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11 luglio
2011 - 9 Tamuz 5771 |
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Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma
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Il re Balaq aveva intuito che
la guerra non si fa solo con gli eserciti e le armi. Per questo invita
il profeta Bil'am a usare le sue arti magiche e religiose contro
Israele, ma come sappiamo il progetto fallisce. C'è da chiedersi però
il senso di tutta questa storia. Quando Abramo inizia il suo percorso,
riceve un impegno divino: "benedirò chi ti benedice e maledirò chi ti
maledice". Se le cose stanno così, anche se Bil'am avesse maledetto la
cosa sarebbe stata indifferente, al massimo un danno di rimbalzo per
lui e il committente. Il Meshekh Chokhmà spiega che il gioco non è
sulla maledizione/benedizione, ma nella guerra psicologica.
L'avversario deve aver paura, tanta paura, che lo fa cedere anche se è
armato fino ai denti. Per questo è necessario che anche le arti magiche
si pieghino a una forza superiore. Ma Bil'am non è solo un profeta, è
un riferimento per l'opinione pubblica, un ruolo che oggi, in assenza
di profezia, possono avere grandi intellettuali e leader carismatici. E
come si sa bene questi personaggi spesso non sono immuni dalla
sollecitazione economica. Insomma possono essere comprati. E la ragione
non è più quella di chi ha ragione ma di chi paga meglio. Bil'am, lo
vediamo dal testo, poteva essere comprato. Avrebbero potuto comprarlo
anche gli Israeliti, e chi assisteva alla scena del suo ripensamento lo
poteva sospettare. Per questo, davanti agli ambasciatori di Moav,
l'asina si mette a parlare. Gli intellettuali e i politici si possono
comprare per parlare in un certo modo, ma gli asini, quelli veri,
ancora no. |
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Anna
Foa,
storica
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Poco a poco ci lasciano gli
ultimi sopravvissuti e oggi piangiamo la scomparsa di Rubino
Salmonì. Scomparsa che non può non portarci a
ripensare all'importanza che ha avuto nella nostra storia
e nella nostra cultura, parlo di tutti e non solo di
noi ebrei, il ruolo del testimone. Alle difficoltà e ai costi
della testimonianza. Per testimoniare, infatti, bisogna prima di
tutto essere creduti, ascoltati. Proprio
ieri, Repubblica dedicava molto spazio alla
pubblicazione tedesca del rapporto di colui che fu il primo
testimone della Shoah, Jan Karski, l'ufficiale cattolico
polacco che riuscì a penetrare nel 1942 prima nel ghetto di
Varsavia, poi in quello che identificò come il campo
di sterminio di Belzec e ne uscì per riferirne
al mondo. Ma nè il ministro degli esteri inglese Eden
nè il
presidente Roosevelt, che incontrò nel 1943, gli diedero
ascolto. Nel 1944 egli pubblicò negli Stati Uniti il suo
rapporto su quanto aveva visto sotto il titolo The Story of a
Secret State, il libro appunto che vede ora la luce
in tedesco
ma che non è finora stato tradotto
in italiano. Riconosciuto come Giusto delle Nazioni nel 1982,
Karski rilasciò una lunga testimonianza al regista Lanzmann
per il suo grande documentario Shoah e morì nel 2000,
ancora torturato dal rimorso di non essere riuscito a farsi
ascoltare.
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Il grande ritorno degli ebrei di Maiorca
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Oltre
quattrocento anni fa l’Inquisizione spagnola li costrinse alla
conversione. Oggi i ventimila chuetas di Maiorca, ovvero i discendenti
delle famiglie ebraiche dell’isola, riabbracciano la religione dei
padri. Una Corte rabbinica israeliana ha infatti ufficialmente
riconosciuto i chuetas (o xuetas in catalano) come ebrei. “Una
decisione significativa – ha commentato Bernat Aguiló Siquier,
discendente di una delle 15 famiglie maiorchine di judios conversos –
un atto di giustizia, oltre che il riconoscimento di un fatto”. Dopo
mesi di sopraluoghi, analisi di carteggi e verifiche di alberi
genealogici, il Beth Din, guidato da rav Nissim Karelitz, ha dichiarato
che, a causa dei matrimoni interni fra chuetas, tutti coloro che sono
legati alle generazioni precedenti sono da considerare ebrei. Una
storia atipica quella degli ebrei maiorchini, diversa dai marrani di
Spagna e dal destino dei sefarditi della penisola iberica. Di fatto
isolati dal mondo, i chuetas (l’etimologia di questo appellativo è
ancora dibattuta, si parla di una semplice derivazione dal catalano
oppure di un espressione denigratoria legata alla carne di maiale)
hanno formato lungo i secoli una comunità indipendente, emarginata
quando non apertamente perseguitata dalle istituzione della Chiesa
cattolica. Una discriminazione tanto profonda da giungere fino ai
giorni nostri: in un sondaggio del 2001, promosso tra i maiorchini
dall’Università delle Isole Baleari, il 30% degli intervistati
sosteneva di non volersi sposare con un chueta e il cinque per cento di
non volerne l’amicizia. I chuetas, in ogni caso, costituiscono una
vicenda unica al mondo. L’emarginazione sociale subita a partire dalla
fine del XVII secolo (il governo regionale delle Baleari in maggio ha
realizzato una cerimonia ufficiale in memoria dei 37 ebrei uccisi nel
1691 dall’Inquisizione, condannando pubblicamente la discriminazione
subita lungo i secoli dalla comunità chuetas), ha portato alla
costituzione di una realtà autonoma e praticamente impermeabile al
mondo esterno, con lo sviluppo di una forte identità e coesione di
gruppo, rafforzata dall’obbligata endogamia. Quindici sono le famiglie
che si riconoscono in questa peculiare comunità e corrispondono ai
seguenti cognomi: Aguiló, Bonnín, Cortès, Forteza, Fuster, Martí, Miró,
Picó, Pinya, Pomar, Segura, Valls, Valentí, Valleriola e Tarongí. “Ora
i chuetas non dovranno più vivere in due mondi”, ha affermato al New
York Times Michael Freund, fondatore di Shavei Israel, organizzazione
no profit israeliana attiva nella ricerca degli ebrei perduti e da anni
impegnata per il riconoscimento dei judios maiorchini. “Siamo riusciti
ad aprire loro la porta in modo che potessero tornare a casa” ha
spiegato Freund (nell'immagine un momento della cerimonia che si è
svolta in memoria degli ebrei uccisi dall'Inquisizione spagnola del
1691). Sempre al New York Times, Bernat Aguilò ha auspicato che lo
Stato di Israele prenda ora in considerazione la possibilità di
riconoscere la cittadinanza ai “nuovi” ebrei di Maiorca. Per ora però,
più realisticamente, si parla dell’invio di alcuni rabbini sull’isola,
in modo da permettere a eventuali interessanti di imparare e recuperare
le tradizioni ebraiche perdute.
Daniel Reichel
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Israele,
il Libano e i confini sull'acqua |
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Ieri, domenica, il governo
israeliano ha fissato i confini marittimi della zona economica
israeliana, nonostante una divergenza con la mappa presentata
nell’agosto scorso alle Nazioni Unite dal Libano. Pur partendo entrambe
dallo stesso punto sulla costa, ossia Rosh Hanikrà, la linea libanese
diverge di 15 Km da quella israeliana laddove tocca i limiti della zona
economica di Cipro. Secondo il Primo Ministro Netanyau, la linea
attuale libanese sarebbe in contrasto con la frontiera fissata dal
Libano di comune accordo con Cipro nel 2007. E’ importante il parere
del geologo Langozky secondo il quale il Libano ha buone probabilità di
scoprire grandi giacimenti di gas nella sua zona economica non
contestata, ed in secondo luogo che in nessun caso la linea libanese
interferisce con i giacimenti israeliani di Dalit, Tamar, e Leviatan,
del valore complessivo di 100 miliardi di dollari. La linea libanese è
però adiacente al giacimento Alon di Noble Energy e di Delek. La
disputa potrebbe essere risolta a tavolino ma il Libano, dominato
dall’Hizbollah, rifiuta qualsiasi negoziato con Israele.
Sergio
Minerbi
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Il sogno
di Herzl e la realtà di oggi
tra nuove tecnologie e agricoltura |
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Avendo conseguito un
dottorato in giurisprudenza e facendo di mestiere il giornalista,
Theodor Herzl, il padre del sionismo, aveva una buona comprensione dei
fenomeni economici, come evidenziano i numerosi riferimenti al
commercio e all’imprenditoria presenti nel suo saggio Lo Stato ebraico
del 1896 in cui prefigurava i contorni del futuro Stato d’Israele.
Purtroppo Herzl scomparve prematuramente nel 1904, a soli 44 anni, e
non potè assistere alla realizzazione del suo progetto. Se una
ipotetica “macchina del tempo” consentisse a Herzl di visitare Israele
oggi, a 63 anni dalla nascita dello Stato, quali aspetti dell’economia
israeliana lo sorprenderebbero di più? Una prima sorpresa sarebbe
probabilmente rappresentata dalla drammatica riduzione del peso
dell’agricoltura nell’economia. Mentre nei primi decenni dalla nascita
dello Stato, l’agricoltura svolgeva un ruolo importante nell’economia e
nella società – i kibbutzim fornivano una quota non piccola del
prodotto lordo e dell’occupazione e, soprattutto, fornivano al paese
l’élite politica e militare – col passare degli anni tale peso si è
ridotto drasticamente: attualmente l’agricoltura rappresenta solo il 2%
dell’occupazione e del prodotto lordo di Israele; al confronto, in
Italia il peso dell’agricoltura è maggiore, incidendo per il 2% del
prodotto lordo e il 4% dell’occupazione. Vale la pena di notare che
tale riduzione del ruolo dell’agricoltura non è avvenuto
spontaneamente, per una sorta di “crisi di vocazioni”: è il frutto di
una scelta delle autorità, rivelatasi lungimirante in un territorio
semidesertico, di ridurre l’importanza di un settore che ha un elevato
fabbisogno di acqua e il cui prodotto può essere facilmente sostituito
con importazioni a buon mercato.
Dal 1995 infatti le autorità
di Israele hanno progressivamente ridotto i sussidi al settore
agricolo; in particolare, hanno ridotto i generosi sussidi al prezzo
dell’acqua per uso agricolo, prezzo che è salito in misura
significativa e che nel 2014 dovrebbe raggiungere il suo costo di
mercato, assai elevato a causa delle continue siccità e del
riscaldamento globale. Anche grazie ai risparmi in sussidi agricoli, il
bilancio dello Stato ha trovato risorse per incentivare la ricerca e
gli investimenti in nuove tecnologie, un settore che ha un alto valore
aggiunto e per sviluppare il quale Israele dispone di materie prime,
quali il capitale umano e quello finanziario, pressoché illimitate. Un
secondo fenomeno che probabilmente sorprenderebbe anche un inguaribile
ottimista come Herzl è rappresentato dal fatto che da alcuni anni
l’andamento dell’economia di Israele è per molti aspetti migliore di
quello delle altre economie industriali (Stati Uniti ed Europa), in
parte grazie al boom delle nuove tecnologie dell’ultimo decennio, in
parte grazie al fatto che il sistema finanziario israeliano ha
risentito poco della crisi finanziaria che ha investito i paesi
industriali dal 2008. L’importante conseguenza di questa maggiore
solidità dell'economia è che, probabilmente per la prima volta dalla
nascita dello Stato, per gli ebrei che vogliono realizzare il "sogno
sionista" ed emigrare in Israele questa scelta non comporta
necessariamente un sacrificio economico. In primo luogo il tasso di
disoccupazione è attualmente più basso che in molti paesi europei: 6,6%
contro l’8,5% in Italia e il 10% nell’area dell’euro. Inoltre sul
mercato del lavoro israeliano, modellato sull'esempio di quelli
anglosassoni, è strutturalmente più facile trovare (e perdere) un posto
di lavoro che non in Europa continentale (e in Italia il mercato del
lavoro è uno dei più “bloccati” d’Europa). Per i giovani che emigrano
in Israele vi è anche il vantaggio di avere a disposizione delle
università di altissimo livello, che offrono una chiave d'ingresso in
più nel mondo del lavoro. Morale della favola: la scelta ideologica di
fare la cosiddetta aliyah ("salita" in Israele) può conciliarsi con una
scelta economica vantaggiosa. In conclusione, un Theodor Herzl redivivo
rimarrebbe sorpreso per queste due caratteristiche dell’economia
israeliana, del tutto imprevedibili quando alla fine dell’800 egli
“progettò” lo Stato d’Israele, ma molto probabilmente ne sarebbe fiero.
Aviram Levy,
Pagine Ebraiche, luglio 2011
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Sulla vergogna
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Non pochi scrittori e
filosofi hanno cercato di comprendere che cosa sia la vergogna. Ma
Primo Levi ha mostrato che vi è oggi la «vergogna di essere uomini».
Era ed è la vergogna dei campi, perché è accaduto quello che non
avrebbe mai dovuto accadere.
Una vergogna affine è quella che si prova oggi in Italia, laboratorio
dell’assoluta assenza di legge, davanti alla volgarità di un pensiero
troppo grande, davanti allo spettacolo della politica, che nulla sa e
vuole sapere della vita, davanti a certe trasmissioni televisive, alle
maschere ottuse dei conduttori, al sorriso cinico degli «esperti» che
si prestano al gioco.
La vergogna silenziosa, che non trova parole, perché anche le parole
sono state rubate, ha reciso in chi la prova ogni legame con il potere
politico. Eppure la vergogna non è fine a se stessa. Nutre il pensiero.
Marx aveva ancora fiducia nella vergogna, quella «specie di rabbia
rivolta verso di sé», che è già l’inizio di una rivoluzione.
Donatella Di Cesare, filosofa
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notizie
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rassegna
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Prime medaglie azzurre ai Maccabi Games di Vienna
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Prime
medaglie azzurre ai Giochi Europei del Maccabi in svolgimento a Vienna.
La medaglia del metallo più prezioso arriva dalle ragazze del beach
volley, capaci questa mattina di conquistare l'oro al termine di una
spettacolare rimonta contro gli Stati Uniti. Acuti anche dal golf con
un argento e due bronzi, mentre si aspettano a breve grandi novità
anche da basket, tennis e pallavolo.
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italiano |
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Dafdaf
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