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27 luglio 2011 - 25 Tamuz 5771
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Adolfo Locci Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova

La Parashà di Mas'è, l'ultima del libro di Bemidbar, si legge sempre nel periodo tra il 17 di Tamuz e il 9 di Av (Ben Hamezarim). Forse per il fatto che la Parashà, tra gli altri argomenti, parla delle 42 tappe del viaggio dall'Egitto verso Eretz Israel e della spartizione della terra tra le 12 tribù, e ciò può essere di conforto in questo periodo di lutto per la distruzione del Tempio e il conseguente esilio. Ricordare le 42 tappe del percorso fatto dai nostri padri nel deserto è un simbolo per riflettere sulla nostra condizione di "esiliati" mentre leggere dell'arrivo alle soglie di Eretz Israel e della spartizione della terra tra le tribù, può instillare quella speranza, fondamentale, che "alla fine" anche il nostro esilio finirà. Tuttavia, ognuno può sempre contribuire, con le proprie forze, ad abbreviare l'attesa...
 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
La nostra attenzione non può che essere attratta dagli eventi di Oslo. Alla notizia si è subito scatenata la caccia all’islamico e con essa sono ripartite le diagnosi sull’incompatibilità fra l’Islam e i valori occidentali già sentite infinite volte in questi anni. Invece, era proprio il contrario: l’attentatore viene definito come un fondamentalista cristiano che ha voluto colpire al cuore quel modello multiculturale criticato dalle destre europee. Con ciò, non ci metteremo a insistere sulle conseguenze delle politiche xenofobe che alimentano gesti folli e assassini, perché non faremmo altro che agire specularmene alla chiacchiera sul buonismo e sulla tolleranza senza limite cui da tempo assistiamo. Nessuno nega la difficoltà della relazione e la necessità di stabilire nuovi modelli relazionali. Però, visto che noi esseri umani dobbiamo trovare un senso all’incomprensibile, speriamo che questi atti terroristici, a fianco alle novità che il mondo arabo ha espresso in questi ultimi mesi, scrivano la parola fine alla folle politica della contrapposizione, sorretta da improbabili teorie di scontro di civiltà, sviluppatasi in questi anni. Un tema che riguarda da vicinissimo il mondo ebraico. Cito da un’intervista alla scrittrice norvegese Anne Holt apparsa su “la Repubblica” sabato 23 luglio, quando si pensava ancora alla matrice islamica: “Da circa dieci, quindici anni gli immigrati, anche quelli di seconda, terza generazione, hanno crescenti problemi a trovare alloggi e lavoro. E sono sempre più attaccati verbalmente. Ma non sono i soli. È un’avversione per l’Altro più ampia, che colpisce, per esempio, anche le poche migliaia di ebrei che vivono da decenni nel Paese”.

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davar
Redazione aperta - Giornalismo e cultura
Redazione apertaCome scegliere un titolo? Qual è il giusto “attacco” per un articolo? Sono alcune delle domande a cui Guido Vitale, direttore del dipartimento Informazione e Cultura dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha risposto nella nona giornata di Redazione aperta. Dopo una mattina di saluti per alcuni, i lavori sono continuati come sempre, o quasi. La Redazione apertalezione si è svolta regolarmente, ma in una  location completamente diversa dalla colonia di Opicina: un delizioso bar nel centro di Trieste, vicino all’hotel Savoia Excelsior. Qui è stato presentato il primo libro di Beniamino Pagliaro: Trieste, la bella addormentata. Il 24enne giornalista triestino iscritto alla Comunità ebraica locale ha intrapreso una sfida ambiziosa vista anche la sua giovane età. Redazione apertaNumerose le persone presenti. Sono intervenuti gli ultimi tre sindaci triestini, protagonisti del ventennio politico descritto da Pagliaro in una “storia della politica, dei politici, del potere di una città che si piace troppo per poter cambiare”. Tra le piccole capitali la più bella, tra le piccole capitali la più bambina: così l’autore descrive la città di confine.
Trieste sarà anche una “bella e addormentata”, eppure offre attività culturali interessanti, come la rassegna cinematografica Da Hitler a Casablanca via Hollywood: cineasti ebrei in fuga dal nazismo. Ieri sera è stato proiettato Scandalo internazionale, film del 1948 diretto da Billy Wilder con la splendida icona degli anni
Redazione apertaQuaranta Marlene Dietrich. Insolito il luogo scelto per il festival cinematografico: il comprensorio dell'ex Ospedale Psichiatrico Provinciale al Parco di San Giovanni, scenario un tempo della straordinaria rivoluzione psichiatrica operata da Franco Basaglia.
È stata un'occasione per vedere un film e anche per comprendere come la società abbia concepito e trattato la diversità in momenti differenti nella storia.
Tra lezioni all’aperto, presentazioni di libri e rassegne cinematografiche, Redazione aperta si è dimostrata davvero aperta a tutto, non solo al giornalismo.

Sara Pavoncello

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I rabbini e i giornalisti
Gianfranco Di SegniL’alternativa posta da rav Di Segni fra giornalisti e rabbini, ripresa poi da vari altri interventi, non è l’unica soluzione possibile. Si potrebbe anche pensare a una figura di giornalista-rabbino. O di rabbino-giornalista. Non sarebbe la prima volta. Uno dei rabbini più famosi, importanti e prolifici (letterariamente parlando) del Novecento fu Dante Lattes, che da giovane rabbino appena laureato divenne redattore del giornale triestino Corriere Israelitico (e forse non è un caso che questo dibattito sia nato nei giorni scorsi proprio a Trieste). Nel giro di pochi anni ne diventò condirettore, grazie anche al fatto di aver sposato la figlia del direttore precedente, A. Curiel. Dalle pagine del Corriere Dante Lattes combatté diverse battaglie giornalistiche, spesso infruttuose, come lui stesso disse, ma che sicuramente smossero le acque dell’ebraismo italiano dell’epoca. E quando nel 1915 il Corriere Israelitico di Trieste si fuse con la Settimana Israelitica di Firenze, che ruotava attorno al rabbino Margulies, nacque il glorioso giornale Israel, con l’annessa Rassegna Mensile di cui Dante Lattes sarebbe diventato direttore.
Ma il rabbino Lattes (che per chi non lo sapesse è il nonno di Amos Luzzatto) non era triestino di nascita. Veniva infatti da Pitigliano e aveva studiato al Collegio Rabbinico di Livorno, niente meno che con Rav Elia Benamozegh. La cosa sorprendente è che a cavallo dei due secoli passati c’era un altro giornale ebraico molto letto e diffuso, il Vessillo Israelitico, di area piemontese (altra zona calda dal punto di vista giornalistico, come vediamo in questi giorni). La direzione del Vessillo si era spostata da Vercelli (dove la rivista si chiamava L’Educatore Israelita) a Casale Monferrato, perché lì era rabbino capo il nuovo direttore, il rav Flaminio Servi, un rabbino molto noto e influente nell’Ottocento. Quello che Dante Lattes fu nel Novecento, dal punto di vista dell’attività giornalistica ebraica, Flaminio Servi lo fu nel secolo prima. La sorpresa sta nel fatto che Servi non era piemontese di nascita, ma era nato anche lui a Pitigliano, alcune decine d’anni prima di Lattes. Che ci sia nella cittadina arrampicata sulle colline toscane un’atmosfera particolare che predisponga al giornalismo rabbinico (o al rabbinato giornalistico)? In fondo, non a caso Pitigliano era chiamata “la Piccola Gerusalemme”. Forse, come l’aria della terra d’Israele si dice renda saggi, anche il pezzetto di Gerusalemme in suolo italico possiede qualità benefiche. Si potrebbe magari organizzare un seminario giornalistico-talmudico nei locali annessi alla Sinagoga pitiglianese restaurata alcuni anni fa. Potrebbero magari venire allievi del Collegio rabbinico (di Roma, di Livorno, di Torino ecc.) e i giovani redattori di Pagine Ebraiche: non è una battuta, è un’idea seria.

rav Gianfranco Di Segni, coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano

Cambi di moda
Francesco LucreziIn un lungo servizio sulla famigerata barriera difensiva di Israele (ovviamente, come sempre, chiamata “muro”, parola scritta nel titolo a caratteri enormi, per dare, anche dal punto di vista grafico, l’idea di qualcosa di gigantesco e terribile) apparso su “Sette” del 16 giugno, corredato dai soliti commenti (“alto fino a 8 metri, il doppio di quello di Berlino”, tangibile sanzione del “divorzio tra due popoli”, “una barriera anche nella testa della gente” ecc.: questi articoli, in genere, sono tutti uguali) compare una piccola, sorprendente affermazione, che suscita diverse, contrastanti reazioni.
Nel denunciare il sopruso della barriera, Saeb Erekat, noto negoziatore palestinese dell’era Arafat, afferma, infatti, che, se è vero che gli attentati, dopo l’erezione della cintura difnsiva, sono diminuiti, ciò non sarebbe una conseguenza della stessa, ma si spiegherebbe semplicemente col fatto che “i palestinesi hanno deciso di non farli più”.
Ma guarda, mi sono detto. Che strana coincidenza. Nello stesso momento in cui i kamikaze non possono passare, gli passa la voglia. Davvero singolare. O forse no, è un comportamento umano molto consueto, da sempre, basti pensare alla favola della volpe e dell’uva. L’uva era acerba, gli attentati non piacciono più, è esattamente lo stesso. Forse la medesima cosa accade anche con le prigioni: i detenuti non escono non perché impossibilitati a farlo, ma perché hanno tutti deciso di non farlo. Vai a sapere.
Comunque, ho pensato, Erekat è un galantuomo, non c’è motivo di dubitare della sua parola, e quindi il muro non serve, perché i palestinesi – l’ha detto lui, perché non credergli? – di attentati non ne faranno più. E’ stato deciso: contrordine, compagni, niente più attentati.
Però, ho ancora riflettuto, questi palestinesi sono un po’, come dire, dispettosi. Uno si impegna in un lavoro così faticoso e impegnativo, spende un sacco di soldi per raggiungere un risultato che riteneva importante, e poi, appena ha finito, lo sforzo diventa improvvisamente inutile. “Sciocchino, hai lavorato per niente”. Mi ricorda tanto quel mio compagno di classe invidioso che, avendo io passato molto tempo a fare certi compiti a casa, mi fece notare che avevo sbagliato l’‘assegno’, e dovevo fare tutto daccapo. Sembrava tutto contento, davvero antipatico.
Ma più che dispettosi, forse, sono imprevedibili. Tutte le persone, però, in fondo, cambiano, non è che se uno ha fatto una certa cosa per anni poi deve continuare a farla per sempre. Prima gli attentati piacevano, ora non più. Le mode cambiano: un tempo, per esempio, andavano i “capelloni”, o i pantaloni “a zampa d’elefante”, ma tutto passa. E’ inutile chiedersi il motivo di questo cambio di idea, o di tendenza, Erekat non ce lo dice, evidentemente non lo sa. E’ difficile dire perché una moda cambia.
Comunque, quel che è certo, dalle parole di Erekat, è che il muro, oltre che cattivo, è anche inutile, perché tanto attentati non ce ne sarebbero in ogni caso. Quindi, tanto vale abbatterlo.
Resta solo un ultimissimo, piccolissimo dubbio. Prima, quando gli israeliani erano un po’ meno cattivi (ossia “senza muro”), i palestinesi facevano gli attentati, poi, appena sono diventati più cattivi (“con muro”), hanno smesso. Non è che, se tornano a essere meno cattivi, i loro vicini cambiano idea di nuovo? Verrebbe voglia di chiederlo a Erekat, ma si tratta, probabilmente, di un dubbio sciocco, diffidente, malevolo. E, in fin dei conti, ove mai, sciaguratamente, ciò dovesse accadere, si tratterebbe soltanto di un ennesimo – e, come sempre, effimero - cambio di moda.

Francesco Lucrezi, storico

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KKL e Israele celebrano il Centocinquantenario
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Un ulivo centenario come simbolo di amicizia, pace e fratellanza tra i due paesi. È questo il dono che la fondazione Keren Kayemen Lelsrael Italia e lo Stato di Israele faranno domani a Roma Capitale per i 150 anni dell’Unità d’Italia. La cerimonia per la piantumazione dell'ulivo si svolgerà alle 19.00 in via dei Fori Imperiali. Parteciperanno tra gli altri il presidente nazionale della Fondazione Keren Kayemet Lelsrael Italia Onlus Raffaele Sassun, l’ambasciatore d'Israele in Italia Gideon Meir e il sindaco di Roma Gianni Alemanno.

 

Nei giorni nei quali non vi sono episodi di particolare importanza (e verrebbe quasi spontaneo considerarli fortunati), i giornali si occupano di tante questioni tra le quali i lettori possono scegliere quelle di loro maggiore interesse. L’orchestra israeliana ha scelto autonomamente di suonare a Bayreuth un’opera del grande compositore, e Giulio Meotti analizza per i lettori del Foglio questa novità; dopo il concerto del 1938 diretto a Gerusalemme da Toscanini, quasi mai la musica di Wagner venne suonata in Israele, dove tuttavia nessuno nega la grandezza del compositore...»

Emanuel Segre Amar











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