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7  agosto 2011 - 7 Av 5771
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
 
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Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

Il plurale di uomo, in ebraico, è anashim invece di ishim; sarebbe in realtà quest'ultima la forma plurale corretta del singolare ish. Un gruppo di uomini non è dunque la semplice somma di tanti individui: è piuttosto una identità nuova e diversa, difficile da gestire. È questa difficoltà che Mosè ricorda all'inizio della parashah di Devarim

David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Non so se la professione del giornalista sia molto pericolosa, divertente, affascinante, oppure gaglioffa, come sembra ritenere Giampaolo Pansa nel suo ultimo libro. Di tutta la discussione sollevata su queste pagine mi sfugge il senso. Forse, l’unico modo per darle un contenuto è parlare intorno ai propri deficit. Che cosa mi aspetto da chi pratica la mia professione, ovvero da uno storico? Almeno due cose: 1. Che sia in grado di rendere chiara la complessità della ricostruzione del passato, delle motivazioni e delle convinzioni di tutti gli attori sul campo. 2. Che un lettore, dopo la lettura delle sue pagine, sia nella condizione di saperne consapevolmente di più, e di avere tutti gli elementi per maturare un suo giudizio in autonomia, e perciò anche divergente da chi ha scritto. In breve mi aspetto che uno storico svolga una funzione non solo di conoscenza maggiore, ma anche di autonomia maggiore. E’ ciò che spesso non mi convince di come scrivono e argomentatano gli storici (compreso me). E questo è uno dei motivi che mi fanno pensare che ci sia oggi una profonda crisi della mia professione e della sua funzione pubblica. Da qualsiasi professione che abbia a che fare con la comunicazione del sapere e con la costruzione di una maggior consapevolezza di se’ (e dunque anche dal giornalista e dal rabbino) ho le stesse pretese e mi aspetto che risponda agli stessi principi.

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davar
I rabbini, i giornalisti. Uno sguardo all'orizzonte
Redazione apertaLa più giovane collega arrivata in redazione mi ha mostrato l'altro giorno con una certa fierezza il tesserino rosso che segna il suo ingresso nell'albo dei giornalisti professionisti dell'Ordine  professionale posto a tutela della nostra categoria. L'oggetto che molti colleghi dimenticano spesso in fondo a un cassetto della scrivania o lasciano in qualche recondito taschino della giacca buona per le occasioni formali di per sè in tanti anni non è cambiato. Quando me l'anno consegnato dopo aver sostenuto l'esame per l'abilitazione professionale ero ancora il felice possessore di una Olivetti Lettera 22 di seconda mano. Inutile ricordare che non si usavano i telefoni cellulari, le stampanti, Internet, skype e tante altre diavolerie che si dice abbiano reso più semplice e immediato (ma non necessariamente migliore) il nostro lavoro. Ho preso così in mano per un attimo il tesserino rosso di Rossella  Tercatin (il mio, lo confesso, non mi ricordo più dove si è cacciato) abbandonandomi a qualche riflessione e cercando di tenere a bada le nostalgie che quando si smette di essere giovani sono sempre in agguato. In fondo questo tesserino rivestito di cuoio, ancora scritto a mano al suo interno, con le caselle incolonnate e pronte a ospitare i bollini annuali di convalida, resta uno dei pochi segni tangibili che continuano a legarci alle origini della nostra esperienza di giornalisti italiani. Abbiamo un Ordine professionale e un'associazione sindacale che tiene sostanzialmente unita la categoria, un autonomo istituto di previdenza,  una Cassa sanitaria integrativa. Istituzioni forse superate, non sempre adeguate, ma anche importanti per continuare a fare questo lavoro con un minimo di dignità in una realtà difficile come la nostra. E continuiamo a batterci perché nuovi giovani possano trovare una strada nella professione giornalistica, condividere con noi le conquiste che, in mezzo a mille contraddizioni e fra tante cadute di credibilità, i giornalisti italiani sono stati in grado di mettere assieme in questi ultimi cento anni di vita professionale organizzata. Redazione apertaQuella tessera rossa che ci viene consegnata al momento della prova di abilitazione professionale, i praticanti che sono cresciuti in redazione se la sono conquistata, al pari di tanti giornalisti italiani che in mezzo a mille difficoltà hanno scelto di fare questo lavoro. Così il grande numero di giovani partecipanti ospiti della terza edizione di Redazione aperta, il laboratorio di lavoro giornalistico che ogni estate riunisce a Trieste i giornalisti e i collaboratori del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it testimonia il grande interesse che il lavoro giornalistico suscita fra le giovani generazioni, ma anche il nostro augurio di ripetere presto l'esperienza  di nuovi praticantati giornalistici. Il grande numero di ospiti che sono intervenuti durante i lavori (fra i tanti vorrei ricordare molti leader ebraici italiani e collaboratori fondamentali per il nostro lavoro, come i rabbanim Riccardo Di Segni, Benedetto Carucci Viterbi e Roberto Della  Rocca, intellettuali come Ugo Volli, ma anche giornalisti di primo piano e testimoni di mondi significativi per l'informazione, come il leader della Federazione nazionale della stampa italiana Franco Siddi, che proprio durante i lavori di Redazione aperta ha lanciato al presidente della Federazione editori giornali Carlo Malinconico una netta riaffermazione del valore della professione giornalistica, o il direttore dell'Osservatore romano Giovanni Maria Vian, che ha recentemente ricevuto il riconoscimento di giornalista dell'anno) ha confermato come l'impegno giornalistico in campo ebraico significhi oggi confrontarsi con le opportunità e le sfide di una estrema diversificazione di idee e di identità. Ma anche richiamarsi saldamente alle nostre radici e ai nostri valori di ebrei e di ebrei italiani in particolare. Radici che non possiamo permetterci di mettere da un canto. Per questo seguo con grande interesse il dibattito costruttivo che a seguito degli esiti positivi di Redazione aperta si è sviluppato fra molti nostri collaboratori riguardo alle problematiche poste dall'esigenza di formare giovani giornalisti ebrei e giovani rabbini. Due categorie per la verità molto differenti fra loro, ma anche due poli di professionalità da cui in un modo o nell'altro potrebbe dipendere il  nostro futuro di ebrei italiani. E per questo, al termine dei lavori di Redazione aperta, assieme ai colleghi Adam Smulevich e Rossella Tercatin, due fra i giovani che hanno completato negli scorsi mesi il praticantato giornalistico in redazione, mi sono concesso una pausa di qualche ora per incontrare altri collaboratori che per la redazione costituiscono un punto di riferimento fondamentale e un momento tutto speciale per rivolgere un breve saluto al rav Elio Toaff. L'incontro è avvenuto in un pomeriggio quieto e luminoso, sulle rive di uno dei laghi che rendono prezioso l'ambiente naturale attorno a Roma. Ho preferito restare in disparte, lasciando per qualche attimo i giovani colleghi in tutta intimità a fianco al Rav. Solo i loro sguardi rivolti all'orizzonte sull'acqua. Solo poche parole di augurio e di impegno per il nostro lavoro futuro. Ma anche un gesto fondamentale per ribadire che  senza sapere chi abbiamo da essere, da dove veniamo, quale eredità, quali esperienze ci hanno lasciato i nostri Padri e i nostri Maestri, il nostro lavoro sull'informazione sarebbe solo un vano esercizio di parole. La redazione che lavora sui nuovi media dell'Unione non è un gruppo di lavoro facile da coordinare. Per la gioventù e la scarsa esperienza di molti dei suoi componenti, per l'estrema diversità culturale e identitaria, per la lontananza geografica dei luoghi da cui ognuno opera, per le motivazioni talvolta difficili da accordare che esprimono  molti dei preziosi collaboratori su cui possiamo contare. Ma è anche una realtà di lavoro straordinaria, dove operano giovani che ammiro per il loro impegno, le loro capacità e la loro trasparenza. Sono orgoglioso di condividere con loro il mio impegno di lavoro e di essere al loro fianco. Quell'immagine colta alla luce di un tramonto splendente di un grande anziano e di giovani professionisti che guardano l'orizzonte, mi è rimasta impressa, rappresenta il regalo della mia estate. Il mio augurio è che continui a fare luce sul cammino difficile e duro che attende la redazione attraverso le prossime stagioni di lavoro.

Guido Vitale

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pilpul
Davar Acher - Il nostro Tishà be Av
Ugo VolliDopodomani è Tishà be Av, il digiuno che commemora la doppia distruzione del Tempio, a opera dei babilonesi e dei romani. Il significato religioso della ricorrenza è ovvio; ma è pure chiaro che questa data ha un senso profondo anche nella storia politica del popolo ebraico, perché in entrambi i casi significa la perdita di ogni barlume di indipendenza e di autogoverno. Nel nostro calendario accade spesso che i contenuti religiosi e quelli politici si intreccino. Hanno questo carattere Purim, Hannukkah, Pesach, tutti i digiuni salvo Kippur, perfino Sukkot (se si fa caso al riassunto storico che era richiesto di fare a coloro che portavano le offerte vegetali al tempio). Difficile trovare un'altra religione che contenga tanti riferimenti nazionali, o una nazione la cui storia sia così marcata religiosamente. L'unicità di Israele sta anche in questo. Lo stesso carattere si ritrova nelle nostre scritture: il Tanakh è naturalmente la fonte della nostra fede ma anche la storia della costituzione e della difficile esistenza del nostro popolo nei suoi primi mille anni di storia.
La distruzione del Tempio, oltre alla fine del culto, comportò l'uscita del popolo ebraico dalla storia politica: per un secolo e mezzo almeno la prima volta, per dieci volte di più dopo la conquista romana. Non fu un caso se le rivolte politiche successive, come quella di Bar Kochbah, assunsero un aspetto anche religioso e furono appoggiate da grandi maestri come Rabbi Akivà: perché l'autogoverno della Terra di Israele è un prerequisito alla pratica di molte mitzvot, certamente; ma anche perché più in generale nella nostra tradizione non è possibile tagliare nettamente gli aspetti politici, giuridici e sociali da quelli religiosi. Il popolo ebraico dell'esilio è anche religiosamente ferito e misero. L'idea di una religione puramente privata, intesa come pura fede, nasce dall'insediamento cristiano nell'Impero Romano, ma non corrisponde affatto all'ebraismo, che è per sua natura pubblico, non utopico (che letteralmente vuol dire senza luogo) ma pratico, dedito al fare collettivo, e "topistico", orientato ai luoghi.
In seguito al fallimento di tutti i tentativi di resistenza all'impero romano, che si svilupparono per secoli, in seno all'ebraismo si svilupparono posizioni che giustificavano la perdita della storia come una punizione divina, che non andasse contrastata cercando di recuperare l'indipendenza politica e la terra perduta. Sono posizioni che ancora adesso sono sostenute dalla parte più estrema del mondo haredì, e da una certa quota di utopisti di sinistra. Non è un caso che vi sia stato e vi sia ancora un sionismo religioso, ma che l'impulso decisivo all'impresa della fondazione di Israele venne dagli ambienti laici e progressivi, ma in polemica con i socialisti puri del Bund. Il sionismo è stato socialista con Ben Gurion, conservatore con Begin, religioso con Rav Kook e i suoi allievi. Ha avuto per avversari tutti coloro che rifiutavano l'autonomia politica dell'ebraismo.
Ricordare questa data per noi oggi dunque, oltre al più vasto senso religioso, deve richiamarci all'unità del popolo ebraico (la cui mancanza secondo i maestri fu fra le cause della caduta del Tempio), e pensarla intorno a Israele, la cui sicurezza è minacciata oggi come allora. All'epoca del secondo Tempio si discusse se aveva senso continuare a rispettare il digiuno, nonostante la ricostruzione e si decise di farlo, perché le ragioni di fondo del lutto non erano scomparse. A maggior ragione questo è vero oggi, quando ancora vivono i testimoni della Shoah e i confini dello Stato di Israele sono ancora gravemente minacciati.

Ugo Volli


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notizieflash   rassegna stampa
Israele, un team di ministri ed esperti
per trovare una soluzione al carovita

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Dopo le manifestazioni che hanno portato in piazza migliaia di cittadini, il governo corre ai ripari. Il premier Benjamin Netanyahu ha dato l'annuncio che 15 ministri formeranno, insieme a economisti e osservatori, un team incaricato di negoziare delle soluzioni contro il carovita con i leader della protesta. “È nostro dovere ascoltare la voce che si alza dalle piazze - ha dichiarato Netanyahu - Offriremo loro soluzioni vere, non trattamenti cosmetici”. Il team si occuperà di discutere con i manifestanti e di avanzare le proposte al Social Economic Cabinet, guidato dal Ministro delle Finanze Yuval Steinitz, che le sottoporrà poi al governo per l’approvazione.



 
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