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31 agosto 2011 - 1 Elul 5771
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david sciunnach David
Sciunnach,
rabbino 

Guardando la Parashà lo scorso Shabbath, la Parashà di Re’è, osservando tutte le prescrizioni che Dio ha dato  riguardo all’alimentazione, e riflettendo su questo periodo che viene dopo il 9 di Av, ho notato che esiste nel corpo umano un'unica parte con cui si può adempiere o trasgredire in due differenti modi. Questa è la bocca. E la duplice azione che si può praticare è facendo entrare o facendo uscire da essa qualcosa. Ingerendo un cibo vietato si trasgredisce facendo entrare qualcosa, e pronunciando parole di menzogna o maldicenza si trasgredisce facendo uscire qualcosa da essa. Lo stesso vale per l’adempimento di un precetto, nutrendoci con cibi prescritti dalla Toràh e pronunciando una benedizione , una preghiera ed anche un buona parola di conforto ad un nostro simile. D’altronde la scienza ci ha dimostrato che noi siamo ciò che mangiamo, poiché dopo un certo numero di anni tutte le nostre cellule sono cambiate, pur essendo noi fisicamente le stesse persone (magari un po’ invecchiati). Per la nostra anima non è lo stesso, essa si evolve ogni giorno e gli eventi quotidiani della nostra vita ci cambiano. Ingerendo però qualcosa di proibito noi contaminiamo il nostro spirito, poiché anima e corpo vivono in simbiosi. È scritto che il Beth ha-Mikdash è stato distrutto a causa della lashon ha-rà, la maldicenza. E che la maldicenza è paragonata all’idolatria, e così come l’idolatria essa suscita l’ira di Dio. Si può notare che queste due trasgressioni agiscono su due livelli differenti, la prima “l’ingerire qualcosa” agisce solo in rapporto a Dio, adempiendo o trasgredendo un precetto, la seconda “la parola” agisce verso due soggetti, e cioè  sia verso Dio sia verso il nostro prossimo. A questo punto ci si potrebbe domandare cosa sia più grave ciò che entra o ciò che esce dalla bocca? In realtà la bocca è solo uno strumento comandato dalla nostra mente, ingerisce e dice ciò che gli permettiamo di fare. Sta a noi porre attenzione ad entrambe le cose che sono strettamente legate più di quanto noi possiamo percepire.
 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
Le cronache di questa crisi economica, di cui temo si presenteranno presto i corollari politici, mostrano, in ogni Paese occidentale, che ci si è scordati che la democrazia è un luogo decisionale. Certo particolare, ma sempre tale rimane. Un insegnamento che viene da lontano, da quella tradizione che ha tentato di edificare un diverso modello sociale rispetto alle gerarchie imperiali, collocandosi al confine (geografico ed esistenziale) fra Oriente ed Occidente. L’identità israelita diventa tale solo nel momento in cui Yaakov comprende che uno sguardo universalistico necessita di un luogo di edificazione, ossia di un limite (il riferimento è alla Terra, ma anche alla Legge) che ne circoscriva le condizioni di possibilità. Se tutto è affidato alle buone intenzioni, si rischia di rimanere sempre servi di Labano; in senso generale, si innescano meccanismi degenerativi che rendono vana l’intenzionalità originaria. Speriamo che i nostri governanti se ne rendano conto. Il rischio è che si affermi sempre più il modello Cina-Mitzraim, o peggio ancora, vedere tornare Amalek.
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davar
Shoah. La parola e la cosa
La parola shoah scompare dai manuali di storia adottati nel sistema scolastico francese.
Si può discutere tanto del modo in cui quella decisione è stata presa. Credo che sia più prioficuo discutere  del fatto che le parole hanno una storia. Perché in quella storia ci siamo noi.
In quella storia sono da considerare vari tempi: quello in cui quella parola non c’è; quello in cui qualcuno a un certo punto la introduce; quello in cui essa diviene un termine di massa utilizzato da tutti – spesso scacciandone altre che in precedenza venivano usate - quello del suo ridimensionamento e quello della sua eventuale scomparsa.
Io penso che l’uso di una parola sia sempre l’indicatore di una sensibilità. E perciò mi chiedo: quando ha iniziato a circolare la parola shoah quale vuoto riempiva? Quando ha iniziato a circolare quale pensiero produceva? Quando si è imposta quali atteggiamenti determinava?
E se la notizia di del suo accantonamento, introdotta con una circolare pubblicata sul bollettino ufficiale del settembre 2010, non ha suscitato particolari attenzione non è questo un sintomo di un cambio di sensibilità?
E, infine, vorrei chiedermi: quale sensibilità abbiamo davanti?
Di tutta la produzione cartacea che ha fatto della Shoah un tema di discussione pubblica che cosa rimarrà?
C’è differenza tra prima e dopo?
E se sì qual è?
In quale scala sta con l'immagine che abbiamo della parola "massacro"?
Fare la storia di una parola e del suo uso nelle democrazie politiche, come nei sistemi totalitari, come nelle dittature di massa del XXI secolo in quello che una volta chiamavamo “Terzo mondo” è sempre confrontarsi con i meccanismi della persuasione e della convinzione. In breve con retoriche.
Molti premeranno perché quella parola rimanga. Io vorrei che rimanesse sul piatto la questione di sapere quante cose abbiamo capito della macchina del potere e dell’entusiasmo di massa di cui una pratica sterminativa ha goduto, della creatività tecnologica a cui ha dato l’opportunità e della quantità di indifferenza con cui ha potuto perpetuarsi. Il nome mi interessa poco. Resta il problema. In una società globale, quel problema non è solo un fatto “locale”.

David Bidussa, Linkiesta, 31 agosto 2011

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pilpul
La scomparsa del pacifismo
Francesco LucreziSe i libri di storia sono chiamati a registrare, per il Novecento, il tracollo, dopo trionfi e tragedie, di tre dei grandi ‘ismi’ che ne hanno potentemente determinato le vicende (comunismo, fascismo, nazismo: resistono ancora, nonostante acciacchi e crisi d’identità, liberalismo e socialismo), gli stessi libri dovranno dare conto, domani, dell’avvenuta scomparsa, all’inizio del XXI secolo, di un altro ‘ismo’, che, quantunque meno rilevante di quelli menzionati, ha comunque fortemente inciso sulla cultura e il costume occidentali per circa un quarantennio (all’incirca, dalla seconda metà degli anni ’60 ai primi del duemila), ossia il pacifismo.
Diversamente dalle altre dissoluzioni, di cui si può indicare una data simbolo (il 1945 e il 1989), non è facile dire quando, esattamente, il pacifismo sia scomparso. Nato, prepotentemente, per emulazione delle rivolte studentesche USA contro la guerra del Vietnam (che però hanno rappresentato un fenomeno molto diverso, con motivazioni assai più concrete e razionali rispetto ai successivi movimenti europei), dilagato nelle piazze d’Europa negli anni della guerra fredda (gli enormi cortei contro gli euromissili…), ancora assai vigoroso nel 1991, in occasione della prima guerra del Golfo (uno dei conflitti meno contestabili sul piano dell’etica, del diritto e della semplice opportunità politica, ma del quale, secondo Giovani Paolo II, i responsabili avrebbero dovuto “rendere conto innanzi a Dio”), ridimensionato, ma non scomparso (nonostante il trauma dell’11 settembre) negli anni delle campagne in Afghanistan e Irak, appare, oggi, morto e sepolto, come inequivocabilmente dimostra l’assordante silenzio del mondo di fronte all’intervento militare approvato dall’ONU per la crisi libica. Nessun corteo, nessun comizio, nessuna bandiera bruciata, nessuna reprimenda morale, né dal Vaticano né da altri. Al massimo qualche sopracciglio alzato, l’articolo dubbioso di qualche opinionista, scritto per forza d’abitudine, un paio di muri imbrattati da qualche studente fuori corso, il mugugno imbronciato di qualche leghista, ma solo per la paura di un aumento di sbarchi clandestini.
Di fronte a tale scomparsa, si pongono tre domande: che cosa è stato il pacifismo? perché è morto? cosa cambierà con la sua scomparsa?
La risposta alla prima domanda è evidentemente soggettiva. Lo si può ritenere un movimento di opinione animato da tensione etica e nobili ideali, o piuttosto un mix di ingenuità, malafede e ipocrisia. Personalmente, pur salvaguardando la buona fede dei molti che ci hanno creduto onestamente, propendo per la seconda ipotesi. Il pacifismo è stato un fenomeno antioccidentale (soprattutto antiamericano), espressione di un oscuro Selbsthass (odio di sé) dell’Occidente. Senza l’America in campo, nessuna guerra, nessuna strage è mai riuscita a fare scendere in piazza nessuno. Quando, poi, le guerre sono state scatenate contro Israele, i pacifisti o sono rimasti a guardare, o si sono schierati dalla parte degli aggressori.
Alla seconda domanda è difficile rispondere. Come tutti i fenomeni emotivi, psicologici e di costume, anche il pacifismo ha compiuto la sua parabola. Non si può dire che abbia avuto vita breve.
Quanto al terzo quesito, non c’è nessun motivo per ritenere che, essendo stata “sdoganata la guerra”, ci saranno ora più scontri armati, perché non risulta che il pacifismo abbia mai effettivamente rappresentato una forma di ostacolo o di impedimento alla deflagrazione dei conflitti. La guerra continuerà a essere, come è sempre stata, uno degli strumenti (ovviamente, il peggiore) della politica. Per evitarla, occorrerà promuovere politiche di pace (e non di pacifismo, che con la pace non ha mai avuto molto a che fare).

Francesco Lucrezi, storico

Giornata della Cultura - Opinioni a confronto
Mi inserisco da giornalista professionista nel dibattito sul caso Ovadia. Trovo francamente discutibile la "tesi" dell'informazione spettacolo. E' il solito andazzo al quale siamo - purtroppo abituati -  che snatura il mestiere del giornalismo e che fin troppo spesso vede protagonisti proprio noi giornalisti. A dir la verità tutto ciò è fin troppo comprensibile: l'importante non è parlare di cose decisive per le sorti del mondo ebraico; di nuove tecnologie, magari di "disinformazione",  sviscerando temi che "navigano" su Internet (o 2.0) che dir si voglia, su nazisti, complottisti di ogni risma, magari al soldo di questo o quel regime fondamentalista, sul ripescaggio e amplificazione di famigerate  liste di proscrizione (basti vedere le recenti segnalazioni del Cdec) o digitare semplicemente "Jud Suss" o "Der Ewige Jude" sul proprio computer per trovare non solo le edizioni originali o quelle in italiano (con tanto di commenti entusiastici e/o di condanna). No, niente di tutto questo. Più facile affrontare il tema del witz ebraico. (Oh come sono simpatici gli ebrei, che geni...). E allora niente di meglio che mettere insieme chi sa sfruttare a dovere questa forma di "marketing giornalistico". Fa più richiamo. Garantisce la sala piena! Allora meglio avere Moni Ovadia. Triste, ma vero.

Paolo Navarro Dina  

Per quanto poco possano piacere le idee di Moni Ovadia e la sua ostilità nei riguardi di Israele, è difficile condividere le posizioni di ostracismo umano, artistico e intellettuale che si stanno esprimendo in varie sedi e con vari livelli di animosità. Ci hanno insegnato che siamo il popolo del Libro e il popolo del dialogo. Dialogo significa confronto, non sempre e necessariamente identità di vedute. Se fossimo sempre d'accordo non sarebbe necessario dialogare. E dialogare con chi la pensa come te dà assai poco gusto e produce pochissimo progresso intellettuale. Se i nostri Maestri fossero stati sempre d'accordo su tutto non sarebbe stato scritto il Talmud. Ma per fortuna il Talmud è stato scritto, ed è lì a indicarci il valore del dibattito, della disputa, della controversia, della polemica. Il resto, il suo opposto, si chiama ostracismo e tirannia culturale. Possiamo mettere il silenziatore alle parole, non alle idee. Tanto vale confrontarsi alla pari. Certo, costa fatica: la fatica di sostenere le proprie tesi e battersi per esse in un libero confronto, dando la possibilità all'altro di esprimere il proprio disaccordo.  

Dario Calimani   

Non l'avrei invitato Moni Ovadia perché mi è un po’ antipatico. Non l'avrei invitato perché artisticamente non mi piace, mi sembra vagamente un guitto. Non l’avrei invitato perché suona e canta, recita e ballonzola, ma come pensatore non mi sembra poi così profondo. Non l'avrei invitato perché rappresenta un fastidioso ammiccamento a quelle frange di sinistra che vuole vedere e prende in considerazione una sola interpretazione di "quella" storia. Non l'avrei invitato perché ha avvallato una vicenda tragica, quella di Arrigoni, che era una storia di odio per quanto maldestramente cammuffata. Non l'avrei invitato perché, come tanti, ha apertamente sostenuto la Freedom Flotilla ma non ha mai, per quello che ne so, invitato a organizzare una Freedom Carovana verso le terre dei curdi, dei siriani, degli yemeniti, degli iraniani, dei tunisini, dei palestinesi in Libano o in Siria ed anche degli abitanti di Gaza, forzando però il confine egiziano, tanto per cambiare. Non l’avrei invitato perciò e non credo che lui se la sarebbe presa a male perché ha evidentemente interesse per altro ed è un suo diritto.  Poi ho letto del suo percorso psicanalitico sull’Espresso e del suo sogno in cui racconta di un padre che se ne va, lasciandolo solo. E allora, anche se lui parla di riconciliazione con la famiglia, immagino che la sua sia in realtà una separazione da un padre che forse gli rappresenta tutto ciò che è ebraico; ed è, forse, il suo legittimo cammino di ricerca di un'autonomia personale, se scusate la psicanalizzazione forzata. E forse ha anche la pretesa che ciò che è ebraico debba essere sempre più giusto, pulito, cristallino di quanto non gli sia evidentemente sembrato. E non è che abbia tutti i torti, anch’io preferirei che Israele fosse sempre eticamente, moralmente ineccepibile, cosa che non è, parliamoci chiaro: gli israeliani sono buoni e cattivi, generosi e arroganti come tutti gli altri, né più né meno, ma con una storia particolare che nessuno ha il diritto di dimenticare. Quindi, un po’ di comprensione forse gliela dobbiamo, ma lasciamo che faccia il suo (poco o tanto) rispettabile cammino… altrove.  Non dimentichiamoci però che chi lo ha invitato aveva forse (e ripeto forse, è solo una mia ipotesi) l’intento di distinguere l’ebraismo da Israele e Israele dai coloni e questo, che piaccia o no, è assolutamente, indiscutibilmente, fermamente legittimo. Sempre.    

Fabio Della Pergola  

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notizieflash   rassegna stampa
Europei di basket - Italia e Israele
ai blocchi di partenza
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Si aprono oggi in Lituania i 37esimi campionati europei di basket. Tra le squadre impegnate nelle prossime ore le nazionali di Italia e Israele, attese rispettivamente da un serrato confronto con Serbia e Germania. Inserite nello stesso girone, le due compagini si incontreranno poi nell'ultimo match della prima fase in programma lunedì 5 settembre. Da segnalare, particolarmente gravosa per gli schemi di gioco del coach israeliano Arik Shivek, l'assenza di Omri Casspi per i postumi di un brutto infortunio al crociato.

 

Nella giornata di oggi i giornali non riportano grandi novità dai vari fronti, e ne approfittiamo per mettere in evidenza quanto succede nella vicina Francia, come viene segnalato dal Corriere con due articoli di Stefano Montefiori, e, soprattutto, da Le Monde con un articolo firmato da Claude Lanzmann. ...»

Emanuel Segre Amar











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