidetti Big four, quello come best
new artist, per il disco e per la canzone dell’anno. Ed è riuscita così
a essere la prima cantante inglese ad avere un simile risultato, nonché
la prima donna a portare a casa così tanti Grammy in una sola notte.
Sono Natalie Portman e Amy Winehouse. Due incarnazioni opposte della
femminilità e dei desideri maschili. La prima è la classica ragazza
tutto d’un pezzo, un po’ trasgressiva ma sempre nei limiti (non
andrebbe mai oltre il tagliarsi i capelli a zero), che tiene alla sua
carriera e alla sua cultura (conosce perfettamente l’ebraico e
l’inglese, le sue due lingue madri, e parla francese, tedesco,
giapponese e arabo). Una vera e propria incarnazione del nuovo modello
di donna: emancipata, in pace col proprio aspetto (e chi non lo sarebbe
nei suoi panni) e con gli uomini, e che sa far stare questi ultimi al
proprio posto.
Ha una stabile relazione con il ballerino classico Benjamin Millepied,
conosciuto sul set de Il cigno nero da cui la bellissima attrice
aspetta una bambino che dovrebbe arrivare quest’estate. Una donna che
potremmo proprio definire a posto con se stessa e con il mondo, tanto
che, quando durante un’intervista le venne richiesto un parere
sull’aldilà rispose: “Non ci credo. Penso che sia tutto qui, e penso
che questo sia il miglior modo per vivere”.
L’altra, Amy Winehouse, è invece in continua lotta con tutto e tutti,
sempre assediata dai problemi con l’alcol e da quelli col suo ex
marito. La classica donna dello spettacolo “bella e dannata”, che tutti
gli uomini vorrebbero assaporare per una notte, ma solo per quella, per
poi tornare a farsi coccolare tra le braccia sicure e bellissime di una
come la Portman.
Amy Winehouse è una ragazza che molte riviste, come The indipendent,
hanno qualificato come affetta da psicosi maniaco-depressiva. Una donna
che per sua stessa ammissione soffre di disturbi alimentari anche
gravi, come anoressia, bulimia; sempre insoddisfatta di se stessa, del
proprio corpo e delle persone con cui sta.
Da sempre, quindi, una persona molto fragile. Amy Winehouse nasce a
Londra il 14 settembre del 1983 da Mitchell e Janis Winehouse, uno
tassista e l’altra farmacista. Al liceo frequenta la Sylvia Young
Theatre School, dove mostra ben presto la sua voglia di ribellione,
venendone infatti espulsa all’età di quattordici anni per essersi fatta
un piercing al naso. Prima di prendere il diploma cambierà altre tre
scuole.
Tutto il contrario di Natalie Portman,che si laurea alla prestigiosa
università di Harvard in psicologia, e mostra fin dal liceo una
spiccata passione e capacità negli studi. Riporta ottimi risultati
soprattutto nelle materie scientifiche come la matematica, riuscendo
comunque a conciliare la sua carriera scolastica con quella da attrice,
iniziata in modo spettacolare quand’era ancora una deliziosa ragazzina
di quattordici anni al fianco di Jean Reno nel film Leon, di Luc
Besson.
Lei, nata a Gerusalemme da Avner Hershlag (Portman non è infatti il suo
vero cognome), ginecologo, e Shelley Edelstein, casalinga, non poteva
che portare avanti la serie di successi inanellati della sua famiglia,
in particolare dei suoi avi paterni, che erano emigrati in Israele
dalla Polonia e dalla Romania. Il nonno di suo padre, che aveva perso i
genitori ad Auschwitz, era un famoso economista, con una moglie che era
stata spia degli inglesi durante la seconda guerra mondiale.
Il fatto di essere nata in Israele e illegame con quel mondo e con
quella cultura sta ancora oggi molto a cuore alla Portman, come
testimoniano le sue stesse parole: “Amo molto gli States dove mi sono
trasferita all’età di tre anni assieme ai genitori ma il mio cuore è a
Gerusalemme. Là è dove mi sento a casa”.
Natalie Portman e Amy Winehouse; sicuramente due figure molto diverse
tra loro, accomunate però dalla religione, quella ebraica, e
dall’esserne orgogliose. Accomunate anche dall’età: sono infatti
coetanee, o quasi. La cantante londinese ha qualche anno in meno
rispetto all’attrice israeliana, ormai trentenne. E se la Portman è la
figlia che ogni madre, ebrea e non, vorrebbe avere, Amy resta comunque
la cocca di papà. Lui è più paziente, e poi sa molto bene che, dai
quindici ai ventinove, quasi tutto è concesso, specie se sei Amy
Winehouse.
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Colazione da Mazen
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Il Tizio guarda Televideo e fa
colazione sulla tovaglina del mattino lasciatagli da zia Marghitta,
quella con le foche azzurre che ballano sui tamburi. Senti senti: in
una intervista alla televisione palestinese, Abu Mazen ha dichiarato di
rifiutarsi di riconoscere lo Stato ebraico e poi che non capisce come
mai Israele chieda il riconoscimento solo ai palestinesi e mai
all'Egitto, alla Giordania e a tutti gli altri. Ha ragione, sbadiglia
il Tizio, e approfitta del fatto che sbadiglia per mettersi in gola
un'altra ciambellina. Israele, sgranocchia, deve fare questa domanda a
tutti. Per esempio, al Belgio. Anzi, se ci fosse tempo, Israele
dovrebbe fare questa domanda a tutte le persone del mondo.
Prendere e compilare sei miliardi di raccomandate con ricevuta di
ritorno con la domanda "Mi riconosci?". E' che non c'è mai tempo.
Abbiamo sempre da fare.
Il
Tizio della Sera
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rassegna
stampa |
Shakira,
in veste di ambasciatrice Unicef,
fa visita a una scuola di Gerusalemme
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La popolare cantante
colombiana Shakira è sbarcata in Israele, dove, in veste di
"ambasciatrice Unicef di buona volontà", dopo aver incontrato il
presidente israeliano Shimon Peres, ha visitato la scuola Max Payne -
Hand in Hand, situata a Gerusalemme Ovest. In questo istituto viene
sperimentato un innovativo curriculum educativo basato sul bilinguismo
e sulla coesistenza pacifica tra ragazzi israeliani e palestinesi. Una
scuola dove le lezioni vengono condotte in arabo ed ebraico e ogni
classe ha due maestri, uno israeliano e uno palestinese. Accompagnata
dal fidanzato, il famoso giocatore del Barcellona, Gerard Pique,
Shakira ha scherzato con i giovanissimi alunni, ballando con loro sulle
note del suo tormentone 'Waka waka'. "Investire nell'istruzione
è la strategia migliore e più veloce per avere pace e
stabilità globale" ha commentato Shakira, approdata "in Israele per
condividere alcune delle sue esperienze apprese nel campo
dell'educazione attraverso il suo ente di beneficenza, la Barefoot
Foundation".
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