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9 ottobre 2011 - 11 Tishri 5772
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Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

"Non siamo così sfrontati e ostinati da dire davanti a Te, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, che siamo giusti e non abbiamo peccato". È l'inizio del viddui - la confessione delle colpe - che abbiamo più volte recitato ieri, durante il digiuno di Kippur. È una introduzione in apparenza inutile: in effetti subito dopo comincia l'elenco alfabetico delle trasgressioni. Prima della consapevolezza specifica, evidentemente, è necessario liberarsi dall'idea di essere senza colpe; tutti i giorni, come tutti i giorni si recita il viddui.


David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Nel “documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’antisemitismo” distribuito in questi giorni dal Comitato parlamentare istituito nel dicembre 2009, si osservano molte cose di buon senso. Tra queste si sottolinea il ruolo preventivo che dovrebbe svolgere la scuola. Non dico che non sia un aspetto importante, ma a me sembra indispensabile, perché la scuola possa essere uno dei luoghi riflettere su ciò che ci si aspetta dallo studio e dalla storia. Fino a che si chiederà agli insegnanti e agli storici di svolgere un ruolo morale non si faranno passi significativi. Al di là delle buone intenzioni dei molti che lavorano nella  scuola, di una classe politica che si preoccupa del grado di sapere di cui saranno dotati i cittadini di domani, il problema non è conoscere meglio il passato, perché questo ci eviterà domani brutte sorprese.
Questo è un modello socratico di formazione (nel caso specifico, significa dire che si è antisemiti per ignoranza) per cui l’antisemitismo si batte se si conosce meglio il passato. Forse è anche così, ma non mi pare un passaggio risolutivo. Il problema è la disponibilità a credere nelle spiegazioni, ovvero nell’accontentarsi delle cose che si sanno. Ignoranza e pregiudizio per quanto spesso coesistano, non coincidono. Per cui un altro percorso da battere è quello che non chiede di saperne di più, ma indagare quale sia la soglia minima al di là della quale un’informazione si trasforma in criterio di giudizio.
Oggi l’antisemitismo, nelle sue forme attuali, non è essenzialmente ignoranza, bensì discende dal modello interpretativo della storia che si adotta. Ovvero discende non da non sapere il passato, ma da come ce lo raccontiamo. E spesso questo non dipende dal fatto di aver studiato male la storia o di saperne poca o di non conoscerla affatto, ma da ciò che riteniamo sia la radice che fonda il nostro malessere nel presente. Come nell’arte scultorea, la fisionomia dell’antisemitismo non si capisce aggiungendo materia, ma spesso, scavando la materia che già c’è.

davar
Qui Roma - "Il mio fratellino ucciso e dimenticato"
Gadiel Gay Taché con Benedetto XVI, Renzo Gattegna e Riccardo Pacifici"Mio fratello si chiamava Stefano. Stefano Gay Taché. Il 9 ottobre del 1982 aveva appena due anni quando fu ammazzato da un commando di terroristi mentre usciva dalla Sinagoga Maggiore di Roma, al termine della festa di Sukkot, assieme alla sua famiglia. Mio fratello aveva due anni meno di me, che mi chiamo Gadiel. Oggi, a ventinove anni da quel massacro su cui l'Italia ha steso un velo di ambiguo e imbarazzato silenzio, ho deciso di impegnarmi perché sia conservato il ricordo di un bambino ucciso nel cuore di Roma". "Nel Ghetto che aveva già conosciuto la vergogna della deportazione degli ebrei portati ad Auschwitz il 16 ottobre del '43. In uno slargo tra via del Tempio e via Catalana che la giunta di Veltroni, accogliendo la richiesta della comunità ebraica romana, decise di intestare a Stefano Gay Taché, bambino romano, italiano, ebreo". Gadiel Taché oggi ha trentatré anni, si è laureato in Lettere, lavora come broker assicurativo, fa il musicista e per onorare la memoria del suo fratellino strappato via dalla pioggia di granate e mitragliate degli assassini antisemiti di ventinove anni fa ha composto una canzone intitolata «Little Angel». (...)

Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera 9 ottobre 2011

(nella foto, pubblicata dal Corriere della Sera, Gadiel Gay Taché assieme al pontefice Benedetto XVI, al presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e al presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici)

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Davar acher - La parte che consente
Ugo VolliAl centro della liturgia di Yom Kippur vi sono le letture sul rituale che veniva eseguito nel Tempio per la ricorrenza, in cui compare con rilievo la figura dei due capri identici, uno sacrificato e l'altro caricato simbolicamente di tutti i peccati del popolo di Israel e "dato ad Azazel" ovvero abbandonato, a quanto sembra, nel deserto. Il rito descritto è molto enigmatico e si presta a complessi ragionamenti esegetici. Nel linguaggio popolare  e certamente in maniera inesatta ne è nata però l'espressione "capro espiatorio", che ha assunto un significato metaforico diverso, venendo a indicare l'innocente cui si fanno scontare peccati non suoi. In realtà il capro del Tempio non era né più né meno innocente degli altri animali che venivano sacrificati e forse aveva una sorte migliore, dato che veniva reimmesso nel suo ambiente naturale. La sua sorte aveva soprattutto un valore  simbolico, soprattutto per l'identità di forme con l'altro capro, sacrificato, cioè in ebraico "avvicinato" alla Divinità.    
Ma l'altra figura popolare del capro espiatorio, isolato fra i suoi pari e vittima di una proiezione sociale di colpa del tutto infondata, è assai diffusa e indica un meccanismo sociale reale e molto comune, come hanno mostrato gli studi di René Girard. Il meccanismo è costante, lo stesso indicato dalla storia della tragedia shakespeariana "Timone d'Atene", dal mito di Edipo, o dalla vicenda di Socrate. Vi è qualcuno che ha successo e magari lo vive con generosità e partecipazione, in una situazione sociale di tensione. E' però (o perciò) isolato, diverso dagli altri. Intorno a lui cresce un'ostilità senza ragione ma potente e universale, gli vengono fatte accuse ingiuste, viene visto come causa di tutti i mali e ostracizzato, e alla fine egli è abbattuto e distrutto. Dopo la rovina e di solito la morte, però, può capitare che il capro espiatorio venga esaltato come un santo e ricordato di nuovo e forse esageratamente per i suoi meriti.
La cosa ci interessa non solo perché la metafora scelta per questo meccanismo sociale ha origini ebraiche, ma anche  perché ci ha spesso colpito, nel mondo cristiano come in quello islamico e prima in Persia come in Egitto e a Roma. Il meccanismo delle persecuzioni ha spesso scelto comunità floride e ben integrate nel loro ambiente, utili culturalmente ed economicamente alla società con calunnie insensate (il deicidio, l'accusa del sangue, la  peste ecc.). Spesso queste persecuzioni sono state reiterate per il semplice fatto che c'erano state prima, anche se molto volte esse sono state promosse consapevolmente da autorità politiche e religiose. Negli ultimi secoli il popolo ebraico è stato accusato di essere l'autore di tutte le rivoluzioni e contemporaneamente dello sfruttamento capitalistico contro cui le rivoluzioni si rivolgevano, di tutti i mali della modernità, di essere integrato e quindi pericolosamente invisibile, e di non essere integrabile e quindi pericolosamente estraneo, di avere poteri occulti e di essere un carico per le nazioni. L'ultimo grande ciclo di queste persecuzioni, che peraltro si riproducono da millenni, è stata la Shoà. In essa si è realizzata anche l'operazione finale di canonizzazione della vittima ad opera degli stessi persecutori, che compare nel modello di Girard. I popoli che furono, con le debite eccezioni, "volonterosi carnefici", celebrano oggi giornate della memoria e erigono monumenti, salvo sotto sotto accusare di nuovo gli ebrei, come mostrano i sondaggi, di "esagerare" nel ricordo della Shoà e magari di "sfruttarla" per i loro (naturalmente loschi) fini.
Il ciclo infatti non è finito. Ora prende come  capro  non più i singoli ebrei, o le loro comunità disperse nella diaspora, ma lo Stato in cui è raccolta e protetta e finalmente liberata la maggioranza del nostro popolo, Israele. Se forse vi fu, dopo la Shoà, un momento di grazia in cui per i popoli europei era chiaro che le loro vittime avevano diritto a un rifugio, e se il nuovo Stato fiorì e fiorisce sul piano economico e sociale, si sforza di mantenere una dimensione equa e democratica nelle condizioni più difficili di una guerra che dura da cent'anni, ora il meccanismo di espulsione e di colpevolizzazione agisce a tutta forza, proprio per via del successo. E' troppo "occidentale", troppo moderno, troppo benestante quello Stato, è colpevole di aver abbandonato il suo sano stato di povertà (di espiazione?) E' colpa di Israele, com'era colpa di Timone, di essersi isolato, cioè dell'essere oggetto del rancore di coloro che lo isolano; Israele è di nuovo "troppo potente" e quindi va ridotto in debolezza; di nuovo opprime e succhia il sangue delle sue vittime; anzi, è esso stesso colpevole di imporre agli altri quel che egli stesso ha subito, "si comporta come i nazisti".
I giornali sono pieni di paterni consigli su come Israele dovrebbe pentirsi, lasciar fare i palestinesi quel che vogliono, anche se essi dicono con sempre maggiore chiarezza che il loro scopo è la sua distruzione. Va corretto, messo sotto  tutela, secondo l'esempio che ha molta fortuna nei giornali americani di sinistra: "lascereste montare in macchina e guidare un amico ubriaco?" Gli israeliani sono "ubriachi", arroganti, non chiedono scusa anche se hanno ragione, esagerano a difendersi. Sono paranoici, "estremisti", colonialisti, anzi "coloni". Dovrebbero smetterla e accettare i "diritti" dei  palestinesi, loro sì, vittime e originari di quei posti (anche se il nome che si sono dati è romano, la delimitazione di quella terra non è mai comparsa nei testi o nella letteratura araba, Gerusalemme non è mai citata nel Corano e tutti sappiamo come e quanto nella nostra tradizione). Non importa, hanno ragione anche quando hanno torto, perché "sono i più deboli", sono "oppressi", anzi "occupati".
In realtà vi sono decine di testimonianze dirette e recenti, spesso arroganti, del fatto che un accordo sul riconoscimento dello Stato palestinese non fermerebbe la "lotta" contro Israele, ma la rafforzerebbe con una vittoria decisiva, e che lo scopo finale di questa "lotta" è una "Palestina" "dal fiume al mare", dove gli ebrei non avrebbero diritto di vivere (salvo quelli presenti da più di un secolo, come indicano i loro statuti). Ma nessuno fa cenno a queste poco amichevoli intenzioni. Nel paradigma del capro espiatorio tutte le colpe sono concentrate sulla vittima, gli altri sono i giusti, perché – senza  saperlo – hanno scaricato su di essa i loro peccati. Israele è odiata dagli occidentali più morali perché è colpevole dei loro peccati storici, il colonialismo, l'imperialismo, il militarismo. Se loro sono innocenti, Israele dev'essere colpevole; se Israele è colpevole, essi si sono lavati dei loro peccati. Anzi, essi, innocenti,sono vittime della vittima e la eliminano (o la fanno eliminare da chi ne ha ancor più diritto di loro) con un atto per così dire terapeutico, buono, santo, per risanare la società, come spiega Girard. Ci sarà tempo poi per nuove giornate della memoria e nuovi monumenti.
E naturalmente come capita in questi casi vi è una parte della vittima che consente e rincara le dosi, stabilendo un'equazione fra sionismo e nazismo che – duole dirlo – fu proposta già da Buber quando il nazismo era in piedi, poi ripresa da Leibowitz e da una parte consistente della sinistra e rilanciata da gruppi come Naturei Karta e Satmar. Non cito persone più vicine a noi, perché oggi non voglio polemizzare ma spiegare. Forse queste accuse interne non cambiano il corso della persecuzione, probabilmente non sono azioni importanti, se non sul piano  morale; ma certamente aiutano i persecutori, indeboliscono e delegittimano il "capro espiatorio", come racconta anche la tragedia di Timone.
Questo è il pericolo attuale, cui dobbiamo fare fronte. E possiamo farlo solo se lo comprendiamo, se prendiamo atto che un nuovo ciclo di persecuzione è in preparazione, non solo per Israele ma anche di conseguenza per la diaspora, e se siamo uniti nel fronteggiarlo. Non indico qui i sintomi né la cause di questo pericolo in corso – è un compito cui mi dedico quotidianamente e per cui qui manca lo spazio. Mi limito a ripetere che è urgente una presa di coscienza di questa situazione, la consapevolezza da parte di tutto il popolo ebraico che di nuovo si trova a dover ragionare sulla propria sopravvivenza.

Ugo Volli


Qui Washington - Young professionals
WashingtonC’è una cosa che mi colpisce sempre vagando per le sinagoghe di Washington: l’età media delle persone intorno a me. Pochi anziani, pochi bambini. Ma tanti, tantissimi giovani. Rabbini, presidenti e “boards” (consigli) delle suddette sinagoghe lo sanno bene, e così non stupisce che gli eventi più in voga siano quelli rivolti ai “young professionals”.
Cene, pranzi, lezioni, e appuntamenti di ogni tipo per ventenni e trentenni che popolano la città, arrivati da tutti gli Stati Uniti, e di tanto in tanto anche dal resto del mondo, per lavorare o studiare nella capitale. Già perché, pur nel mezzo di questa crisi economica che oggi morde anche quel gruppo di giovani “educated” che fino a qualche anno fa trovavano lavoro come ridere, l’ombra della Casa bianca offre ancora moltissime opportunità.
Le sinagoga ci tengono ad accaparrarsi le facce nuove in giro per la capitale, così ogni autunno si  ripete il rito degli Shabbaton di benvenuto. Spesso in queste occasioni durante il pasto sei costretto ad alzarti e presentarti, raccontando chi sei, da dove vieni e perché ti trovi a DC. E c’è una cosa di cui possiamo essere soddisfatti: dichiararsi italiani in questo      contesto suscita sempre un “ooohhh” di ammirazione e interesse, soprattutto tra due categorie di persone, i fortunati che hanno avuto la possibilità di provare i ristoranti kasher di Roma e quelli che non erano consapevoli dell’esistenza di una comunità ebraica italiana.
Tra gli young professionals in giro, la metà lavora in qualcosa che ha a che fare con la politica e le relazioni internazionali, l’altra metà è costituita da avvocati, il che permette il fatto che le conversazioni “serie” a tavola durino delle ore.
Tra la popolazione del tipico shul washingtoniano non mancano poi le giovani coppie, uscite fresche dal college, o magari ancora impegnate negli studi.
Ma insomma, famiglie, anziani e bambini dove si nascondono? Semplice, nei sobborghi. In Maryland, in Virginia. Dove il costo della vita è meno proibitivo ed è anche  più facile avere a disposizione tutto il necessario per una vita ebraica, prima di tutto il cibo kasher. Perché in centro, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare non è così ovvio. In realtà, anzi, i negozi kasher sono più numerosi a Milano. Ma questa è un’altra storia all’ombra della Casa bianca.

Rossella Tercatin

notizieflash   rassegna stampa
Sorgente di vita - I cedri del lulav
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La puntata di questa sera apre con un servizio sulla raccolta dei cedri a Santa Maria del Cedro in Calabria, dove da secoli si raccolgono i frutti più belli destinati agli ebrei di tutto il mondo: insieme a rami di palma, di salice e di mirto il cedro formerà  il “lulav”, un insieme di piante simbolo della diversità degli uomini, usato durante la festa delle capanne (...)

p.d.s

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