“L’antipatia
per la diversità, l'odio razziale, la xenofobia, avvelenano l’aria e
turbano le coscienze, determinando a volte episodi di violenza
inaccettabile. Occorre pertanto conoscere la storia, conoscere il
passato, senza il quale non esiste né presente né futuro”. Con queste
parole il presidente del Senato ha aperto oggi a Palazzo Giustiniani il
terzo appuntamento del percorso culturale La memoria e l’immagine,
legato al progetto Pietre d’Inciampo a cura di Adachiara Zevi. Un
evento organizzato per ricordare la deportazione degli ebrei romani del
16 ottobre 1943, che verrà solennemente ricordata con più eventi
domenica prossima, così come l’occasione per rivolgere un pensiero a
una grande figura del Novecento italiano, Tullia Zevi. “Una donna – ha
affermato il presidente Schifani – che ha attraversato con coraggio gli
anni bui della guerra e con altrettanto impegno si è dedicata alla
costruzione della democrazia italiana”. Anche il presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, attraverso una lettera, ha voluto
ricordare la sua profonda amicizia con Tullia Zevi, sottolineando
inoltre l’importanza della memoria per la costruzione di una solida
democrazia.
In rappresentanza delle istituzioni ebraiche sono poi intervenuti il
vicepresidente della Comunità di Roma, Giacomo Moscati e il consigliere
UCEI Victor Magiar. “Dobbiamo conservare la memoria così come non
possiamo dimenticare quella parte di popolazione che cercò di aiutare i
concittadini ebrei a salvarsi dalla furia nazifascista”, ha spiegato
Moscati, raccontando alla platea la propria esperienza familiare.
Facendo eco alle parole di Napolitano e Schifani, Magiar ha invece
dedicato il suo intervento a Tullia Zevi. “Tullia – ha affermato – è
sempre stata presente nel mondo ebraico così come nella realtà politica
italiana. Ha lottato a lungo per spiegare alla società civile come la
tutela e il valore delle minoranze siano importanti per la tempratura
di un Paese democratico”.
Adachiara Zevi ha poi presentato il progetto Pietre d'Inciampo, i
sanpietrini dedicati al ricordo delle vittime della deportazione
nazifascista, iniziativa ispirata al lavoro dell’artista tedesco Gunter
Demnig. L'apposizione delle Stolpersteine a Roma è stata peraltro
documentata dal progetto fotografico di alcuni studenti e docenti
dell'Istituto Rossellini presenti questa mattina a Palazzo Giustiniani
assieme ai sopravvissuti Alberta Levi Temin e Piero Terracina, che
davanti al folto pubblico hanno ricordato l'importanza di non
dimenticare e tramandare valori democratici e di tolleranza alle nuove
generazioni.
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Rapporto antisemitismo - Nirenstein: "Dati allarmanti"
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Il
44 per cento degli italiani dichiara di non provare simpatia per gli
ebrei. Questo il dato più allarmante che emerge dal Documento
conclusivo appena approvato all'unanimità dal Comitato di Indagine
Conoscitiva sull'Antisemitismo presieduto dalla vicepresidente della
Commissione Esteri della Camera Fiamma Nirenstein (nella foto). Formato
da 26 deputati di più estrazioni politiche, il Comitato ha posto fine a
due anni di intenso lavoro con un testo, articolato in più punti e
dedicato alle varie sfumature di questo fenomeno, che giunge a
conclusioni inquietanti sul livello di tolleranza e apertura della
società italiana e che verrà presentato al pubblico e alla stampa
lunedì 17 ottobre alle 10.30 nella Sala della Lupa della Camera dei
Deputati alla presenza di numerosi rappresentanti delle istituzioni
politiche e religiose nazionali (per l'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane sarà presente la vicepresidente Claudia De Benedetti).
Incentrato su una attività di monitoraggio e di approfondimento
tematico dell'antisemitismo, sia a livello internazionale che
nazionale, il programma dell'indagine conoscitiva è stato pensato in
una logica e prospettiva di indirizzo politico. Molte e differenziate
le angolature da cui è stato affrontato il tema. “In particolare – si
legge nel capitolo introduttivo dedicato ai programmi e agli obiettivi
– l’indagine è stata impostata in modo da evidenziare i nuovi caratteri
che tale fenomeno ha assunto rispetto a quelli tradizionali, con
particolare riferimento all’odio etnico e religioso, alimentato dal
fondamentalismo, e allo strumentale intreccio con l’antisionismo e con
le derive negazioniste. Si è valutato che la recrudescenza
dell’antisemitismo a livello mondiale, ed in particolare in Europa,
unitamente al complesso rapporto con le vicende del Medio Oriente,
induce a non sottovalutare gli episodi di intolleranza, che hanno avuto
luogo anche in Italia, e ad adottare una impostazione del problema che
coniughi i profili di interesse internazionale con quelli di interesse
nazionale”.
Fiamma Nirenstein si dice soddisfatta per la conclusione dei lavori, intensificatisi particolarmente nell'ultimo trimestre e parla di documento "allarmante e innovativo rispetto alla letteratura esistente in
materia". “I dati che abbiamo esaminato – spiega la deputata del
Partito delle Libertà – mettono in luce la crescita verticale della
piaga dell’antisemitismo. Un fenomeno che nel 2009 ha raggiunto un
picco senza precedenti dalla seconda guerra mondiale. Il Documento
descrive numerosi aspetti della questione esaminandoli da tutti i punti
vista: si parte dal dato secondo il quale il 44 per cento degli
italiani dichiara di non provare simpatia per gli ebrei per arrivare al
nuovo dilagante fenomeno dell’antisemitismo online, che è probabilmente
responsabile del fatto che il 22% dei giovani italiani ha un
atteggiamento variamente ostile verso questa realtà”.
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Per superare la crisi serve il pluralismo
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Il
discorso letto da Rav Di Segni a Roma all’ora della Neillà citava un
mio articolo ed è stato riprodotto a più riprese dalla stampa ebraica
on-line. Alcune reazioni che si sono registrate alla pubblicazione di
quell’intervento meritano un commento perché coinvolgono una più ampia
dimensione nazionale di cui va dato conto. Messaggi e lettere
fortemente irritate, provenienti da ebrei romani, genericamente
identificabili con la “piazza” (di cui parlavo nel mio articolo), hanno
completamente capovolto il senso delle parole mie e di quelle di rav Di
Segni attribuendo agli intellettuali ebrei, e in alcuni casi
soprattutto al sottoscritto, parole e pensieri mai espressi. L’equivoco
è stato risolto in poche ore: bastava leggere con attenzione per capire
che il mio ragionamento intendeva semplicemente segnalare e
sottolineare l’allarmante approfondirsi di una spaccatura sociale fra
l’ebraismo italiano vivo e reale (in cui mi colloco) e certa
intellettualità di sinistra un po’ snob, non necessariamente ebraica.
Tuttavia la reazione immediata e verbalmente aggressiva a una citazione
forse pronunciata in un contesto non adatto, ci deve spingere a
riflettere sulla tensione e sui toni esagitati usati in questi ultimi
mesi di continue polemiche. Emerge un dato allarmante. A me sembra che
da qualche tempo si vada chiedendo da più parti e in maniera diffusa
una certa qual forma di monolitismo, di univocità, che si scontra senza
speranza con una lunga tradizione di ebraismo “plurale” che è parte
integrante dell’ebraismo italiano. Si tratta, a ben vedere, di una
forma riflessa della politica nazionale italiana. Questa aspirazione
all’omogeneità riesce senza dubbio ad animare uno spirito di corpo e un
orgoglio (la piacevole e rassicurante sensazione di essere in tanti
dalla stessa parte, di condividere parole d’ordine e valori) che aiuta
a superare anche momenti difficili come quello che stiamo vivendo.
Siamo sotto pressione, in gravissima crisi economica (molte nostre
famiglie condividono le difficoltà di tanti altri in Italia, nel resto
d’Europa e pure in Israele), e c’è sempre una pressione antisemita che
incalza e che continua a sorprenderci. Ma colpire le voci diverse,
emarginare le espressioni di dissenso, cercare di annullare il
pluralismo delle nostre identità, non ci aiuterà ad affrontare questa
crisi e ad uscirne più forti. E non aiuterà neppure Israele, una
società che ci ha insegnato che la sua principale risorsa – più che
nella forza del suo esercito – risiede nella capacità di resistere in
maniera coesa mantenendo identità profonde e distinte.
Un ricco dibattito si è sviluppato sulla questione dei rapporti fra
Israele ed ebrei italiani: numerosi interventi hanno arricchito le
pagine di Moked e ci siamo variamente esercitati a distribuire diversi
aggettivi (non sempre amichevoli) ai nostri interlocutori. Ma Israele –
come ho già avuto modo di affermare – non è il vero problema. Il nostro
essere comunità, a Roma come a Milano, Torino, Padova o Merano, non si
misura sul nostro modo di intendere Israele, di amarlo, di esaltarlo o
di criticare le scelte di questo o di quel governo. Noi siamo qui, ora,
e lo siamo per scelta e per tradizione. Israele è non solo importante,
ma fondamentale per noi. Ha resuscitato le nostre comunità diasporiche
inviando shelichìm che ci hanno ri-educato all’ebraismo, ci ha
insegnato nuovamente l’ebraico (a noi, che dalle coste pugliesi e
calabresi lo avevamo a nostra volta insegnato, mille anni fa, a tutti
gli ebrei d’Europa). Ci ha trasmesso l’orgoglio della nostra
appartenenza. Credo però fermamente che il nostro essere ebrei non si
riduca alla nostra relazione con Israele, ma venga completato e
valorizzato soprattutto dalla nostra responsabilità di rappresentare
una millenaria tradizione, di studiarla, insegnarla, commentarla,
viverla, rinnovarla. Nella storia gli ebrei in Italia sono stati tante
cose, mai omologhe fra loro. Ci sono stati romani, siciliani e
pugliesi, tedeschi e spagnoli, ci sono stati marrani, sabbatiani,
mistici e razionalisti. E in epoca più moderna assimilati, religiosi
ortodossi, tradizionalisti, semiriformati, a cui si sono aggiunti negli
ultimi decenni ebrei provenienti dalle edòth hamizrach e Lubavitch,
oltre che nuovi riformati. Insomma, una grande articolazione, modi
diversi di essere ebrei che pur nel contrasto dei sentimenti e delle
pratiche si sono sempre fra loro riconosciuti (e a volte combattuti).
La nostra forza, e quella di Israele, risiede ieri come oggi nel
pluralismo, e sta a noi salvaguardarlo, per rispettare la nostra ricca
e variegata tradizione.
Gadi Luzzatto Voghera, storico
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Legge e ordine
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Mi
lasciano sempre perplesso i provvedimenti che regolano la vita
notturna. Comprendo le ragioni degli abitanti, che si lamentano
giustamente dell’eccesso di rumore o della sicurezza insufficiente, ma
temo che le ordinanze anti-alcool, anti-bottiglia, anti-pub siano
inevitabilmente condizionate da un pizzico di ideologia reazionaria, da
un vago anelito al «legge e ordine». Le nostre città sono innanzitutto
grigie, e quando si demonizza eccessivamente il divertimento giovanile,
il rischio è di renderle ancora più tetre. L’amministratore pubblico,
che deve tutelare la legittima aspirazione dei cittadini alla quiete,
si trova dunque in una posizione delicata.
Nel caso di Forte dei Marmi, però, la delicatezza è decisamente
mancata. Nell’ordinanza firmata dal sindaco Pd Umberto Buratti, e
approvata dal Consiglio comunale all’unanimità, si vieta la nascita di
nuovi esercizi commerciali che non rispondano alla cultura italiana e
versiliese. Non solo, dunque, divieto di kebab, come hanno riportato i
giornali, ma anche di qualunque merce troppo esotica.
Non si tratterebbe di una misura xenofoba, secondo il sindaco, perché a
essere proibiti sono anche pub inglesi o birrerie tedesche. Proviamo a
dimenticare la miriade di provvedimenti razzisti approvati da molti
comuni del Nord (generalmente a guida leghista), e accettiamo le
spiegazioni dei politici della storica località marittima. C’è da
essere più tranquilli?
Nella crisi globale che consegna l’Italia a una condizione di
maginalità, possiamo chiuderci al mondo esterno? È chiara l’esigenza di
mantenere un certo livello per assicurarsi un turismo d’élite, ma
questo significa rinchiudersi nel ghetto dorato della propria
tradizione? E New York? E Londra? E Berlino? Ragioniamo pure di
produzione locale e di chilometro-zero, ma scansiamo le scorciatoie
sbagliate e dannose.
Tobia
Zevi, Associazione Hans Jonas
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rassegna
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Medio Oriente, sì di Netanyahu
a nuove trattative con l'Anp
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L'Unione
Europea cerca di fare da mediatrice tra israeliani e palestinesi. E
incassa il sì del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che ha
accettato l'invito di Catherine Ashton, Alto rappresentante per gli
affari esteri e la politica di sicurezza dell'UE.
Un tentativo per riaprire le trattative tra le due parti, congelate
ormai da un anno. Nonostante le risposte positive di Netanyahu e del
presidente palestinese Abbas, la Ashton ha confessato come
difficilmente questo incontro porterà alla ripresa dei colloqui di pace.
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Dopo
gli scontri dei giorni scorsi che hanno visto la morte di quasi
quaranta copti ed il ferimento di alcune centinaia di persone, tutti i
quotidiani di oggi analizzano quegli avvenimenti. Dan Segre
sul Giornale si chiede, con la sua solita lucidità, chi stia dietro
questi incidenti; i Fratelli Musulmani, dei cani sciolti o i capi
militari spaventati per il proprio futuro? I militari terranno il
controllo, scrive Segre, ma si chiede pure: quali militari? Gli alti
ufficiali che oggi detengono il potere, o i capitani ed i tenenti che
oggi si tengono nascosti, ma che hanno le armi in pugno?
Emanuel
Segre Amar
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L'Unione
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