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Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Il suono
dello Shofàr è introdotto dalla lettura di alcuni versi biblici tra cui
quello del Salmo 81: "... poiché questo è Choq, uno statuto
per Israele, Mishpàt, una legge per il Signore
di Yaaqòv...". Il suonare lo Shofàr a Rosh Ha Shanà
costituisce per Israele, un Choq, uno statuto, mentre per
Yaaqòv è un Mishpàt, una legge. Cosa significa? Quale è la differenza
per il medesimo rito? Quale è la differenza se chiamiamo il
popolo con il nome Israele o con il nome Yaaqòv ? Non ci riconosciamo
forse in ambedue le definizioni? E’ come se il suono dello Shofàr
assumesse una valenza diversa con il cambio del nome
identitario. E’ statuto, ma anche legge, a seconda di come si
definisce la nostra identità. La parola mishpàt significa
“legge”, "diritto" ma indica anche una "frase".
Potremmo dire un “diritto dialogale” che si contrappone all’ idea del
Chòq, uno statuto che non consente interpretazioni
razionali. Israele è il nome di un’identità ideale, poiché “hai
padroneggiato, su Dio e sugli uomini....", mentre
Yaaqòv si riferisce alla parte debole della nostra identità. E’ come se
Israele non avesse bisogno di motivazioni razionali per il suono dello
Shofàr, e quindi per Israele è un Choq, una disposizione statutaria e
basta. Per Yaaqòv invece è necessario un mishpat, una frase,
una spiegazione, perché è soprattutto questa parte di noi che
il suono dello Shofàr dovrà risvegliare dal letargo.
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Invio a voi tutti i più
sinceri e fraterni auguri per l'anno 5772 che sta per iniziare. Stiamo
attraversando un periodo intenso e pieno di novità, al tempo stesso
promettenti e pericolose, per fronteggiare le quali saranno
determinanti la concordia e la collaborazione fra noi tutti. Sia in
Medio Oriente sia in altre regioni, assistiamo allo sviluppo di forti
tensioni sociali e a un veloce cambiamento degli equilibri politici e
strategici. Grandi occasioni e grandi pericoli si profilano
all'orizzonte, anche come conseguenze di una instabilità economica che
non conosce confini. Per l'ebraismo italiano sarà l'anno in cui troverà
attuazione il nuovo Statuto, che, in base alle nostre capacità, potrà
segnare uno scatto di vitalità, partecipazione o, viceversa, un
regresso verso una problematica governabilità. Cari amici, operiamo
affinché le comunità ebraiche avanzino e progrediscano con coraggio,
diano prova di saggezza e di equilibrio, sviluppino una dialettica
interna sana, vitale e rispettosa delle persone e delle idee,
recuperino in pieno il loro ruolo di centri di attrazione, di
accoglienza e di integrazione all'interno dei quali si esprima tutta la
ricchezza costituita dalle nostre migliori risorse intellettuali e
operative.
Shanà Tovà.
Renzo
Gattegna, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Qui Roma
- Un anno per il rafforzamento e la fiducia
Questo fine anno 5771 si
caratterizza per due scenari preoccupanti: il progressivo isolamento
politico dello Stato d'Israele e la grave crisi economica mondiale.
Senza sminuire la portata di entrambi gli eventi, un minimo di memoria
storica ci dovrebbe far pensare che l'isolamento di Israele non è certo
una novità e che non lo sono neppure le ondate di crisi economica che
ormai si abbattono con frequenza costante e devastante da molti anni.
C'è poco da stare tranquilli, ma questo non vuol dire che non si debba
essere fiduciosi, nè che si debba rinunciare alle nostre
responsabilità. E' il tema centrale delle nostre feste di autunno, la
fragilità e la debolezza umana (e di Israele), insieme alla capacità di
andare avanti malgrado tutto. Parlando della terra d'Israele e dello
sguardo divino vigile che la controlla (Devarim 11:12) la Torà dice che
questo controllo dura dall'inizio alla fine dell'anno. "Inizio" è
scritto reshit, ma manca l'alef, e per "fine" si usa la parola acharit,
che non è propriamente fine, ma qualcosa che viene dopo, ed è spesso
usata per grandi promesse. Rabbì Izchaq (in TB Rosh haShanà 16b) notava
che reshit senza l'alef più che a rosh assomiglia a rash, povero. Per
cui il verso va interpretato nel senso che "ogni anno che inizia in
povertà finisce in ricchezza". Speriamo che sia così, e che vi sia un
arricchimento in tutti i sensi. Molto dipende da noi e da come ci
rapportiamo all'unico vero riferimento che ci può sostenere. Leshanà
tovà tikatevu.
Riccardo Di
Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma
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torna su ˄
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Il Medio Oriente, la
piazza pluralista e la nostra frattura |
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Il notiziario quotidiano
l'Unione informa dimostra sempre più la sua forza come luogo di
confronto, una vera piazza dove l’unico rimpianto è quello di non
potersi sedere a un bar a discutere magari animatamente e da posizioni
diametralmente opposte. Nel caso del rapporto fra ebrei d’Italia e
Israele non credo sia una questione di destra e sinistra (concetti che
sono ormai svuotati di significato). Il confronto è più incentrato su
sensazioni a pelle: chi non gira con il maghen david e la bandiera
d’Israel è considerato con sospetto (da un lato), e chi vede la sua
vita di ebreo come indissolubilmente legato alle sorti di Israel (quale
che sia il governo che lo guida) è considerato una vittima
inconsapevole della propaganda e fondamentalmente pericoloso. Insulti
volano di qua (fascista) e di là (traditore, non sei mio fratello). Io,
che provengo da una lunga tradizione famigliare progressista e che
sull’antisemitismo a sinistra ho pure scritto un libro, proverei a
interpretare l’attuale confronto partendo da una prospettiva storica.
Mi è capitato un anno fa di fare un bel viaggio nella Polonia ebraica e
ad Auschwitz con un gruppo di amici padovani, ebrei e non ebrei.
Persone colte, che hanno dato vita a un bel dibattito intellettuale e
hanno convissuto momenti di raccoglimento. L’ultimo giorno siamo stati
raggiunti da un nutrito gruppo di ebrei romani, la classica “piazza”, e
l’indomani siamo andati insieme a visitare Auschwitz. Bandiere
israeliane, hatikva, commozione. Ma anche uno sguardo supponente e,
direi, “di superiorità” che si percepiva nei confronti degli amici
romani. Una signora di passata militanza comunista mi avvicina e mi
chiede lumi: “ma chi sono, ma come si comportano, ma proprio non c’è
terreno di confronto”, mi dice. La guardo un po’ stupito e le rispondo:
“amica mia, questo è il popolo”, chiedendomi per cosa avesse mai
combattuto in questi anni di militanza politica da sinistra.
In effetti non si può che constatare una distanza crescente fra il
mondo intellettuale, quasi tutto piuttosto conformista e sempre
vezzeggiato dal potere, e la massa di chi sogna una vera emancipazione
prima di tutto sociale. Nel mondo ebraico italiano questo tipo di
deriva è particolarmente visibile a Roma, forse l’unica piazza che
ancora oggi – per motivi storici e demografici – manifesta dinamiche
simili. Quello che a me preoccupa e addolora è che l’intellettualità
ebraica progressista non sia apparentemente interessata a ricominciare
a tessere un vero e profondo rapporto con la piazza. E ancora di più mi
dispiace che il terreno di scontro fra due mondi che fanno fatica a
riconoscersi sia diventato Israele. Mi dispiace perché lo considero un
falso terreno. Non è vero che gli uni amino Israele più degli altri.
Ognuno usa gli strumenti che ha a disposizione per esprimere il suo
amore, la sua apprensione per il futuro e la sua ansia di pace. Ma in
nessun caso quello che ci diciamo oggi sulla benemerita e pluralista
piazza mediatica dell’UCEI avrà la men che minima influenza sulla pace
fra israeliani e palestinesi. Per cui mi sorge il fondato dubbio che il
duro confronto che si va sviluppando su Israele sia solo un velo, che
nasconde una più profonda frattura che solo un lungo lavoro di
ricucitura potrà sanare.
Gadi
Luzzatto Voghera
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Guardare indietro,
guardare avanti |
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Non serve citare Edgar Lee
Masters o Ugo Foscolo. Entrando in un cimitero si prova un effetto
strano, tra straniamento e nostalgia. Gli ebrei usano recarsi sulle
tombe dei propri cari nei giorni che precedono il capodanno,
Rosh-ha-shanà. Sono molto affezionato a quest’usanza, che trovo assai
proficua. Prima di iniziare il nuovo anno, e una nuova vita, si torna
per un attimo indietro. Si traccia un bilancio di ciò che ci è
accaduto, e in un certo senso ci si consulta con chi, direttamente o
indirettamente, ha accompagnato il nostro percorso.
Dopo aver deposto le pietre (non i fiori) e aver terminato il rito, gli
ebrei usano lavarsi le mani e andare a mangiare qualcosa (nel mio caso:
tramezzini squisitissimi!). È una lezione sulla memoria: un elemento
imprescindibile che non deve essere castrante, che non deve impedire di
guardare avanti. Ci si lavano le mani e si mangia, come a dire che la
vita deve continuare, con le sue gioie e i suoi dolori.
I cimiteri raccontano la nostra storia. Ma spiegano anche le società in
cui viviamo. Domenica scorsa un gruppo di ebrei romani convocatisi su
Facebook – finalmente un uso virtuoso del social network! – si è dato
appuntamento al cimitero di Prima Porta per ripulire il reparto
israelitico. Un’iniziativa bellissima e meritevole. Una circostanza che
non sarebbe necessaria se le pubbliche amministrazioni funzionassero,
tributando la giusta considerazione alla nostra storia (e al Verano,
l’altro cimitero di Roma, la situazione non è migliore).
Ma non è solo un problema di incuria e malagestione. A pensarci bene,
per quale motivo i cimiteri dipendono dall’azienda di igiene urbana? Un
cimitero non assomiglia più a un museo che a un cassonetto? Buon anno a
tutti.
Tobia
Zevi, Associazione Hans Jonas
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Il suono dello Shofar e
la madre di Siserà |
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Si avvicina Rosh Hashana,
una festa piena di significato universale: secondo i nostri Maestri il
25 di Elul è stato creato il mondo, mentre il sesto giorno,
corrispondente appunto all' uno di Tishrì, è stato creato l'uomo, Adamo
(Vaikra Rabbà 29:1, Pirke de Rabbì Eliezer 8:1 ecc.). La Mizvà del
giorno, di origine biblica (Numeri 29:1) è quella di sentire il suono
dello Shofar: "Nel settimo mese, il primo del mese, sarà per voi santa
convocazione: non farete alcun lavoro servile, giorno di suono
strepitoso (iom teruà) sarà per voi" (Pentateuco a cura di Rav
Disegni). È una mizvà molto importante ed io ho ancora nelle orecchi le
parole con cui il mio Maestro Rav Sergio Yosef Sierra z.l. concluse uno
dei suoi discorsi sulla Shofar a Bologna, a metà degli anni cinquanta:
"C'è D-o in quel suono!". La Mishnà ci insegna: "L'ordine delle suonate
è di tre (volte), ciascuna di tre suonate…la misura della suonata
rumorosa (teru'à) è come quella di tre suoni intermittenti
(yabbavòt)…"(Rosh Ha-Shanà 4:9 nella traduzione di Gabriele Di Segni,
di cui si vedano anche le spiegazioni).
A sua volta la Ghemarà omonima (RHS 33b) viene a cercare il significato
esatto di teru'à e riporta l'opinione dell'Amorà Abbaié che si rifà
alla traduzione del targum aramaico, che ha una grande importanza
nell'interpretazione della Torà, notando come il Targum traduca yom
teru'à con yom yevavà (pianto). E la Ghemarà aggiunge: "Ed è scritto a
proposito della madre di Siserà (Giudici 5:28): "Guardava attraverso la
finestra e piangeva (vateyabev) la mamma di Siserà". Il problema è ora
quello di sapere cosa sia esattamente quella voce che si chiama yevavà:
"un saggio riteneva che si trattasse di una voce di ghenichà, che è una
voce di sospiro spezzato (ganach), [come quella di un malato che si
lamenta (Rashì)], mentre un altro saggio riteneva che si trattase di un
pianto a singhiozzo (yalule yalel)" [come un uomo che piange e si
lamenta con voci spezzate (Rashi)] onde noi suoniamo con lo shofar
facendo sentire sia voci che si chiamano shevarim, sia voci che si
chiamano teru'à.
Non entriamo ora nei particolari di questa discussione e di questa
halachà; come prima reazione possiamo pensare: non si poteva trovare
una madre migliore da cui apprendere il suono dello shofar, come per
esempio nostra madre Sarà, riferendosi alla quale Isacco gridava:
"Annunziate a mia madre che la sua gioia è sparita, che il figlio da
lei partorito a novant'anni fu preda del fuoco e del coltello, dove si
troverà chi possa confortarla? La mia più grande angustia, o mamma mia,
è per il tuo pianto e per il tuo dolore". (Dalla poesia introduttiva al
suono dello Shofar di I.Abbas, dal Machazor curato da Rav Disegni
z.l.). È vero: formalmente non avevamo la stessa radice di yevavà, ma
dobbiamo -in uno dei momenti più solenni dell'anno ebraico - riferirci
proprio al pianto della madre del comandante dell'esercito cananeo
nemico di Israele? Ebbene è quello che ci dice la nostra tradizione; vi
è di piu`: anche il numero di cento suonate che siamo abituati a
sentire di Rosh Hashanà lo apprendiamo proprio dal pianto della madre
di Siserà (Tossafot, Peri Magadim ed altri autori). Siamo consapevoli
che vi sono interpretazioni cabbalistiche, ma possiamo dare più
modestamente una nostra interpretazione del passo talmudico: nel
momento più intimo del popolo ebraico davanti a D., nel momento in cui
lo Shofar ci invita a risvegliarci, ad essere consapevoli delle nostre
azioni, ad esaminare le nostre vie, l'Ebraismo non può non darci anche
un insegnamento universale; sappi apprendere, o Ebreo, la giusta
lezione perfino dal pianto di una madre cananea per la sorte del
figlio, anche se questo figlio è tuo nemico; in questi suoni c 'è la
voce di D-o, ma vi è anche la nostra voce, il nostro pianto, un pianto
nei secoli di padri e madri ebrei che si rivolgono a D-o, un pianto che
si mescola al pianto della madre di Siserà e D-o benedetto tiene conto
di tutto.
Alfredo
Mordechai Rabello, Gerusalemme
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notizie
flash |
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rassegna
stampa |
Qui Torino - Un progetto per i nuovi leader
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Leggi la rassegna |
Il
progetto del Dipartimento di Educazione e Cultura dell'UCEI rivolto ai
leader comunitari è stato presentato dal rav Roberto Della Rocca,
direttore dei dipartimento, al Consiglio della Comunità di Torino .Un
programma di un anno, suddiviso in cinque moduli della durata di un due
giorni ciascuno, che si svolgerà nelle città di Torino, Napoli, Milano,
Firenze e Trieste...
Tommaso De Pas
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Dopo
la giornata nella quale tutti i riflettori erano puntati sui discorsi
di Abbas e di Netanyahu all’ONU, ora è il momento delle trattative
dietro le quinte. Su queste è impossibile riferire, mancando qualsiasi
certezza, ma è sicuro che i giochi si fanno pesanti, considerando anche
la posta in gioco.
Emanuel
Segre Amar
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è il giornale dell'ebraismo
italiano |
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 |
Dafdaf
è il giornale ebraico
per bambini |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
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