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I rabbini e i
giornalisti
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L’alternativa posta da rav Di Segni fra giornalisti e
rabbini, ripresa poi da vari altri interventi, non è l’unica soluzione
possibile. Si potrebbe anche pensare a una figura di
giornalista-rabbino. O di rabbino-giornalista. Non sarebbe la prima
volta. Uno dei rabbini più famosi, importanti e prolifici
(letterariamente parlando) del Novecento fu Dante Lattes, che da
giovane rabbino appena laureato divenne redattore del giornale
triestino Corriere Israelitico (e forse non è un caso che questo
dibattito sia nato nei giorni scorsi proprio a Trieste). Nel giro di
pochi anni ne diventò condirettore, grazie anche al fatto di aver
sposato la figlia del direttore precedente, A. Curiel. Dalle pagine del
Corriere Dante Lattes combatté diverse battaglie giornalistiche, spesso
infruttuose, come lui stesso disse, ma che sicuramente smossero le
acque dell’ebraismo italiano dell’epoca. E quando nel 1915 il Corriere
Israelitico di Trieste si fuse con la Settimana Israelitica di Firenze,
che ruotava attorno al rabbino Margulies, nacque il glorioso giornale
Israel, con l’annessa Rassegna Mensile di cui Dante Lattes sarebbe
diventato direttore.
Ma il rabbino Lattes (che per chi non lo sapesse è il nonno di Amos
Luzzatto) non era triestino di nascita. Veniva infatti da Pitigliano e
aveva studiato al Collegio Rabbinico di Livorno, niente meno che con
Rav Elia Benamozegh. La cosa sorprendente è che a cavallo dei due
secoli passati c’era un altro giornale ebraico molto letto e diffuso,
il Vessillo Israelitico, di area piemontese (altra zona calda dal punto
di vista giornalistico, come vediamo in questi giorni). La direzione
del Vessillo si era spostata da Vercelli (dove la rivista si chiamava
L’Educatore Israelita) a Casale Monferrato, perché lì era rabbino capo
il nuovo direttore, il rav Flaminio Servi, un rabbino molto noto e
influente nell’Ottocento. Quello che Dante Lattes fu nel Novecento, dal
punto di vista dell’attività giornalistica ebraica, Flaminio Servi lo
fu nel secolo prima. La sorpresa sta nel fatto che Servi non era
piemontese di nascita, ma era nato anche lui a Pitigliano, alcune
decine d’anni prima di Lattes. Che ci sia nella cittadina arrampicata
sulle colline toscane un’atmosfera particolare che predisponga al
giornalismo rabbinico (o al rabbinato giornalistico)? In fondo, non a
caso Pitigliano era chiamata “la Piccola Gerusalemme”. Forse, come
l’aria della terra d’Israele si dice renda saggi, anche il pezzetto di
Gerusalemme in suolo italico possiede qualità benefiche. Si potrebbe
magari organizzare un seminario giornalistico-talmudico nei locali
annessi alla Sinagoga pitiglianese restaurata alcuni anni fa.
Potrebbero magari venire allievi del Collegio rabbinico (di Roma, di
Livorno, di Torino ecc.) e i giovani redattori di Pagine Ebraiche: non
è una battuta, è un’idea seria.
rav
Gianfranco Di Segni, coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano
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Cambi di moda
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In
un lungo servizio sulla famigerata barriera difensiva di Israele
(ovviamente, come sempre, chiamata “muro”, parola scritta nel titolo a
caratteri enormi, per dare, anche dal punto di vista grafico, l’idea di
qualcosa di gigantesco e terribile) apparso su “Sette” del 16 giugno,
corredato dai soliti commenti (“alto fino a 8 metri, il doppio di
quello di Berlino”, tangibile sanzione del “divorzio tra due popoli”,
“una barriera anche nella testa della gente” ecc.: questi articoli, in
genere, sono tutti uguali) compare una piccola, sorprendente
affermazione, che suscita diverse, contrastanti reazioni. Nel
denunciare il sopruso della barriera, Saeb Erekat, noto negoziatore
palestinese dell’era Arafat, afferma, infatti, che, se è vero che gli
attentati, dopo l’erezione della cintura difnsiva, sono diminuiti, ciò
non sarebbe una conseguenza della stessa, ma si spiegherebbe
semplicemente col fatto che “i palestinesi hanno deciso di non farli
più”. Ma guarda, mi sono detto. Che strana coincidenza. Nello
stesso momento in cui i kamikaze non possono passare, gli passa la
voglia. Davvero singolare. O forse no, è un comportamento umano molto
consueto, da sempre, basti pensare alla favola della volpe e dell’uva.
L’uva era acerba, gli attentati non piacciono più, è esattamente lo
stesso. Forse la medesima cosa accade anche con le prigioni: i detenuti
non escono non perché impossibilitati a farlo, ma perché hanno tutti
deciso di non farlo. Vai a sapere. Comunque, ho pensato, Erekat
è un galantuomo, non c’è motivo di dubitare della sua parola, e quindi
il muro non serve, perché i palestinesi – l’ha detto lui, perché non
credergli? – di attentati non ne faranno più. E’ stato deciso:
contrordine, compagni, niente più attentati. Però, ho ancora
riflettuto, questi palestinesi sono un po’, come dire, dispettosi. Uno
si impegna in un lavoro così faticoso e impegnativo, spende un sacco di
soldi per raggiungere un risultato che riteneva importante, e poi,
appena ha finito, lo sforzo diventa improvvisamente inutile.
“Sciocchino, hai lavorato per niente”. Mi ricorda tanto quel mio
compagno di classe invidioso che, avendo io passato molto tempo a fare
certi compiti a casa, mi fece notare che avevo sbagliato l’‘assegno’, e
dovevo fare tutto daccapo. Sembrava tutto contento, davvero antipatico.
Ma più che dispettosi, forse, sono imprevedibili. Tutte le
persone, però, in fondo, cambiano, non è che se uno ha fatto una certa
cosa per anni poi deve continuare a farla per sempre. Prima gli
attentati piacevano, ora non più. Le mode cambiano: un tempo, per
esempio, andavano i “capelloni”, o i pantaloni “a zampa d’elefante”, ma
tutto passa. E’ inutile chiedersi il motivo di questo cambio di idea, o
di tendenza, Erekat non ce lo dice, evidentemente non lo sa. E’
difficile dire perché una moda cambia. Comunque, quel che è
certo, dalle parole di Erekat, è che il muro, oltre che cattivo, è
anche inutile, perché tanto attentati non ce ne sarebbero in ogni caso.
Quindi, tanto vale abbatterlo. Resta solo un ultimissimo,
piccolissimo dubbio. Prima, quando gli israeliani erano un po’ meno
cattivi (ossia “senza muro”), i palestinesi facevano gli attentati,
poi, appena sono diventati più cattivi (“con muro”), hanno smesso. Non
è che, se tornano a essere meno cattivi, i loro vicini cambiano idea di
nuovo? Verrebbe voglia di chiederlo a Erekat, ma si tratta,
probabilmente, di un dubbio sciocco, diffidente, malevolo. E, in fin
dei conti, ove mai, sciaguratamente, ciò dovesse accadere, si
tratterebbe soltanto di un ennesimo – e, come sempre, effimero - cambio
di moda.
Francesco Lucrezi, storico
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KKL e Israele celebrano il Centocinquantenario
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Un
ulivo centenario come simbolo di amicizia, pace e fratellanza tra i due
paesi. È questo il dono che la fondazione Keren Kayemen Lelsrael Italia
e lo Stato di Israele faranno domani a Roma Capitale per i 150 anni
dell’Unità d’Italia. La cerimonia per la piantumazione dell'ulivo si
svolgerà alle 19.00 in via dei Fori Imperiali. Parteciperanno tra gli
altri il presidente nazionale della Fondazione Keren Kayemet Lelsrael
Italia Onlus Raffaele Sassun, l’ambasciatore d'Israele in Italia Gideon
Meir e il sindaco di Roma Gianni Alemanno.
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Nei giorni nei quali non vi
sono episodi di particolare importanza (e verrebbe quasi spontaneo
considerarli fortunati), i giornali si occupano di tante questioni tra
le quali i lettori possono scegliere quelle di loro maggiore interesse.
L’orchestra israeliana ha scelto autonomamente di suonare a Bayreuth
un’opera del grande compositore, e Giulio Meotti analizza per i lettori
del Foglio
questa novità; dopo il concerto del 1938
diretto a Gerusalemme da Toscanini, quasi mai la musica di Wagner venne
suonata in Israele, dove tuttavia nessuno nega la grandezza del
compositore...»
Emanuel Segre Amar
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