Si avvicina Sukkot, la festa delle
capanne, uno dei momenti più significativi del calendario ebraico che
si celebra sotto i fragili tetti delle capanne che ricordano le
abitazioni del popolo di Israele negli anni di peregrinazione nel
deserto dopo la fuga dall'Egitto. Per l'occasione l'Unione Giovani
Ebrei d'Italia ha deciso di fare le cose in grande organizzando eventi,
in collaborazione con i vari gruppi locali, in molte città d'Italia.
“L'Ugei si fa in quattro, anzi in cinque, facciamo in sei” recita uno
slogan sulla pagina facebook dell'ente. E in effetti lo sforzo fatto è
stato notevole con appuntamenti in programma da Milano a Roma, da
Genova a Torino, passando inoltre per Padova e Firenze. Sestuplicato
quindi il consueto appuntamento annuale con sede in una piccola o media
comunità. “Nelle scorse settimane ci chiedevamo quale location
scegliere per la tradizionale cena in sukkà dei giovani ebrei italiani”
racconta il vicepresidente Ugei Benedetto Sacerdoti. “Confrontando le
varie idee interne al Consiglio, aggiungendo un posto dopo l'altro,
abbiamo così colto l'ambiziosa opportunità di pianificare un'operazione
su larga scala che ci auguriamo di replicare e magari ampliare già dal
prossimo anno”. Essenziale, come detto, l'apporto dei vari gruppi
locali che sono già al lavoro dal punto di vista logistico e che non
mancheranno tra l'altro di adoperarsi ai fornelli. Con un vero e
proprio esordio: il neonato Gep (Giovani ebrei di Padova) presieduto da
Giulia Bulzacchi e dell'israeliano Yochai Avital. “Naturalmente da
padovano non posso che essere orgoglioso di questo debutto” chiosa
Sacerdoti, vicepresidente a distanza visto il recente trasferimento a
Londra per motivi di studio. Operativi poi tra gli altri i gruppi Efes
2 e i giovani di Rav Levi a Milano, il Delet a Roma, il Get a Torino,
il Joy a Genova e il Cgef a Firenze. Benedetto considera gli eventi di
Sukkot uno dei momenti chiave dell'anno Ugei, soprattutto alla luce del
Congresso ordinario di Torino (in programma dall'11 al 13 novembre) che
eleggerà il direttivo in carica per tutto il 2012: “Puntiamo molto su
queste iniziative perché le riteniamo fondamentali per risvegliare
l'attivismo nelle varie kehillot e alzare di conseguenza anche
l'interesse verso i lavori congressuali".
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Kippur, le categorie, le etichette
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Voglio
ringraziare rav Di Segni, per il discorso che ha tenuto al tempio
maggiore di Roma il sacro giorno di Kippur. Penso che se vogliamo
renderlo proficuo dobbiamo illuminare quelle zone, o quelle ombre che
possono suscitare, ancora una volta, travisamenti, dolore e
incomprensione (gli intellettuali e la loro spocchia, il loro rapporto
con lo Stato di Israele, i bei tempi dei rabbini che tolleravano tutto,
l’ebraismo chic e il compromesso penoso e patetico).
So che in situazioni pubbliche non bisognerebbe parlare della propria
storia, ma sento che la parte che racconto, non appartiene a me
solamente. Con infinite sfumature, come lei dice nel suo stimolante
discorso. È vero che le differenze sociali e culturali possono creare
un solco difficilmente rimarginabile, ma forse, questo avviene da
ambedue le parti. Io, per esempio avrei voluto un giorno essere
invitata ad un incontro con i cosiddetti “altri”. Avrei voluto
raccontare loro la mia storia, direttamente, per vedere se magari era
diversa da quella mormorata. Per quanto mi riguarda ho ospitato coloro
che hanno avuto voglia di confrontarsi. Pochissimi a dire il vero.
Alcuni di noi si sono sentiti additare come nemici di Israele, intesa
come popolo e Stato o come fondatori in pectore di diversi ebraismi
religiosi. Hanno visto stravolgere la propria storia, sentito che la
loro opinione era preventivamente considerata sbagliata. Nel marcare le
differenze non si tratta di individuare una classe sociale, quanto
reciproci pregiudizi culturali. C’è stata una maggioranza che ha
privilegiato il pensiero unico, guardando torvamente quell’altra. Solo
perché era diversa. Non uguale. Accusata di non appartenenza. Nella
realtà l’auspicabile visione “di un’identità ebraica e un rapporto con
la religione di tutte le gradazioni e varietà possibili” è stata più
volte sopraffatta.
Non ha reagito con spocchia, semmai con delusione.
Alla tolleranza religiosa che viene imputata all’ebraismo di un tempo,
per intenderci con sincerità, quello di rav Toaff, si potrebbe
contrapporre l’eccesso di tolleranza o addirittura in certi casi di una
qualche simpatia verso uomini e partiti che fecero dell’antisemitismo e
della persecuzione razziale un elemento distintivo della loro origine
politica.
La storia vissuta sulla propria pelle, aveva reso quella generazione
consapevole di quanto allora tutto l’ebraismo, in tutte le sue
sfumature, non poteva sfuggire ad un destino comune, quello della
persecuzione e della morte. Noi lo sappiamo, ma loro c’erano. Lo sforzo
fatto era quello di tenere unito quel mondo, con uno sguardo paterno,
anche se attento alle regole. Non abbastanza? Forse. Non sta a me
giudicarlo. Quello che so è che l’ebraismo italiano è esistito e ha
avuto voce in capitolo nell’ambito dell’ortodossia. C’è molto da
correggere probabilmente ma senza emarginare tutti coloro che non
aderiscono completamente. Come ormai avviene all’interno delle stesse
famiglie.
Chi le scrive non rispetta lo Shabbat, va in macchina. Lo fa il venerdì
sera, quando attraversa la città per raggiungere la casa paterna, dove
si riunisce la famiglia per recitare il Kiddush e mangiare insieme la
sera della festa. Cascasse il mondo lo ha sempre fatto. Lei giustamente
dirà che è sbagliato. Ma questo rispecchia il mio ebraismo. Non voglio
dire che sia giusto, dico che è il mio.
Forse, l”essenza dell’ebraismo è ciò che la dialettica dovrebbe
insegnare a fare” ma senza mai dimenticare che questa è confronto e non
implica una sintesi affidata a una autorità ad essa preposta, fosse
anche l’autorità rabbinica. Un confronto, insieme, perché si trovi la
strada comune per salvaguardare nel modo migliore la cosa a cui tutti
tendiamo, la vitalità delle nostre kehillot, la sopravvivenza dello
Stato di Israele, il rapporto con la religione ebraica, con la nostra
storia che è strettamente legata alla storia del paese in cui viviamo o
in cui abbiamo vissuto, consci che non ci può essere un futuro ebraico
in continenti in cui l’antisemitismo diviene una bandiera. Questa non è
la ricerca di ciò che il mondo esterno considera chic e arguto. È il
desiderio di confronto su un mondo che cambia, forse, come giustamente
dice lei, non in meglio.
È proprio perché il nostro modo di vivere l’ebraismo è considerato “un
compromesso un po’ penoso e patetico” che quelli come me si
allontanano, alla ricerca di un luogo in cui vivere il proprio ebraismo
non sia “un peccato”, una trasgressione alle regole.
Forse questi mondi non sono così distanti nel sentire, forse i
compromessi del pensiero, sono solo ragionamenti comuni. Senza che
un’etichetta, prevenga la nostra capacità di ascolto.
Grazie per il suo stimolante discorso, rav Di Segni, grazie davvero,
perché ripropone un dibattito che è mancato al Congresso e di cui
abbiamo bisogno .
Claudia Fellus
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Il negazionismo e la Chiesa
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È
difficile credere che i negazionisti – come ha detto lo storico
Vidal-Naquet – siano una setta. Il fenomeno non è episodico né
marginale. Come è emerso negli ultimi anni investe ambiti diversi. La
Chiesa non ne è indenne. Il caso del vescovo lefebvriano William
Richardson, che ha negato l’esistenza delle camere a gas, va letto come
la spia di un atteggiamento verso la Shoah molto più profondo e diffuso
di quanto non si creda.
Quasi due anni fa ho denunciato la «questione Edith Stein», la filosofa
che è stata beatificata e poi santificata, perché morta a Auschwitz. Ho
sostenuto che Stein «forse non sarebbe stata ridotta al silenzio se la
Chiesa non avesse taciuto». Per questo sono stata attaccata dalle
colonne dell’Osservatore romano (3 dicembre 2009) non senza una certa
violenza. Ho ribadito la mia tesi affermando che la santificazione è
stata a tutti gli effetti una appropriazione cattolica della Shoah. E
ho aggiunto che parlare di «martire» è pericoloso e ambiguo: si fa
credere che Edith Stein – per usare le subdole parole della teologa
tedesca Gerl-Falkovitz – abbia offerto in «espiazione» la sua vita.
Espiazione di cosa e per chi?
Si può leggere la risposta nel sito web «La Porte Latine» tenuto dai
lefebvriani, gli ultratradizionalisti che la chiesa di Ratzinger sta
cercando di recuperare. In un dossier dedicato a Pio XII, di cui si
elogia il silenzio – perché a volte sarebbe meglio tacere – si legge:
«nel luglio del 1942, per esempio, la forte protesta dei vescovi dei
Paesi bassi contro le persecuzioni antisemite ha avuto il solo
risultato di estendere queste persecuzioni, com’è noto, agli ebrei
convertiti. In quella occasione sarebbe stata arrestata la carmelitana
Edith Stein che avrebbe presto offerto la sua vita in riparazione per
l’infedeltà del suo popolo che non ha voluto riconoscere Cristo».
Chissà come andranno le cose tra la Chiesa e i lefebvriani che si sono
riuniti in questi giorni ad Albano laziale. Senza dubbio contiguità e
complicità del genere rischiano di mettere a repentaglio non solo
l’incontro previsto ad Assisi per il 27 ottobre, ma ogni tentativo di
dialogo ebraico-cristiano.
Donatella Di Cesare, filosofa
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Qui Roma - Frank, un falso messia
La figura controversa dell'ebreo polacco Jacob Frank, vissuto alla fine
del XVIII secolo, sarà al centro di un incontro in programma questa
sera al Centro Bibliografico UCEI a Roma. All'incontro, che avrà inizio
alle 20.30 e sarà moderato da Myriam Silvera, parteciperanno tra gli
altri rav Riccardo Di Segni, Roberta Ascarelli, Laura Mincer e Fabrizio
Lelli. Interverrà inoltre Paweł Maciejko, autore del libro The Mixed
Multitude. Jacob Frank and the Frankist Movement, 1755-1816. Ad aprire
la serata i saluti di Giacomo Saban e Francesco Scorza Barcellona.
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