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21 luglio 2011 - 19 Tamuz 5771
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l'Unione informa
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Riccardo Di Segni
Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma


In questi giorni si svolge a Trieste il corso intensivo per i responsabili e per gli operatori dell'informazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. È stato per me un piacere conoscere direttamente la nuova leva, vivace e promettente, che in parte avvicenda il gruppo già formato. C'è un serio investimento istituzionale in un progetto che produce risultati concreti e benefici. Tutto questo suggerisce altre riflessioni. Cosa sta producendo l'ebraismo italiano in questa generazione? Rispetto ai grandi personaggi di qualche tempo fa, in diversi settori, se c'è un campo nel quale effettivamente oggi c'è una presenza di rilievo è quello del giornalismo, e l'UCEI ha capito che c'è bisogno di firme autorevoli non solo all'esterno, ma anche all'interno. Si chiama e le persone accorrono. A fronte di questo, il lato dolente è che altri settori, non meno vitali per il futuro, non sono così attraenti. Mi riferisco alla formazione di cultura tradizionale e rabbinica. Si chiama e pochissimi rispondono. Avremo tanti giornalisti e pochi rabbini. Evidentemente bisogna ripensare insieme tutto il sistema. 
Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola
Raggiunta una certa età non è facile o addirittura possibile cambiare le proprie idee, ma è possibile chiarirsi urbanamente sulle radici e le componenti del disaccordo. Così, quando Sergio Romano lunedì sul Corriere della Sera rispondendo al lettore Franco Cohen spiega, anzi giustifica, i due pesi e le due misure adottati verso Israele e la crisi siriana, non siamo d'accordo su alcuni fatti e su alcuni principi. Il primo fatto: è vero che il territorio iniziale dello Stato d'Israele è stato lungamente abitato da una popolazione indigena non ebraica, ma è altrettanto vero che è stato lungamente abitato da una popolazione indigena ebraica. Il secondo fatto: è vero che lo Stato ebraico non può trattare i palestinesi dei territori occupati come propri cittadini perché, se così facesse, metterebbe in atto un'annessione che Israele non ha mai voluto proclamare e che chiuderebbe la strada verso la soluzione dei due Stati per i due popoli che è pur sempre la più auspicabile. Ma non è vero che Israele non tratta da cittadini aventi pari diritti gli arabi palestinesi del proprio territorio nazionale. A meno che non si voglia stigmatizzare l'esenzione dal servizio militare, oppure il diritto a un sistema di pubblica istruzione in lingua araba, che a noi sembrano invece indizi di pluralismo e di liberalità. E quanto ai principi: duole sinceramente che Romano pensi che l'uccisione di un migliaio di cittadini siriani da parte del regime di Bashar al Assad "è pur sempre  una questione interna dello stato siriano". Dalla penna di un liberale si vorrebbe sgorgasse non solamente la lucida analisi sulla natura incerta delle forze in campo e sui complessi equilibri della politica, ma anche qualche goccia di sincera indignazione.

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davar
Redazione aperta - Rav Di Segni, informazione e serietà
Redazione apertaAnche quest'anno il rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni, partecipa ai lavori di Redazione aperta.
All'incontro oltre ai ragazzi del progetto erano presenti membri della Comunità e del Consiglio (nell'immagine di Giovanni Montenero il rav Di Segni assieme al presidente della Comunità di Trieste Alessandro Salonichio). Dopo i saluti e le presentazioni, il rav ha commentato i recenti fatti di cronaca
Redazione apertache hanno visto coinvolti alcuni appartenenti alla comunità capitolina. Più tardi si è parlato del ruolo che riveste un maestro all'interno della società ebraica e di come questo si sia evoluto rapidamente negli anni dal dopoguerra ad oggi. La discussione si è poi spostata sui complessi rapporti tra l'ebraismo italiano e la Santa Sede anche in vista dell'incontro interreligioso convocato ad Assisi da Papa Benedetto XVI. In conclusione si è discusso sul finanziamento ottenuto dallo Stato che consentirà la traduzione del Talmud in italiano, operazione che riaccende anche lo spinoso dibattito sulla legittimità dell'utilizzo di lingue diverse dall'ebraico per la redazione di testi religiosi.

Tommaso Bianchi


Viaggi, amori, salotti. La vita di Rahel Varnhagen
Donatella Di CesareNon si era sposata presto, come le altre, perché non era attraente, né si illudeva di esserlo. Quel suo aspetto “orientale”, l’incarnato olivastro, il nero degli occhi e dei capelli, rappresentava l’esotico a cui la tollerante Berlino di fine Settecento si riprometteva di dare cittadinanza. Dove Moses Mendelssohn, l’ebreo d’eccezione, aveva mostrato come bastasse farsi valere, essere colti, intelligenti, originali, per essere accettati e acquisire privilegi. D’altronde il padre di Rahel, il banchiere Markus Levin, era riuscito a mettere insieme un ingente patrimonio e a intrecciare una fitta rete di legami, perfino con l’aristocrazia. Come gli altri ricchi ebrei berlinesi, una ristrettissima minoranza, i Levin si erano emancipati da quelle che consideravano antiquate consuetudini e vecchie forme di vita ebraica che la ragione universale, il nuovo credo europeo, sembrava rendere superflue. Avevano lasciato le superstizioni ai Betteljuden, agli ebrei che mendicavano per le strade di Berlino, o ai loro parenti rimasti nel mondo arretrato della Slesia orientale. Per Markus Levin il sigillo del successo sarebbe stato impresso dal matrimonio della sua primogenita con un nobile tedesco. Ma Rahel, testarda e appassionata, aveva preso tutto alla lettera. La dote su cui voleva puntare era quella sua straordinaria capacità di capire, e di aiutare gli altri a capirsi, che avrebbe potuto dispiegare nelle lettere destinate a interlocutori prescelti oppure esibire nel dialogo aperto, disinibito, senza pregiudizi, quasi spregiudicato. Aveva diciannove anni quando, nel 1790, inaugurò il suo primo “salotto” nella mansarda della casa paterna. I nomi della Berlino colta non tardarono a bussare alla sua porta. Per lei non era una sorpresa: già da tempo Alexander von Humboldt le scriveva lettere in caratteri ebraici. Era per dirle quanto prediligesse la “compagnia di donne ebree”, senza renderlo noto a tutti. Ma che cos’era un “salotto”? Nulla di mondano. I salotti berlinesi godevano di una extraterritorialità. Le regole della rappresentanza erano sospese, i ruoli sociali tralasciati, le differenze di classe annullate. In quei nuovi spazi di libertà, sottratti alla storia, si provavano a inventare inedite forme di vita, ad anticipare il futuro, a fiutare le uguaglianze promesse. Erano utopie che interrompevano la noia quotidiana. Ci si ritrovava, dal pomeriggio a notte tarda, con il gusto per l’individualità colta, con la disposizione a scoprire e a farsi scoprire, con il desiderio di discutere del mondo e del suo inaccettabile ordine. Non stupisce che ad animare quei luoghi avventurosi fossero affascinanti e tormentate figure di ebree. Si presentavano, all’esordio della modernità, sommando in sé tante differenze. Erano pronte a liberarsene, spinte da un’eccentrica volontà di emancipazione. Ma per essere ammesse, per entrare nella storia, si chiedeva loro di assumere la storia di chi giurava di accettarle. Rahel, la “piccola Levin”, se non poteva contare su una bellezza erotica, era maestra nell’arte del dialogo. Da sola si era messa a studiare: letteratura, arte, filosofia, musica. Aveva appreso una lingua dopo l’altra. Quale uomo avrebbe resistito a quella fine accoglienza fatta di parole, all’audacia delle sue “verità da mansarda”? Non capiva che le sue molte virtù incutevano timore: gli uomini apprezzavano la costruita fragilità che si lasciava spezzare dal fascino virile per trasformarsi in quella robusta domesticità che li avrebbe governati. A partire dal 1795 viaggiò attraverso l’Europa intellettuale del tempo. Si legò dapprima a un nobile tedesco, poi a uno spagnolo. Il matrimonio non sembrava adatto a lei; di quel contratto poteva fare a meno. Purché non venisse meno la passione ardente e la complicità intellettuale. Ma il naufragio non smetteva di minacciarla. Indifesa e ribelle, pronta per recitare un ruolo che non era stato ancora scritto, lasciava che, dopo ogni sconfitta, la vita la colpisse, “come il cattivo tempo chi non ha ombrello”. E assecondando il desiderio di assimilazione, cambiò più volte nome. Sostituì Levin con Robert; poi, quando decise di farsi battezzare, nel 1814, diventò Friederike Antonie Robert e, dopo il matrimonio, all’età di 43 anni, prese il nome del marito Varnhagen. Trovò presso di lui un asilo temporaneo, mentre il mondo intorno a lei tornava a mostrare l’odio covato verso Rahel, l’ebrea. Si sentì sempre una Schlemihl, perseguitata dalla cattiva sorte, dal peso di un’esistenza scandita dalla chimera di un’autenticità impossibile, continuamente in bilico – come l’ha descritta Hannah Arendt – tra il ripiegamento della parvenue e la rivolta consapevole della paria, simbolo al femminile di un’ebraicità che resisteva oltre l’assimilazione per testimoniare, se non l’altro, il fallimento di quel sogno. Sul suo letto di morte confessò: “Per tanto tempo, nella mia vita, essere nata ebrea ha costituito l’onta più grande, il dolore più atroce, la condanna più amara; a questo, ora, non voglio a nessun costo rinunciare”.

Donatella Di Cesare, Pagine Ebraiche, luglio 2011

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pilpul
Marche da bollo
Il Tizio della SeraUn’altra giornata è conclusa. Dato che la notizia di cui il Tizio della Sera è appena venuto a conoscenza riguarda l’imminente asta editoriale per i diari di Mengele, e la notizia è stata incamerata mentre il Tizio stava per affrontare l’amata pasta alla checca, notoriamente un primo piatto romano a base di mozzarella, pomodoro a crudo e basilico, ma essendo la mozzarella in questione un fior di latte molisano, quello che segue è il resoconto di un microtrauma domestico  all’ora di cena, essendo che i ricordi di un’immensa carriera criminale sono un immenso business e i ricordi di una persona qualunque oblio da quattro soldi.  E quando il nostro sente al giornale radio -  la sera il Tizio sente le notizie perché se le vede poi non dorme - dell’asta editoriale inizia a tossire sia per il fatto di Mengele che per il peperoncino calabrese che lui metterebbe anche sulle meringhe (una volta lo ha fatto con grande soddisfazione). Dopo aver bevuto un sorso di birra fresca e aver calmato la tosse, il Tizio prende a domandarsi in base a quale criterio verrà battuto all’asta il prezzo iniziale dei diari. Nessuno conosce l’opera, riflette il Tizio: e se poi non facesse venire gli incubi come tutti sperano? La domanda su quale criterio fonderà il valore economico dei diari potrebbe avere risposta andando in Rete, guardando sull’enciclopedia, chiedendo a quel suo amico che fa lo storico - ma purtroppo ricomincia a tossire. Mengele gli fa questo effetto. E dire che non è così con altri cognomi come Mariottelli, Gonfiantini, o La Carota del terzo piano.  Con Mengele è diverso, non c’è la stessa confidenza che con Rodolfo Gonfiantini che gli presta sempre le uova.  C’è da dire che purtroppo il Tizio non è consapevole di niente che lo riguardi, come l’esistenza della gigantesca paura che sta accovacciata dentro di lui e si vede dal suo sorriso storto. E anche se tutti dicono che quello psicopatico di Menghele è affogato trentatré anni fa nell’Atlantico a pochi metri dalla riva brasiliana, il Tizio non è sicuro che quello sia morto: potrebbe essere sopravvissuto ingoiando una medusa gigante e rimanendo a galla per decenni con tutta la dose tossica intatta. Ma il Tizio continua a non capire quale possa mai essere il criterio che definisce il valore economico dei diari di Josef Mengele. E’ vero che si tratta di un materiale storico, ma qualcosa gli suggerisce che il parametro sia quanto la psicanalisi chiama perversione e dunque il mercato prodotto, cioè vendere cosa pensasse quello mentre faceva l’impossibile sui corpi di uno stellare numero di esseri umani vivi. Mentre se oggi un tedesco che di cognome faccia Goethe, proponesse il suo diario agli editori di Mengele, verrebbe filtrato al telefono da una solerte redattrice. 

-  Pronto. Sono Porno 180. Lei si chiama?
-  Goethe.
-  Come?
-  Goethe.
- Gatto? Era meglio Topo.
- Goethe!
- Mamma mia, perché non si fa chiamare Melanio?
- No no, mi chiamo Goethe.
- Ghetto? Peggio mi sento.
- No. Goethe.
- Ciccio, fammi lo spelling.
- Goethe: gi come Giotto, poi o tonda come il famosa tondo di Giotto…
- Senti, deciditi: o Ghetto o Gotta!   
- Veramente mi chiamo Goethe.
- Ohhh, e ci voleva tanto? Lince.
- No: Goethe.
- Vabbè: Ceffo. Casomai al momento di stampare vediamo in questura. E allora, di che parla l’opera?
- Il titolo sarebbe “Le affinità elettive”…
- Eh?!…Ma ti sembra un titolo “Le affinità elettive”?  Rogo è un titolo, Mutande è un titolo, Testa di rana è un titolo, Il mio flipper è nato a Malaga, è un titolo. “Le affinità elettive” è una risciacquatura di nocciole. Di che parla questa sleppa?
- Ecco, sarebbe la storia di due coppie che…
- …Due coppie …finalmente roba. Chi sono?
- Edoardo, Carlotta, Ottilia e il Capitano.
- Perfetto. Hanno un telefono, l’email, o le trovo su Facebook?
- No, si svolge tutto in un’epoca in cui il telef…
- Va beh, niente telefono. Target?
-  Come sarebbe target?
- Sì, l’opera a che tipo di maniaco si rivolge?
- Che?
- Feticisti, coreani che si legano al letto con le manette a molla…capito?
- No. Mi spieghi.
- Ascolta nonno, questa Carlotta, il Capitano che fanno nel libro?...Odorano le pantofole, si pettinano con le tibie di un santo, si spalmano la panna cotta sulla nuca?
- No, proprio per niente. 
- Ossignore, ma che è un libro di scuola?
- No, è un rom…
- Zingari???…No zingari e sionisti no, piuttosto 500 pagine su Lampedusa.
- Senta io ho scritto un romanzo, e lo capirebbe se mi facesse finire.
- Romanzo?…Un romanzo?!!...Che palle…Sentiamo un po’…muore qualcuno durante la prima copula, incendiano la casa…il garage…la baracca, il cassonetto, la panchina…
- No.
- Prende fuoco il pigiama?
- No.
- Impiccano la sorella?
- No.
- Il cugino del Capitano crepa?
- No.
- Sbucciano la madre in un pentolone d’acqua calda?
- No.
- Ghetto, ma lei dove vive!
- Abito a Weimar.
- Wei che?
- Weimar, Germania.
- Cosa, lei è tedesco?
- Sì.
- Eccezionale. Poteva dirlo prima! Non è che ha scritto un diario?
- Non esattamente.
- Comunque, se è tedesco, spero almeno che la sua sia roba nazi. 
- Nazi?
- Crudeltà gratuita, strapotere, eccidi come se piovesse, superiorità e molto sentimento acefalo.
- No. E’ un romanzo e in un certo senso è un’opera spirituale.
- Senti, noi collo spirito ci stropicciamo le mele.
- La frutta?
- No, il retro.
- Davvero?
- Sì. La saluto.
- Aspetti, se vi interessasse questa mia opera, potremmo incontrarci…ho i primi cinque capitoli…li ho appena scritti…
- Senti questa è una casa editrice, non il patataio. 
- Come sarebbe?
- Se vogliamo pubblicare scrittori geniali, prima di lei c’è lo zio di Avetrana.
 
Mussolini, ha detto a Montecitorio la Alessandra che lavora lì senza una ragione vera e propria dato che non si occupa della manutenzione dei sedili, è stato condannato senza un regolare processo. Mentre le leggi razziali, la soppressione dei sindacati, le deportazioni, le fucilazioni, l’assassinio di Matteotti, il confino ai dissidenti, la campagna di Russia e la guerra in Etiopia hanno utilizzato la regolare marca da bollo.  
Ci si potrebbe fare un best seller. 

Il Tizio della Sera

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notizieflash   rassegna stampa
"Non giudicate mio nonno"
scontro Fiano-Mussolini 
  Leggi la rassegna

Scontro alla Camera tra Emanuele Fiano, deputato Pd, la cui famiglia è stata vittima della Shoah, e Alessandra Mussolini (Pdl) sulla figura di Benito Mussolini. “È stato un assassino” ha affermato l’esponente del Partito Democratico. Immediata la reazione della nipote del Duce: “Non accetto che si dia un giudizio su mio nonno massacrato a piazzale Loreto, senza un processo! Nessuno, in quest’Aula, si deve permettere di chiamare assassino mio nonno del quale ho dato il cognome ai miei tre figli”. Fiano ha replicato: “Faccio forza sulla storia della mia famiglia e di mio padre, arrestato dalla Milizia fascista all’inizio dell’anno 1944, deportato poi e prima incarcerato nel carcere delle Murate di Firenze, deportato nel lager nazista di Auschwitz-Birkenau, insieme alla madre e al padre (che sono i miei nonni, che non ho mai visto)”.
 
 
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