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Davar
acher - La parte che consente |
Al centro
della liturgia di Yom Kippur vi sono le letture sul rituale che veniva
eseguito nel Tempio per la ricorrenza, in cui compare con rilievo la
figura dei due capri identici, uno sacrificato e l'altro caricato
simbolicamente di tutti i peccati del popolo di Israel e "dato ad
Azazel" ovvero abbandonato, a quanto sembra, nel deserto. Il rito
descritto è molto enigmatico e si presta a complessi ragionamenti
esegetici. Nel linguaggio popolare e certamente in maniera
inesatta ne
è nata però l'espressione "capro espiatorio", che ha assunto un
significato metaforico diverso, venendo a indicare l'innocente cui si
fanno scontare peccati non suoi. In realtà il capro del Tempio non era
né più né meno innocente degli altri animali che venivano sacrificati e
forse aveva una sorte migliore, dato che veniva reimmesso nel suo
ambiente naturale. La sua sorte aveva soprattutto un valore
simbolico,
soprattutto per l'identità di forme con l'altro capro, sacrificato,
cioè in ebraico "avvicinato" alla
Divinità.
Ma l'altra figura
popolare del capro espiatorio, isolato fra i suoi pari e vittima di una
proiezione sociale di colpa del tutto infondata, è assai diffusa e
indica un meccanismo sociale reale e molto comune, come hanno mostrato
gli studi di René Girard. Il meccanismo è costante, lo stesso indicato
dalla storia della tragedia shakespeariana "Timone d'Atene", dal mito
di Edipo, o dalla vicenda di Socrate. Vi è qualcuno che ha successo e
magari lo vive con generosità e partecipazione, in una situazione
sociale di tensione. E' però (o perciò) isolato, diverso dagli altri.
Intorno a lui cresce un'ostilità senza ragione ma potente e
universale,
gli vengono fatte accuse ingiuste, viene visto come causa di tutti i
mali e ostracizzato, e alla fine egli è abbattuto e distrutto. Dopo la
rovina e di solito la morte, però, può capitare che il capro
espiatorio
venga esaltato come un santo e ricordato di nuovo e forse
esageratamente per i suoi meriti.
La cosa ci interessa non solo
perché la metafora scelta per questo meccanismo sociale ha origini
ebraiche, ma anche perché ci ha spesso colpito, nel mondo
cristiano
come in quello islamico e prima in Persia come in Egitto e a Roma. Il
meccanismo delle persecuzioni ha spesso scelto comunità floride e ben
integrate nel loro ambiente, utili culturalmente ed economicamente alla
società con calunnie insensate (il deicidio, l'accusa del sangue,
la
peste ecc.). Spesso queste persecuzioni sono state reiterate per il
semplice fatto che c'erano state prima, anche se molto volte esse sono
state promosse consapevolmente da autorità politiche e religiose. Negli
ultimi secoli il popolo ebraico è stato accusato di essere
l'autore di
tutte le rivoluzioni e contemporaneamente dello sfruttamento
capitalistico contro cui le rivoluzioni si rivolgevano, di tutti i mali
della modernità, di essere integrato e quindi pericolosamente
invisibile, e di non essere integrabile e quindi pericolosamente
estraneo, di avere poteri occulti e di essere un carico per le nazioni.
L'ultimo grande ciclo di queste persecuzioni, che peraltro si
riproducono da millenni, è stata la Shoà. In essa si è realizzata anche
l'operazione finale di canonizzazione della vittima ad opera
degli
stessi persecutori, che compare nel modello di Girard. I popoli che
furono, con le debite eccezioni, "volonterosi carnefici", celebrano
oggi giornate della memoria e erigono monumenti, salvo sotto sotto
accusare di nuovo gli ebrei, come mostrano i sondaggi, di "esagerare"
nel ricordo della Shoà e magari di "sfruttarla" per i loro
(naturalmente loschi) fini.
Il ciclo infatti non è finito. Ora
prende come capro non più i singoli ebrei, o le
loro comunità
disperse nella diaspora, ma lo Stato in cui è raccolta e protetta e
finalmente liberata la maggioranza del nostro popolo, Israele. Se forse
vi fu, dopo la Shoà, un momento di grazia in cui per i popoli europei
era chiaro che le loro vittime avevano diritto a un rifugio, e se il
nuovo Stato fiorì e fiorisce sul piano economico e sociale, si sforza
di mantenere una dimensione equa e democratica nelle condizioni più
difficili di una guerra che dura da cent'anni, ora il meccanismo di
espulsione e di colpevolizzazione agisce a tutta forza, proprio per via
del successo. E' troppo "occidentale", troppo moderno, troppo
benestante quello Stato, è colpevole di aver abbandonato il suo sano
stato di povertà (di espiazione?) E' colpa di Israele, com'era colpa di
Timone, di essersi isolato, cioè dell'essere oggetto del rancore di
coloro che lo isolano; Israele è di nuovo "troppo potente" e quindi va
ridotto in debolezza; di nuovo opprime e succhia il sangue delle sue
vittime; anzi, è esso stesso colpevole di imporre agli altri quel che
egli stesso ha subito, "si comporta come i nazisti".
I giornali
sono pieni di paterni consigli su come Israele dovrebbe pentirsi,
lasciar fare i palestinesi quel che vogliono, anche se essi
dicono con
sempre maggiore chiarezza che il loro scopo è la sua distruzione. Va
corretto, messo sotto tutela, secondo l'esempio che ha molta
fortuna
nei giornali americani di sinistra: "lascereste montare in macchina e
guidare un amico ubriaco?" Gli israeliani sono "ubriachi", arroganti,
non chiedono scusa anche se hanno ragione, esagerano a difendersi. Sono
paranoici, "estremisti", colonialisti, anzi "coloni". Dovrebbero
smetterla e accettare i "diritti" dei palestinesi, loro sì,
vittime e
originari di quei posti (anche se il nome che si sono dati è romano, la
delimitazione di quella terra non è mai comparsa nei testi o nella
letteratura araba, Gerusalemme non è mai citata nel Corano e tutti
sappiamo come e quanto nella nostra tradizione). Non importa, hanno
ragione anche quando hanno torto, perché "sono i più deboli", sono
"oppressi", anzi "occupati".
In realtà vi sono decine di
testimonianze dirette e recenti, spesso arroganti, del fatto che un
accordo sul riconoscimento dello Stato palestinese non fermerebbe la
"lotta" contro Israele, ma la rafforzerebbe con una vittoria decisiva,
e che lo scopo finale di questa "lotta" è una "Palestina" "dal fiume al
mare", dove gli ebrei non avrebbero diritto di vivere (salvo quelli
presenti da più di un secolo, come indicano i loro statuti). Ma nessuno
fa cenno a queste poco amichevoli intenzioni. Nel paradigma del capro
espiatorio tutte le colpe sono concentrate sulla vittima, gli altri
sono i giusti, perché – senza saperlo – hanno scaricato su di
essa i
loro peccati. Israele è odiata dagli occidentali più morali
perché è
colpevole dei loro peccati storici, il colonialismo, l'imperialismo, il
militarismo. Se loro sono innocenti, Israele dev'essere colpevole; se
Israele è colpevole, essi si sono lavati dei loro peccati. Anzi, essi,
innocenti,sono vittime della vittima e la eliminano (o la fanno
eliminare da chi ne ha ancor più diritto di loro) con un atto per così
dire terapeutico, buono, santo, per risanare la società, come spiega
Girard. Ci sarà tempo poi per nuove giornate della memoria e
nuovi
monumenti.
E naturalmente come capita in questi casi vi è una parte
della vittima che consente e rincara le dosi, stabilendo un'equazione
fra sionismo e nazismo che – duole dirlo – fu proposta già da
Buber
quando il nazismo era in piedi, poi ripresa da Leibowitz e da
una
parte consistente della sinistra e rilanciata da gruppi come Naturei
Karta e Satmar. Non cito persone più vicine a noi, perché oggi non
voglio polemizzare ma spiegare. Forse queste accuse interne
non
cambiano il corso della persecuzione, probabilmente non sono azioni
importanti, se non sul piano morale; ma certamente aiutano i
persecutori, indeboliscono e delegittimano il "capro espiatorio", come
racconta anche la tragedia di Timone.
Questo è il pericolo
attuale, cui dobbiamo fare fronte. E possiamo farlo solo se lo
comprendiamo, se prendiamo atto che un nuovo ciclo di persecuzione è in
preparazione, non solo per Israele ma anche di conseguenza per
la
diaspora, e se siamo uniti nel fronteggiarlo. Non indico qui i sintomi
né la cause di questo pericolo in corso – è un compito cui mi dedico
quotidianamente e per cui qui manca lo spazio. Mi limito a ripetere che
è urgente una presa di coscienza di questa situazione, la
consapevolezza da parte di tutto il popolo ebraico che di nuovo si
trova a dover ragionare sulla propria sopravvivenza.
Ugo Volli
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Qui
Washington - Young professionals
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C’è una cosa che mi colpisce
sempre vagando per le sinagoghe di Washington: l’età media delle
persone intorno a me. Pochi anziani, pochi bambini. Ma tanti,
tantissimi giovani. Rabbini, presidenti e “boards” (consigli) delle
suddette sinagoghe lo sanno bene, e così non stupisce che gli
eventi più in voga siano quelli rivolti ai “young
professionals”.
Cene, pranzi, lezioni, e appuntamenti di ogni tipo per ventenni e
trentenni che popolano la città, arrivati da tutti gli Stati Uniti, e
di tanto in tanto anche dal resto del mondo, per lavorare o studiare
nella capitale. Già perché, pur nel mezzo di questa crisi economica
che oggi morde anche quel gruppo di giovani “educated” che
fino a qualche anno fa trovavano lavoro come ridere, l’ombra della
Casa bianca offre ancora moltissime opportunità.
Le sinagoga ci tengono ad accaparrarsi le facce nuove in giro
per la capitale, così ogni autunno si ripete il rito
degli Shabbaton di benvenuto. Spesso in queste occasioni durante il
pasto sei costretto ad alzarti e presentarti, raccontando chi
sei, da dove vieni e perché ti trovi a DC. E c’è una cosa
di cui possiamo essere soddisfatti: dichiararsi italiani in
questo contesto
suscita sempre un “ooohhh” di ammirazione e
interesse, soprattutto tra due categorie di persone, i
fortunati che hanno avuto la possibilità di provare i
ristoranti kasher di Roma e quelli che non erano consapevoli
dell’esistenza di una comunità ebraica italiana.
Tra gli young professionals in giro, la metà lavora in
qualcosa che ha a che fare con la politica e le relazioni
internazionali, l’altra metà è costituita da avvocati, il che
permette il fatto che le conversazioni “serie” a tavola durino
delle ore.
Tra la popolazione del tipico shul washingtoniano non mancano poi le
giovani coppie, uscite fresche dal college, o magari ancora
impegnate negli studi.
Ma insomma, famiglie, anziani e bambini dove si
nascondono? Semplice, nei sobborghi. In Maryland, in Virginia.
Dove il costo della vita è meno proibitivo ed è
anche più facile avere a disposizione tutto il
necessario per una vita ebraica, prima di tutto il
cibo kasher. Perché in centro, contrariamente a ciò che si
potrebbe pensare non è così ovvio. In realtà, anzi, i negozi
kasher sono più numerosi a Milano. Ma questa è un’altra storia
all’ombra della Casa bianca.
Rossella
Tercatin
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Sorgente
di vita - I cedri del lulav
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La
puntata di questa sera apre con un servizio sulla raccolta dei cedri a
Santa Maria del Cedro in Calabria, dove da secoli si raccolgono i
frutti più belli destinati agli ebrei di tutto il mondo: insieme a rami
di palma, di salice e di mirto il cedro formerà il “lulav”,
un
insieme di piante simbolo della diversità degli uomini, usato durante
la festa delle capanne (...)
p.d.s
continua
>>
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