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18 luglio
2011 - 16 Tamuz 5771 |
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Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma
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Se ne è andato ieri, a 74
anni, dopo una lunga malattia contro la quale ha lottato con tenacia,
Aba (Rav Avraham Moshe) Dunner, segretario della Conferenza Rabbinica
Europea. Era nato in Germania, a Koenigsberg, da una famiglia di
rabbini, che fece appena in tempo a emigrare in Inghilterra dopo la
notte dei cristalli. Vari membri della famiglia hanno ricoperto e
ricoprono incarichi di responsabilità comunitaria nel Regno Unito e
altrove. Aba è stato negli ultimi 20 anni il cuore dell'organizzazione
rabbinica europea; la sua attività è stata discreta, senza clamore, ma
decisiva e senza compromessi, cosa che gli ha provocato non poche
ostilità e conflitti. Il suo rapporto con l'Italia ebraica, non molto
noto pubblicamente, è stato di attenzione affettuosa, supporto
continuo, contatti politici e religiosi ai massimi livelli, e
progettazione. Tra i suoi rammarichi quello di non aver potuto fondare
a Roma un kolel, una scuola residenziale per adulti; ma il principale
sostenitore avrebbe dovuto essere proprio suo figlio Pini, che
purtroppo è rimasto vittima di un incidente stradale. Un lutto che
negli ultimi anni si è aggiunto ad altri della sua famiglia, ai quali
ha reagito con incredibile vitalità. Ci mancherà la sua forza, la sua
modestia e la sua saggezza. |
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Anna
Foa,
storica
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Che, come abbiamo potuto
leggere sulla nostra rassegna stampa, il "quotidiano di
sinistra nazionale" Rinascita, filonazista e
negazionista, pubblichi il 13 luglio un articolo sul
processo di Norimberga intitolato "La più grande
farsa giuridica" a firma del negazionista lituano Petras
Stankeras, non è cosa che possa stupirci. Come non ci stupisce neanche
troppo che Massimo Fini avesse scritto giorni prima, in data 9 luglio,
un pezzetto sullo stesso tono sullo stesso processo di Norimberga, in
cui affermava testualmente che, all'epoca delle stragi di civili in
Italia, nella primavera del 1944, i tedeschi erano
"incarogniti per il tradimento dell'alleato italiano che in un momento
cruciale della guerra, mentre si lottava per la vita e per la morte, li
aveva pugnalati alle spalle passando dalla parte dei probabili
vincitori". Ci stupisce di più la testata su cui questo pezzo
è apparso, Il Fatto quotidiano, nella rubrica
dello stesso Massimo Fini, Battibecco. Possibile che nessuno
dei lettori de Il Fatto abbia o abbia avuto niente da eccepire?
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Redazione aperta - “La sfida dell’informazione”
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Si
apre oggi la terza edizione di Redazione Aperta, appuntamento ormai
consolidato per i responsabili e per gli operatori dell’informazione
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che per due settimane,
ospiti sul Carso della Comunità ebraica di Trieste, avranno modo di
confrontare esperienze professionali, sviluppare nuove idee e
trascorrere intense giornate di studio dedicate ai principi
fondamentali del giornalismo e alla loro declinazione in chiave ebraica
aiutati in questo senso da ospiti autorevoli quali leader ebraici,
rabbanim, studiosi. L’informazione è un cardine essenziale per
l’UCEI. Un impegno, una sfida appassionante che ha portato in questi
anni alla nascita di media oggi consolidati
all’interno del mondo ebraico e nella società italiana. Un impegno che
ha inoltre permesso a cinque giovani ebrei italiani provenienti da
diverse Comunità di completare un percorso di praticantato
giornalistico all’interno della redazione diretta da Guido Vitale. Quest'anno
Redazione Aperta si apre ancora di più rispetto al passato. Stanno
infatti arrivando in queste ore a Trieste molti giovanissimi ospiti da
tutta Italia. Ragazze e ragazzi portatori di nuove idee e entusiasmi.
Giovani che in alcuni casi hanno già avviato una proficua
collaborazione con le nostre testate. A loro va un caloroso benvenuto e
l’auspicio di un percorso comune che possa durare nel tempo.
Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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Margiotta
Broglio: “Valori laici, patrimonio di tutti”
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La ferita ha lasciato un segno appena percepibile, sul muro giallo del
palazzetto al numero 37 di piazza delle Cinque Scole. Splende il sole
sulla sinagoga, volteggiano sereni i gabbiani del Lungotevere, quasi
nulla ricorda più quella bomba a mano che nell'autunno del 1943
lanciarono contro il muro per spaventare la gente braccata. Chi va in
giro a sporcare i muri di Roma oggi forse se ne dimentica. Ma quei muri
portano ben altre ferite. E per lui quel segno è rimasto indelebile.
Vicino di casa, a sei anni, di ebrei che non avrebbe più potuto
incontrare, oggi Francesco Margiotta Broglio è conosciuto come uno dei
massimi esperti dei complessi rapporti fra lo Stato e le religioni. Ma
la sua vita privata, da quando dormiva nel lettino e quella bomba
sfiorò la sua finestra, frantumò e fece crollare un infisso a pochi
centimetri dalla sua testa, ha continuato a essere una continua
occasione d’incontro con il mondo ebraico. Al liceo Virgilio di via
Giulia, dove insegnò anche sua madre (e molti ragazzi del quartiere
ricordano la sua complicità nel risparmiarli dai compiti scritti al
sabato). Nel lavoro accademico come esperto di legge e di religioni,
nella stesura delle Intese fra Stato e Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane che avrebbero segnato la storia della più antica realtà
ebraica della Diaspora. E anche nella scelta di dove abitare, da vicino
di casa degli ebrei di Roma allora a vicino di casa della sinagoga di
Firenze oggi. Fra i tanti nodi irrisolti, fra i tanti temi ricorrenti
di una società come la nostra, che si vorrebbe avanzata ma è costretta
continuamente a fare i conti con un passato difficile, i valori laici
tornano continuamente alla ribalta per gli ebrei italiani. Valori che
per la cultura ebraica ormai da millenni non segnano il confine fra i
privilegi di una casta sacerdotale e i diritti della gente comune, ma
piuttosto costituiscono una componente fondamentale della riflessione
di come essere pienamente cittadini e di come essere ebrei.
Si continua,
professore, a studiare un maestro e un Giusto fra le nazioni come
Arturo Carlo Jemolo e lei tiene accanto l'ultimo volume
dell'epistolario con l'amico Mario Falco e il recentissimo Arturo Carlo
Jemolo. Riforma religiosa e laicità dello Stato di Carlo Fantappiè
(Morcelliana). Ma la laicità che cos'è davvero?
La laicità è la neutralità di fronte al fenomeno religioso.
Che cosa
significa essere laici in Italia?
Me lo sono chiesto spesso anch'io, gli italiani sono uno strano popolo
di miscredenti anarchici. E dobbiamo anche ricordare che nella
tradizione laica delle élite liberali della seconda metà dell'Ottocento
era presente una importante componente cattolica liberale. Una vera
tradizione laica nel nostro paese è sempre rimasta il patrimonio di una
minoranza. E una lunga, complicata storia in cui contano solo tre
protagonisti. Quali? Le istituzioni, la Chiesa e gli ebrei.
Dalla presa
di Porta Pia al Concordato del 1929 la Chiesa esce dal quadro
politico...
E gli ebrei anche a Roma cominciano a entrarvi. Ma intendiamoci, i
valori laici di cui parliamo oggi sono un'acquisizione piuttosto
recente. L'assolutismo settecentesco mostrava una pulsione di controllo
sulle religioni, lo stesso Piemonte delle Guarentigie seguì questa
strada. Il culmine si raggiunse proprio con il Concordato del 1929.
Oggi questi
fatti sono molto lontani, eppure, nonostante la Costituzione, il
rinnovo del Concordato, le Intese e le mille riflessioni, i tanti
aggiustamenti che hanno fatto seguito, i nodi restano.
Credo sia ancora difficile comprendere com’è importante che il fenomeno
religioso viva nella sfera pubblica, senza che questo comporti
necessariamente il fatto di entrare nella cosa pubblica. Questo è il
grande equivoco della laicità in Italia.
Al di là
delle Intese, di cui lei è stato uno dei grandi protagonisti, quali
altri grandi momenti sono da ricordare per un'analisi della concezione
dei valori laici in Italia?
I referendum su divorzio e aborto, naturalmente. Ma soprattutto la
sentenza della Corte costituzionale del 1989 sull'ora di religione
cattolica nella scuola pubblica. Da queste esperienze abbiamo potuto
trarre molti spunti. Che il concetto di laicità può essere alquanto
variabile e da noi una “laicité de combat” alla francese trova poco
spazio. Che uno schieramento politico esclusivamente fondato sul
concetto di laicismo (quello che si profilò ai tempi del referendum)
non costituisce un elemento stabile del quadro italiano. E anche che la
realtà italiana non è forse pienamente matura né rigorosa secondo i
canoni delle società occidentali.
Pesa la
Storia?
Non dimentichiamoci che conviviamo con valori e vicende millenarie.
Quelle della minoranza ebraica, che è portatrice di una visione del
tutto originale. E quelle delle istituzioni cattoliche. Se i papi se ne
fossero rimasti ad Avignone, forse le cose sarebbero andate
diversamente. Ma non è andata così. Per comprendere l'influenza del
papato dobbiamo pensare che la Conferenza episcopale italiana esiste
dal 1956 e che i vescovi si riunirono fino ad allora sulle suddivisioni
dei confini preunitari.
Immaturità?
Direi piuttosto anomalia. Così come anomala è la natura degli italiani,
cattolici come ebrei, che molto raramente hanno dato segni di
integralismo. Noi conosciamo la cultura della mediazione. Se si vuole
misurare quante riflessioni diverse possano passare attraverso questo
discorso, consiglio molto di dare un'occhiata a un piccolo libro di
Jean Bauberot (Le tante laicità nel mondo, Luiss University Press) che
aiuta a comprendere come non sia possibile farsi un archetipo di
laicità. Ognuno deve costruirsi la sua.
Chi ha titolo
per parlare?
Ognuno, per carità, può dire la sua. Ma oggi il dibattito mi sembra
piuttosto monopolizzato dalle affascinanti e complesse elaborazioni di
filosofi che non hanno mai aperto il Codice civile.
Per il
giurista le religioni rappresentano solo un irrazionale incomodo?
Al contrario, al di là e in aggiunta ai principi sacri a chi crede, le
religioni svolgono un prezioso ruolo di ammortizzatore sociale. Lo
hanno sempre svolto e lo possono fare ancora di più oggi, in una
stagione in cui lo stato è portato all'idea di privatizzare anche i
servizi essenziali, come la distribuzione dell'acqua potabile. Al di là
del dibattito ideologico sarebbe necessario guardare un poco al
concreto.
Per esempio
al problema della costruzione di nuove moschee in Italia. Lei ha
partecipato a fianco della Comunità ebraica di Firenze alla
manifestazione per facilitare la costruzione di un nuovo luogo di culto
in Toscana.
Certo, l'ho fatto con convinzione. Però mi sono anche domandato: ma
quanti saranno i musulmani in Italia che frequentano una moschea?
Proprio agli amici ebrei di Firenze, consapevole che voi venerate le
idee, non gli edifici, ho proposto per scherzo di cedere all'Arabia
Saudita la sinagoga fiorentina e di investire il capitale derivante per
trovare una sistemazione forse meno scenografica ma più razionale ed
economica.
Reazioni?
Ci abbiamo riso sopra, consapevoli che questi scherzi sono possibili
solo in Italia. Noi apparteniamo a un mondo che ha fatto della
trasversalità di genti e idee il suo punto di forza. Dopo la guerra,
quando nel quartiere ebraico si tornava faticosamente alla vita, mamma
mi mandava al negozio di alimentari all'angolo con via della Reginella.
Sul banco il proprietario teneva una quantità di bussolotti dove
lasciare una monetina. Doveva essere un uomo di larghe vedute, perché
fra i tanti un salvadanaio aveva ai suoi piedi il pupazzetto di un
bimbo dalla pelle scura. Una molla gli faceva inchinare la testa quando
cadeva la moneta. Ho imparato così che si poteva restare se stessi e
dare anche una mano ai frati delle missioni.
Valori laici,
pluralismo religioso, rispetto del bene comune e dello spazio pubblico.
Gli ebrei italiani hanno maturato in due millenni un'esperienza
preziosa. Che cosa possono fare per metterla a disposizione di tutti?
Devono sviluppare le potenzialità degli strumenti esistenti. A
cominciare dall'Otto per mille, che serve proprio per tutelare quei
valori, quei beni e quelle culture senza le quali l'Italia perderebbe
la propria anima e la propria identità. E devono lavorare
sull'informazione a livello professionale. Uscire allo scoperto,
parlare alla gente. Prendete questo giornale. Fatelo crescere perché
diventi un settimanale. Continuate a portarlo, come avete fatto alla
Fiera del Libro di Torino, a quell'Italia che vuole conoscervi.
Guido Vitale,
Pagine Ebraiche, luglio 2011
Le
Comunità e lo Stato. Vent’anni dopo
“Mi sembra che il bilancio
di questi venti anni di Intesa fra Stato e Unione delle Comunità
Ebraiche sia nel suo insieme molto positivo. Se guardiamo ai fatti, fu
la sentenza 239 del 1984 della Corte costituzionale a sollecitare le
Comunità ebraiche a rinunciare all'impostazione un po' bonapartista
della molto importante legge Falco del '30, che bene o male - anzi
malissimo - anche dopo le leggi razziste del 1938, regolò la vita degli
ebrei italiani e le loro istituzioni per quasi sessant’anni, battendo
la normativa concordataria messa subito in crisi nel ‘48 dai nuovi
principi della Costituzione, e nel '70 -'74 dalla legge sul divorzio,
dalla giurisprudenza costituzionale e dalla conferma popolare della
medesima. Consentitemi però di ricordare che non tutto l’ebraismo
italiano accolse positivamente la legge Falco. A parte le critiche di
Piero Sraffa nelle lettere alla cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, è
nota ma va richiamata la reazione dell'ex guardasigilli Lodovico
Mortara espressa allo stesso Falco. La ricordo perché è importante per
capire la storia dell'ebraismo italiano e la cito da un libro
importante uscito l'anno scorso, quello di Stefania Dazzetti,
intitolato L’autonomia delle comunità ebraiche italiane nel Novecento.
Che cosa scrive Mortara all'amico Falco? “Quanto al regolamento non
posso disapprovarlo in tutto, perché compilato su legge cogente ma le
dico in confidenza, caro amico, che ho imparato moltissimo da un
versetto del Pentateuco che scriverei qui in ebraico se non avessi
timore di commettere sbagli di ortografia ma ricordo bene che si
traduce così: ‘In qualsiasi luogo tu rammenterai il mio Nome verrò a te
e ti benedirò indi la mia fermissima incrollabile convinzione che avete
torto tutti quanti che pretendete una forma di mezza abiura da chi non
voglia contribuire con denaro alle spese della comunità e lo carpite
per di più con il rifiuto della sepoltura presso i suoi cari. Questa è
intolleranza bella e buona e Dio non l'ha insegnata né autorizzata”.
Sulla stessa linea si mise Jemolo, che ricordava sempre la posizione di
Mortara e in un suo piccolo progetto di articoli per la Costituzione
aveva espressamente inserito addirittura il divieto “di escludere dai
sepolcreti famigliari i colpiti di sanzione religiosa” e che, scrivendo
a Falco il 23 agosto del '31, così commentava una frase contenuta nelle
conferenze tenute nel marzo-aprile nelle principali comunità ebraiche:
“Mi consentirai di dirti che io trovo nella conferenza solo alcune
parole di troppo: quelIa scritta a pag. 9 “ripudiando la concezione
astratta della ideologia separatistica ... ecc.", sinceramente per
giustificare il legislatore di avere, in un completo abbandono di
questa ideologia, dato norme sulla confessione israelitica, non mi
sembrava necessario prendere posizione contro questa ideologia: che è
poi stata la grande madre da cui sono nate molte ottime cose, compresa
l'emancipazione degli ebrei; gran madre, che i pochi che credono in un
progresso e i molti che pensano che nei corsi e ricorsi vi sia posto
per ore di luce, non si rassegnano affatto a pensare come una idea
morta, che più non abbia ad uscire dal sepolcro”. L’Unità nazionale
d'Italia venne raggiunta attraverso una rivoluzione liberale che
superando i particolarismi - oggi in paradossale rinascita - e
opponendosi alle prerogative del papato, sconfiggeva l'antico regime
segnato dal sodalizio fra trono e altare. Per gli ebrei italiani la
formazione della coscienza nazionale fu parallela a quella dei
principali nuclei indipendentisti regionali (piemontesi,
napoletani...); parallela, non successiva, per la sua simultaneità, lo
notava Arnaldo Momigliano recensendo Gli ebrei a Venezia di Roth, che
ci spiega come mai il nazionalismo italiano non ebbe sfumature e
vibrazioni antisemite e come mai la prima integrazione degli “ebrei
nazionali” venne vista con favore dall'ebraismo italiano che non
percepì immediatamente la carica eversiva di un nazionalismo divenuto
l'anima dell'imperialismo post-unitario. Il 2011 è una grande occasione
per ricordare il ruolo dell'ebraismo italiano nella formazione della
Stato unitario e nella sua successiva vicenda, una sfida che le
Comunità, l'Unione e le istituzioni che ne fanno la storia non possono
a mio avviso non accettare.
Francesco
Margiotta Broglio
Dall’intervento
tenuto in occasione del ventennale delle Intese.
(Rassegna
Mensile di Israel)
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Maimonide e i marrani
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Sembra che alcuni
considerino la «questione dei marrani» l’oggetto di un interesse
antiquario, dominio esclusivo degli storici, gli unici in grado di
poter dire qualcosa su un’epoca passata, chiusa e conclusa
dell’ebraismo. Perciò chi la riapre, si farebbe portavoce di
un’illusione remota, seguirebbe un incomprensibile vezzo inattuale.
Ma le cose stanno diversamente. Lo mostra il «ritorno» dei ventimila
chuetas di Mallorca. Per troppo tempo ha prevalso una visione
restrittiva e superficiale dell’arcipelago dei marrani che, dai
conversos giudaizzanti, fedeli in segreto all’ebraismo, ai nuovi
cristiani, zelanti fino al dissenso, dagli eretici ai deisti, dagli
ateisti ai secolarizzati, hanno mostrato da sempre una frammentazione
difficilmente riconducibile a un concetto monolitico.
Se fino a poco tempo fa i marrani costituivano un problema per la
chiesa, perché testimoniavano la violenza perpetrata con i battesimi
forzati, non era però ancora chiaro fino a che punto rappresentassero
un problema per l’ebraismo. Benché furono molte le discussioni, e si
cercò di distinguere tra differenti contesti, generazioni, situazioni,
per la maggior parte dei rabbini i marrani erano, se non completi
goyim, almeno idolatri. Il battesimo segnò anche nel mondo ebraico una
barriera metafisica, l’impossibilità di un ritorno.
Eppure Maimonide nella «Lettera sulla conversione forzata»,
distinguendo modalità e gradi diversi di conversione, raccomandava agli
ebrei convertiti forzatamente di «abbandonare ogni possesso e camminare
giorno e notte» fin quando non avrebbero trovato un luogo in cui
«ricostituire la loro religione». Suggeriva di osservare in segreto il
più alto numero possibile di mitzvòt. Sotto minaccia di morte
l’alternativa poteva essere solo quella della emigrazione: esterna,
cioè appunto, l’esilio, oppure interna, cioè la conversione.
Maimonide denunciava, non senza veemenza, un rabbino che aveva
condannato indiscriminatamente tutti i convertiti. Parlava ovviamente
di sé. Intorno al 1160 la sua famiglia, passata temporaneamente
all’Islam, attraversò lo stretto di Gibilterra per lasciare Cordova e
recarsi, attraverso varie peregrinazioni, a Fez. Da lì, nel 1165 varcò
i confini dell’impero degli Almohadi, per tornare all’ebraismo.
Maimonide si interrogò sulla possibilità di interpretare la conversione
come una emigrazione interna e temporanea che non vietasse un ritorno
alla fede ebraica. Anticipò la questione dei marrani. Chissà che non si
debba riprendere oggi da qui la riflessione.
Donatella
Di Cesare, filosofa
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notizie
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rassegna
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Sorgente
di vita in onda su Raidue:
dai comandamenti alla kasherut
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“Non fare falsa
testimonianza”: con il nono comandamento continua la serie dedicata al
decalogo, con la lettura del testo biblico affidata all’attore Paolo
Ferrari e il commento a più voci che varia di volta in volta. Sul tema
della falsa testimonianza intervengono il rav
Roberto Colombo e il magistrato Gherardo Colombo. Breve viaggio tutto
al femminile alla ricerca dell’eterna giovinezza: in un centro estetico
milanese alcune donne parlano della loro scelta di sottoporsi a
trattamenti di bellezza per migliorare il proprio aspetto. Diete,
punturine e massaggi sono però conformi all’osservanza religiosa? Fino
a che punto si può spingere un intervento estetico? Domande e risposte
alla luce della tradizione ebraica. Kasher in ebraico vuol dire adatto,
buono, conforme alle regole alimentari che sono tante e complesse:
mangiare, secondo la tradizione ebraica, è un vero e proprio atto
rituale inserito in un programma religioso più ampio nella prospettiva
della santificazione della vita quotidiana. Dai quadrupedi ai volatili,
dai pesci al divieto di mangiare carne e latte insieme: il rav
Roberto Colombo propone alcune interpretazioni sui precetti della
“kasherut”.
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è il giornale dell'ebraismo
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Dafdaf
è il giornale ebraico per bambini |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
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