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19 luglio 2011 - 17 Tamuz 5771
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Roberto Della Rocca
Roberto
Della Rocca,
rabbino

Inizia con il digiuno di oggi, 17 di Tamuz, un percorso di 80 giorni culminante nel 10 di Tishrì, il digiuno del Kippur. Insegna infatti il Talmud (Taanit 26 b e 30 b ) che il giorno di Kippur, Mosè scese per la seconda volta dal monte con le nuove Tavole del Patto; egli era infatti sceso la prima volta il 17 di Tamuz, giorno del peccato del vitello, ed aveva infranto le prime tavole; il giorno successivo, dopo aver distrutto il vitello, era risalito sul monte dove era rimasto ottanta giorni, quaranta per pregare il perdono di Dio e altri quaranta per ricevere le nuove tavole. Nella storia del vitello d'oro, che abbiamo letto questa mattina nella Torah, assistiamo a un doppio scenario. Da un lato Moshè sul Sinai che riceve le Tavole del Patto, accettate in un primo momento dal popolo in piena libertà, dall'altro lato, in contemporanea, ai piedi del monte, il popolo commette quello che è considerato il paradigma del tradimento. Con un incredibile paradosso gli ebrei commettono la trasgressione del vitello d'oro per insegnare a tutta l'umanità che la Teshuvà è sempre possibile. Come se l'Eterno si fosse dimenticato di mettere per iscritto questo principio già assodato e gli ebrei lo hanno spinto a correggere questa mancanza rompendo e facendosi ridare le Tavole del Patto in un rapporto ancora più vincolante. Ma dal digiuno di oggi a quello di Kippur, dalla rottura alla ricomposizione c'è bisogno di un percorso di 80 giorni. Percorsi nei quali anche le fratture sono necessarie. Per imparare che talvolta per ricostruire è necessario rompere!.
Dario
 Calimani,
 anglista


Dario Calimani
Non sono certo che passare sotto silenzio il difficile rapporto con i Lubavitchers sia salutare per l’ebraismo italiano. Gira per il mondo, ed è arrivato anche in Italia, un bel bigliettino da visita in carta lucida e bei colori vivaci che reclamizza il “Moschiach’s address”, l’indirizzo di casa del Messia che è, naturalmente, Brooklyn, 770 Eastern Parkway. Da anni, in pieno Ghetto a Venezia, una bella foto del Messia, Rav Schneerson, fa bella vista di sé in vetrina. Si sa che non tutti i Lubavitchers la pensano allo stesso modo, ma la moda, pericolosamente cristianizzante, è contagiosa. E i seguaci di questo nuovo Messia sono proprio coloro che guardano con malcelato disdegno il nostro povero ebraismo italiano. Qualcuno di noi, poi, li ammira perché sono ‘gentili’, e si fa più integralista per imitarne la religiosità. Finora i tentativi di collaborazione non sono stati segnati da grandi successi. Sarebbe bene che ne parlassimo almeno, ogni tanto. E che ne parlassero i nostri rabbanim, prendendo coscienza del loro stesso ruolo. E invece ci voltiamo dall'altra parte, e ci facciamo del male.

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davar
Redazione aperta - Esordienti alla prima prova
logoSi è aperta ieri sera la terza edizione di Redazione aperta, laboratorio giornalistico promosso dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e ospitato dalla Comunità Ebraica di Trieste.
Presenti alla serata inaugurale il presidente Alessandro
logoSalonichio e molti consiglieri della Comunità ebraica triestina, fra cui Ariel Camerini, Igor Tercon che, assieme a Gloria Arbib e Anselmo Calò, segretario generale e vicepresidente dell'UCEI, hanno mostrato grande soddisfazione per la presenza di tanti giovani ebrei italiani interessati all'attività giornalistica. Soddisfazione in particolare è stata espressa per Redazione apertail fatto che i ragazzi provengano da molte realtà comunitarie differenti: non solo quindi dalla Capitale, così da dare un più ampio respiro all'intera esperienza che vedrà nei prossimi giorni la redazione impegnata su molti fronti; dall'incontro con diversi rabbanim italiani e autorevoli esponenti dell'ebraismo nazionale allo scambio d'idee e d'esperienze tra i ragazzi stessi, espressione delle differenti realtà italiane.
Presenti alla serata inaugurale molti esordienti, come Tommaso Bianchi da Firenze, Gadi Piazza e Francesca Matalon da Milano, Tommaso De Pas da Torino e Micol Debash e Benedetta Rubin da Roma, che verranno presto raggiunti da altri loro coetanei.
Un'esperienza, quella che si sta svolgendo in questi giorni, che di sicuro si dimostrerà un laboratorio significativo per sviluppare professionalità, confidenza e solidarietà nell'ambito del lavoro.

Le giovani e coraggiose pioniere della salute
CopertinaAveva 17 anni Bathsheba Yonis quando, diplomatasi con onore nella città di Odessa, decise di trasferirsi a Ginevra per inseguire il suo sogno di diventare medico. Un obiettivo non semplice per una ragazza del 1897, quando ben pochi erano i paesi che permettevano alle donne di esercitare la professione e ancora meno quelli che consentivano loro di studiare medicina.
Bathsheba dovette superare l’opposizione del padre che la riteneva troppo giovane per trasferirsi all’estero e le suggeriva piuttosto di diventare sarta. Ma la ragazza non si rassegnò. Con l’aiuto della madre partì di nascosto e a Ginevra riuscì a farsi ammettere all’università nonostante la regola che proibiva l’iscrizione di studenti con meno di 18 anni. Iniziò così una brillante carriera accademica al punto che, di ritorno a Odessa per le vacanze, il padre orgoglioso dei suoi successi la riaccolse con regali e gioielli.
Quella di Bathsheba è solo una delle storie delle 22 giovani che per prime esercitarono la professione medica in Eretz Israel (all’epoca parte dell’impero ottomano e poi sotto mandato britannico), gettando le basi per quello che è oggi uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, a cui la storica Zipora Shehory Rubin dedica un bel saggio su Vesalius, rivista dell’International Society of Medicine. Queste ragazze provenivano da famiglie di cultura elevata, con una buona disponibilità economica e attive nelle associazioni sioniste.
Le 22 pioniere della medicina ebraica al femminile erano indipendenti, lontane dal ruolo tradizionale della donna nella famiglia e determinate, una volta terminati gli studi nei migliori atenei, ad abbandonare la comoda vita europea per fare l’aliyah andando incontro a un’esistenza piena di difficoltà nella futura Israele.
Una terra impervia e malsana in cui fino alla metà dell’Ottocento i medici scarseggiavano e la popolazione ebraica non aveva a disposizione alcuna struttura ospedaliera. Le cose cominciarono a cambiare anche grazie all’aiuto di ricchi ebrei filantropi europei, come sir Moses Montefiore, la famiglia Rothschild, il francese Albert Cohen, che finanziarono i primi ospedali nei pressi di Gerusalemme. E tuttavia in Palestina, come negli altri territori dell’Impero ottomano, la professione medica, con l’eccezione dell’ostetricia, era appannaggio esclusivo degli uomini.
Era proibito infatti non soltanto che le donne turche studiassero o lavorassero come medici, ma anche che le donne straniere laureate in medicina ottenessero la licenza per esercitare la professione. Col risultato che Bathsheba Yonis, ma anche Alexandra Belkind, l’unica a essere nata in Palestina emigrando in Europa per completare gli studi, Sarah Ben Ami, ispirata dallo zio Hillel Yaffe che guidava la battaglia contro la malaria nella regione, e tutte le altre, lavoravano clandestinamente. E d’altronde di medici, ma soprattutto di donne medico, in quella zona c’era un gran bisogno, considerando l’alta percentuale di donne religiose, sia ebree che musulmane, che si rifiutavano di farsi visitare da uomini. Ma oltre alla necessità di ginecologhe, ostetriche e pediatre, campi cui le 22 dottoresse si dedicarono con slancio, in Palestina c’era bisogno di medici specializzati nel combattere la malaria e le malattie tropicali, che infuriavano per via del clima malsano, e i disturbi agli occhi, altrettanto diffusi.
Anche in questo caso le donne medico non si risparmiarono, esponendosi esse stesse al rischio di contagio per curare centinaia di pazienti che nei moshavim (villaggi agricoli) non potevano contare su alcun tipo di assistenza sanitaria. Come la dottoressa Hanna Weitz, che nel 1915 contrasse la malaria a Zichron Yaakov mentre era incinta, malattia da cui riuscì a salvarsi, perdendo però il bambino che portava in grembo. L’impegno delle donne divenne presto indispensabile per portare avanti una qualche forma di assistenza sanitaria alla popolazione. Con lo scoppio della prima guerra mondiale infatti i dottori erano stati in massima parte costretti a partire per il fronte o per sostituire i dottori turchi impegnati in guerra, e gli equipaggiamenti e i medicinali a disposizione requisiti. Da una situazione così disperata, fatta di fame ed epidemie, la medicina al femminile ricevette nuovo slancio.
Il governo riconobbe alle donne la possibilità di esercitare la professione: Helena Kagan fu la prima nei territori dell’Impero turco a ottenere la licenza, in considerazione del suo eccezionale lavoro come direttore dell’ospedale municipale di Gerusalemme. Proprio la dottoressa Kagan fu protagonista di una straordinaria iniziativa nella creazione di un primo embrionale sistema di welfare. Nell’estate del 1916 l’oftalmologo Abraham Ticho era stato deportato a Damasco. Nel lasciare la sua casa, il dottor Ticho diede alla Kagan il permesso di utilizzarla insieme ai locali e all’equipaggiamento della sua clinica, e la dottoressa diede vita al Jewish Hospital for Children, con 12 posti letto e la possibilità di curare ogni giorno dai sessanta ai cento pazienti, bambini e adulti. Ma le 22 madri della sanità israeliana non confinarono la propria opera alla sola professione medica. Bathsheba Yonis e Alexandra Belkind furono tra i fondatori della Hebrew Medical Union in Eretz Israel, oggi Israel Medical Association.
Hanna Weitz diede vita al centro culturale per i nuovi migranti di Gerusalemme. Helena Kagan fu membro del Jewish National Council. A lei, durante la Guerra d’indipendenza nel 1948, fu affidata la direzione di tutti i servizi medici della città di Gerusalemme. Furono dunque attivi membri della società che costruì lo Stato ebraico, ormai all’avanguardia nel mondo per l’efficienza del sistema sanitario gratuito per tutta la sua popolazione. Che oggi deve ringraziare anche quelle 22 ragazze che scelsero di studiare medicina oltre un secolo fa. 

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, luglio 2011

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pilpul
Pubblico e privato
Tobia ZeviLa Gran Bretagna e i media internazionali sono travolti da uno scandalo senza precedenti: giornalisti ambiziosi e senza scrupoli hanno usato anni di intercettazioni telefoniche illegali per sfornare scoop a raffica, spesso con l’attivo beneplacito di pezzi delle istituzioni. Saltano direttori di testata, capi dei servizi di sicurezza, uomini politici, ieri ci è scappato anche il morto (come sottolineò Adriano Sofri, che strana espressione! Il morto è proprio l’unico a non scappare…).
Tutta la vicenda, al di là delle implicazioni giudiziarie, punta dritta a uno dei più evidenti problemi del nostro tempo: la scomparsa di qualunque diaframma tra dimensione privata e pubblica. Intendiamoci, questa trasformazione porta con sé anche elementi positivi: la maggiore trasparenza delle istituzioni, l’essere continuamente connessi, l’opportunità per chiunque, in qualunque parte del mondo, di denunciare un abuso direttamente dal proprio smartphone sono certamente straordinarie conquiste della modernità.
Ma al tempo stesso ci rendiamo conto di essere trasportati da un flusso delirante, quello dell’ultima notizia, degli affari altrui, delle intercettazioni superflue e voyeuristiche. I social network sono per la gran parte delle persone esattamente questo: guardare la vita degli altri dal buco della serratura, abolendo l’attimo del pensiero, con una sconcertante inflazione linguistica. L’«amicizia» al tempo di Facebook non rischia di essere umiliata? Un sentimento così nobile, forse il più nobile tra i sentimenti, non rischia di essere radicalmente e tristemente frainteso?
In un giorno come questo, in cui gli ebrei digiunano per ricordare eventi drammatici della loro storia, potremmo spendere un minuto su questi temi. L’ebraismo, che non concepisce una distanza tra pubblico e privato sul piano dei comportamenti, può dare un contributo alla riflessione su questo aspetto della modernità? In che modo?

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas 


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notizie flash   rassegna stampa

Il Rav Pini Dunner
e il Rav Betzion Dunner

Una rettifica con le mie scuse al testo pubblicato lunedì 18 luglio. Il Rav Pini Dunner è vivo, il fratello scomparso è Bentzion. Ringrazio Michele Cogoi per avermi segnalato l'errore.
Rav Riccardo Di Segni

Sondaggio dell'Università Ben Gurion:
Israele 'sogna' l'Unione Europea
Secondo un recente sondaggio condotto e pubblicato dall’Università Ben Gurion del Negev, effettuato su circa un migliaio di cittadini israeliani intervistati a metà giugno, la possibilità che lo Stato di Israele possa entrare a far parte dell’Unione Europea piace ai cittadini dello Stato mediorientale. Secondo lo studio addirittura l’81 per cento degli intervistati si dichiara favorevole all’ingresso nell’Unione dei 27, un consenso che è cresciuto di 12 punti percentuali negli ultimi 3 anni. Insomma, sempre più israeliani vedono di buon occhio l’Unione Europea in quanto istituzione, che macina un consenso sempre maggiore, addirittura superiore ad istituzioni internazionali “storiche” come le Nazioni Unite o la Nato, che vede anch’essa un ampio consenso per un eventuale “affiliazione”: il 68 per cento degli intervistati si dichiara favorevole all’ingresso nell’Alleanza.
 

Continua a inacidire la "primavera araba": tentato golpe islamista in Tunisia (Buffa sull'Opinione, Verrazzo su Libero), quasi linciaggio dell'ex ministro della cultura egiziano, colpevole di rapporti con ditte americane (Mastrolilli sulla Stampa) e crollo del turismo (Stabile su Repubblica), trattative americane con Gheddafi per sfuggire alla trappola della guerra (redazione del Corriere), manovre e trappole di corte in Iran (Randbar-Baemi su Europa); stragi infinite e repressione poliziesca in Siria (Battaglia su Avvenire)..
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Ugo Volli


















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