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La scomparsa del
pacifismo
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Se i libri di storia sono
chiamati a registrare, per il Novecento, il tracollo, dopo trionfi e
tragedie, di tre dei grandi ‘ismi’ che ne hanno potentemente
determinato le vicende (comunismo, fascismo, nazismo: resistono ancora,
nonostante acciacchi e crisi d’identità, liberalismo e socialismo), gli
stessi libri dovranno dare conto, domani, dell’avvenuta scomparsa,
all’inizio del XXI secolo, di un altro ‘ismo’, che, quantunque meno
rilevante di quelli menzionati, ha comunque fortemente inciso sulla
cultura e il costume occidentali per circa un quarantennio
(all’incirca, dalla seconda metà degli anni ’60 ai primi del duemila),
ossia il pacifismo.
Diversamente dalle altre dissoluzioni, di cui si può indicare una data
simbolo (il 1945 e il 1989), non è facile dire quando, esattamente, il
pacifismo sia scomparso. Nato, prepotentemente, per emulazione delle
rivolte studentesche USA contro la guerra del Vietnam (che però hanno
rappresentato un fenomeno molto diverso, con motivazioni assai più
concrete e razionali rispetto ai successivi movimenti europei),
dilagato nelle piazze d’Europa negli anni della guerra fredda (gli
enormi cortei contro gli euromissili…), ancora assai vigoroso nel 1991,
in occasione della prima guerra del Golfo (uno dei conflitti meno
contestabili sul piano dell’etica, del diritto e della semplice
opportunità politica, ma del quale, secondo Giovani Paolo II, i
responsabili avrebbero dovuto “rendere conto innanzi a Dio”),
ridimensionato, ma non scomparso (nonostante il trauma dell’11
settembre) negli anni delle campagne in Afghanistan e Irak, appare,
oggi, morto e sepolto, come inequivocabilmente dimostra l’assordante
silenzio del mondo di fronte all’intervento militare approvato dall’ONU
per la crisi libica. Nessun corteo, nessun comizio, nessuna bandiera
bruciata, nessuna reprimenda morale, né dal Vaticano né da altri. Al
massimo qualche sopracciglio alzato, l’articolo dubbioso di qualche
opinionista, scritto per forza d’abitudine, un paio di muri imbrattati
da qualche studente fuori corso, il mugugno imbronciato di qualche
leghista, ma solo per la paura di un aumento di sbarchi clandestini.
Di fronte a tale scomparsa, si pongono tre domande: che cosa è stato il
pacifismo? perché è morto? cosa cambierà con la sua scomparsa?
La risposta alla prima domanda è evidentemente soggettiva. Lo si può
ritenere un movimento di opinione animato da tensione etica e nobili
ideali, o piuttosto un mix di ingenuità, malafede e ipocrisia.
Personalmente, pur salvaguardando la buona fede dei molti che ci hanno
creduto onestamente, propendo per la seconda ipotesi. Il pacifismo è
stato un fenomeno antioccidentale (soprattutto antiamericano),
espressione di un oscuro Selbsthass (odio di sé) dell’Occidente. Senza
l’America in campo, nessuna guerra, nessuna strage è mai riuscita a
fare scendere in piazza nessuno. Quando, poi, le guerre sono state
scatenate contro Israele, i pacifisti o sono rimasti a guardare, o si
sono schierati dalla parte degli aggressori.
Alla seconda domanda è difficile rispondere. Come tutti i fenomeni
emotivi, psicologici e di costume, anche il pacifismo ha compiuto la
sua parabola. Non si può dire che abbia avuto vita breve.
Quanto al terzo quesito, non c’è nessun motivo per ritenere che,
essendo stata “sdoganata la guerra”, ci saranno ora più scontri armati,
perché non risulta che il pacifismo abbia mai effettivamente
rappresentato una forma di ostacolo o di impedimento alla deflagrazione
dei conflitti. La guerra continuerà a essere, come è sempre stata, uno
degli strumenti (ovviamente, il peggiore) della politica. Per evitarla,
occorrerà promuovere politiche di pace (e non di pacifismo, che con la
pace non ha mai avuto molto a che fare).
Francesco
Lucrezi, storico
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Giornata della Cultura
- Opinioni a confronto
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Mi inserisco da giornalista
professionista nel dibattito sul caso Ovadia. Trovo francamente
discutibile la "tesi" dell'informazione spettacolo. E' il solito
andazzo al quale siamo - purtroppo abituati - che snatura il
mestiere del giornalismo e che fin troppo spesso vede protagonisti
proprio noi giornalisti. A dir la verità tutto ciò è fin troppo
comprensibile: l'importante non è parlare di cose decisive per le sorti
del mondo ebraico; di nuove tecnologie, magari di
"disinformazione", sviscerando temi che "navigano" su
Internet (o 2.0) che dir si voglia, su nazisti, complottisti di ogni
risma, magari al soldo di questo o quel regime fondamentalista, sul
ripescaggio e amplificazione di famigerate liste di
proscrizione (basti vedere le recenti segnalazioni del Cdec) o digitare
semplicemente "Jud Suss" o "Der Ewige Jude" sul proprio computer per
trovare non solo le edizioni originali o quelle in italiano (con tanto
di commenti entusiastici e/o di condanna). No, niente di tutto questo.
Più facile affrontare il tema del witz ebraico. (Oh come sono simpatici
gli ebrei, che geni...). E allora niente di meglio che mettere insieme
chi sa sfruttare a dovere questa forma di "marketing giornalistico". Fa
più richiamo. Garantisce la sala piena! Allora meglio avere Moni
Ovadia. Triste, ma vero.
Paolo
Navarro Dina
Per quanto poco possano piacere le idee di Moni Ovadia e la sua
ostilità nei riguardi di Israele, è difficile condividere le posizioni
di ostracismo umano, artistico e intellettuale che si stanno esprimendo
in varie sedi e con vari livelli di animosità. Ci hanno insegnato che
siamo il popolo del Libro e il popolo del dialogo. Dialogo significa
confronto, non sempre e necessariamente identità di vedute. Se fossimo
sempre d'accordo non sarebbe necessario dialogare. E dialogare con chi
la pensa come te dà assai poco gusto e produce pochissimo progresso
intellettuale. Se i nostri Maestri fossero stati sempre d'accordo su
tutto non sarebbe stato scritto il Talmud. Ma per fortuna il Talmud è
stato scritto, ed è lì a indicarci il valore del dibattito, della
disputa, della controversia, della polemica. Il resto, il suo opposto,
si chiama ostracismo e tirannia culturale. Possiamo mettere il
silenziatore alle parole, non alle idee. Tanto vale confrontarsi alla
pari. Certo, costa fatica: la fatica di sostenere le proprie tesi e
battersi per esse in un libero confronto, dando la possibilità
all'altro di esprimere il proprio disaccordo.
Dario
Calimani
Non l'avrei invitato Moni Ovadia perché mi è un po’ antipatico. Non
l'avrei invitato perché artisticamente non mi piace, mi sembra
vagamente un guitto. Non l’avrei invitato perché suona e canta, recita
e ballonzola, ma come pensatore non mi sembra poi così profondo. Non
l'avrei invitato perché rappresenta un fastidioso ammiccamento a quelle
frange di sinistra che vuole vedere e prende in considerazione una sola
interpretazione di "quella" storia. Non l'avrei invitato perché ha
avvallato una vicenda tragica, quella di Arrigoni, che era una storia
di odio per quanto maldestramente cammuffata. Non l'avrei invitato
perché, come tanti, ha apertamente sostenuto la Freedom Flotilla ma non
ha mai, per quello che ne so, invitato a organizzare una Freedom
Carovana verso le terre dei curdi, dei siriani, degli yemeniti, degli
iraniani, dei tunisini, dei palestinesi in Libano o in Siria ed anche
degli abitanti di Gaza, forzando però il confine egiziano, tanto per
cambiare. Non l’avrei invitato perciò e non credo che lui se la sarebbe
presa a male perché ha evidentemente interesse per altro ed è un suo
diritto. Poi ho letto del suo percorso psicanalitico
sull’Espresso e del suo sogno in cui racconta di un padre che se ne va,
lasciandolo solo. E allora, anche se lui parla di riconciliazione con
la famiglia, immagino che la sua sia in realtà una separazione da un
padre che forse gli rappresenta tutto ciò che è ebraico; ed è, forse,
il suo legittimo cammino di ricerca di un'autonomia personale, se
scusate la psicanalizzazione forzata. E forse ha anche la pretesa che
ciò che è ebraico debba essere sempre più giusto, pulito, cristallino
di quanto non gli sia evidentemente sembrato. E non è che abbia tutti i
torti, anch’io preferirei che Israele fosse sempre eticamente,
moralmente ineccepibile, cosa che non è, parliamoci chiaro: gli
israeliani sono buoni e cattivi, generosi e arroganti come tutti gli
altri, né più né meno, ma con una storia particolare che nessuno ha il
diritto di dimenticare. Quindi, un po’ di comprensione forse gliela
dobbiamo, ma lasciamo che faccia il suo (poco o tanto) rispettabile
cammino… altrove. Non dimentichiamoci però che chi lo ha
invitato aveva forse (e ripeto forse, è solo una mia ipotesi) l’intento
di distinguere l’ebraismo da Israele e Israele dai coloni e questo, che
piaccia o no, è assolutamente, indiscutibilmente, fermamente legittimo.
Sempre.
Fabio
Della Pergola
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rassegna
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Europei
di basket - Italia e Israele
ai blocchi di partenza
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Si aprono oggi in Lituania i 37esimi campionati europei di basket. Tra
le squadre impegnate nelle prossime ore le nazionali di Italia e
Israele, attese rispettivamente da un serrato confronto con Serbia e
Germania. Inserite nello stesso girone, le due compagini si
incontreranno poi nell'ultimo match della prima fase in programma
lunedì 5 settembre. Da segnalare, particolarmente gravosa per gli
schemi di gioco del coach israeliano Arik Shivek, l'assenza di Omri
Casspi per i postumi di un brutto infortunio al crociato.
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Nella giornata di oggi i
giornali non riportano grandi novità dai vari fronti, e ne
approfittiamo per mettere in evidenza quanto succede nella vicina
Francia, come viene segnalato dal Corriere con due articoli di Stefano Montefiori, e,
soprattutto, da Le Monde
con un articolo firmato da Claude Lanzmann. ...»
Emanuel Segre Amar
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