Un atteso momento di gioia
per la famiglia e per milioni di persone, ma anche una notizia dai
forti risvolti politici. La firma dell’accordo per la liberazione di
Gilad Shalit racchiude in sé un’articolata rete di riflessioni e
possibili conseguenze. Con l’aiuto di Vittorio Dan Segre, Sergio Della
Pergola e Sergio Minerbi, noti esponenti della Comunità degli Italkim e
collaboratori dei media UCEI, abbiamo cercato di comprendere meglio
l’effetto del sempre più plausibile ritorno a casa di Gilad. La
felicità per la notizia è evidente ma non si rinuncia alla cautela:
troppe volte gli israeliani sono rimasti scottati da grandi annunci
finiti in buchi nell’acqua. “La firma dell’accordo è molto importante
ma festeggerò quando vedrò Shalit finalmente in Israele” sottolinea
Vittorio Dan Segre, diplomatico e firma di primo piano del giornalismo
italiano. “E' il risultato di una trattativa durata anni e che forse
sarebbe potuta finire prima – dice Sergio Minerbi, professore
universitario nonché commentatore per diverse testate israeliane –
L’opinione pubblica israeliana era fortemente favorevole all’accordo ed
è stato sicuramente un fatto molto positivo per la famiglia Shalit. Dal
punto di vista politico, non credo che la situazione andrà in contro a
grandi cambiamenti”.
Le preoccupazione israeliana legata all’esito positivo dello scambio
dei prigionieri è così sintetizzata dal professore Sergio Della
Pergola, docente di Demografia all’Università di Gerusalemme, che
commenta: “Dobbiamo ricordare che Netanyahu ha raggiunto un accordo con
Hamas, un organizzazione terroristica, non stiamo parlando della
Svizzera”. Poi una riflessione sul risvolto politico della notizia.
“Siamo di fronte a un legame triangolare – afferma Della Pergola – i
protagonisti sono Israele, Hamas e Abu Mazen con l’importante ruolo
dell’Egitto: Israele pagherà un prezzo molto alto per riottenere Shalit
e l’impegno sarà quello di rinforzare la sicurezza e il controllo a
fronte della liberazione dei detenuti palestinesi; Hamas, che detesta
Abu Mazen, ha ottenuto una vittoria politica importante e cercherà di
rafforzare la sua leadership; infine Abu Mazen, che ha tirato la corda
in queste settimane con la questione del riconoscimento all’Onu di uno
Stato palestinese, dovrà far fronte al ritorno di Hamas”. Una
situazione già vista, riflette Della Pergola, ma con la relativa novità
del ruolo egiziano. Dopo mesi di instabilità politica, Il Cairo torna
infatti a far valere la sua voce nella questione israelo-palestinese e
incassa un risultato positivo. “La negoziazione egiziana è stata
sicuramente importante – afferma Dan Segre – ma non so quanto
inciderà sui rapporti tra Egitto e Israele; bisogna aspettare le
prossime elezioni per avere un’idea più chiara”. E sulla situazione tra
israeliani e palestinesi, ricorda amaramente, “tutto cambia per non
cambiare nulla”. Concetto che Minerbi esprime in francese, “plus ça
change plus c'est la même chose”.
Della Pergola come Minerbi, sottolinea infine come il raggiungimento
dell’accordo sia da collegare al cambiamento dei vertici dello
Shin Bet e del Mossad, evento probabilmente determinante per la
liberazione di Shalit. I precedenti capi delle due istituzioni legate
alla sicurezza di Israele erano infatti fortemente contrari alla
scambio di prigionieri. Con il nuovo corso, le carte in tavola sono
cambiate assieme ai giocatori e il fatidico accordo è stato siglato.
“Basta guardare chi era vicino a Netanyahu al momento della
dichiarazione ai media dell’attesa notizia" afferma Minerbi. "Al suo
fianco, e non può essere un caso, c’era il capo dello Shin Bet, Yoram
Cohen”.
Daniel Reichel
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Il
lavoro dei banalizzatori |
In un saggio
di recente pubblicazione (L’ardore, Milano 2010), in cui
vengono formulate alcune considerazioni sul gesto degli
attentatori delle Torri gemelle (paragonato al rito
sacrificale della ‘devotio’ romana, che vedeva un condottiero
militare ‘consacrarsi’ agli dèi, e andare incontro alla morte,
per salvare il proprio esercito: accostamento, in realtà,
assai discutibile, rappresentando la ‘devotio’ un valoroso esempio di
virtù militare, mentre quello dell’11 settembre costituisce
solo un vile e ignobile
crimine verso
civili inermi e innocenti), Roberto Calasso formula alcune interessanti
(quantunque, ancora, alquanto opinabili)
considerazioni riguardo alla scelta, nel dopoguerra, del
termine ‘Olocausto’ per indicare lo sterminio degli ebrei. Tale parola,
nota Calasso, richiamava i riti sacrificali effettuati, in passato,
nell’antico Israele, e così “lo sterminio di sei milioni di
ebrei per opera dei nazisti veniva designato con il termine
che indicava certe cerimonie sacre, celebrate fin dai tempi di
Noè dagli antenati degli uccisi”. La scelta, naturalmente, fu assai
infelice, ma, continua Calasso, “anche se qualcuno osservò che
si stava compiendo una enormità, non venne ascoltato e la
forza dell’uso impose la parola nelle varie lingue europee…
Eppure, nella scelta inappropriata e stridente della parola
‘Olocausto’…operava una mano invisibile, che non era solo la
mano dell’ignoranza. In quella parola si accennava a qualcosa che
oscuramente si stava profilando. La guerra aveva
soppiantato il sacrificio, ma il sacrifico era sulpunto di soppiantare
la guerra. Lo stermino degli ebrei, nelle sue procedure, era
stato qualcosa di intermedio tra il mattatoio e la bonifica. E
avrebbe avuto luogo in tempo di pace, come
una gigantesca operazione di smaltimento di
rifiuti. Perciò i termini militari non si
attagliavano più. Perciò veniva spontaneo, orribilmente spontaneo,
ricadere nella terminologia del sacrificio”.
Il punto sollevato meriterebbe una lunga discussione, che non è il caso
di fare in questa sede. E' senz’altro vero che la singolare
scelta della parola ‘Olocausto’ nacque, soprattutto,
dall’esigenza di adoperare un termine ‘nuovo’ e ‘ad hoc’,
adatto all’assoluta novità ed enormità di quanto era successo,
ed estraneo alle consuete categorie adoperate per le ‘normali’
violenze della guerra. Ma non è vero che ciò che era
accaduto potesse, in qualsiasi modo (sia pure secondo la
logica perversa del ‘mattatoio’ e della ‘bonifica’) richiamare l’idea
del sacrificio, che restava in ogni caso, e secondo ogni
ottica, quantunque deformata, del tutto lontana dalla realtà
del genocidio. Non va dimenticato, soprattutto, che la parola
fu adoperata, dapprima, negli Stati Uniti, e fu importata in
Europa proprio per il suo carattere apparentemente ‘esotico’ e
‘arcano’. In Europa, anche quando si narravano le vicende
dell’antico Israele, non si adoperava spesso la parola ‘olocausto’,
cosicché il significante (oscuramente suggestivo ed evocativo)
appariva, per così dire, ‘libero’, disponibile per un nuovo
significato. La nuova coppia significante-significato prese
rapidamente piede, tanto che oggi la parola ‘Olocausto’
indica, pressoché esclusivamente, lo stermino, e non più il
sacrifico rituale (atto per il quale, all’occorrenza, si
preferisce usare differenti espressioni). Ma, come è fatale
che accada, il termine, coniato per
indicare qualcosa di unico, terribile e irripetibile,
e considerato efficace per tale scopo specifico, è stato
rapidamente ‘rubato’ per altre, molteplici funzioni: e si sono
così moltiplicati gli ‘olocausti’ di popoli e soggetti vari,
sottoposti ad angherie e persecuzioni di diverso tipo e di
varia gravità. La parola, scelta per la sua ‘unicità’, si è andata
quindi gradualmente inflazionando e banalizzando, tanto da
perdere, in buona parte, il suo carattere solenne e
‘sacrale’. Si è reso necessario, così, l’uso di un altro
termine, e la scelta è caduta sulla parola ebraica
‘Shoah’, annientamento – decisamente più appropriata di
Olocausto -, che, com’è noto, ha incontrato un largo e rapido
successo, andando praticamente a sostituire, pressoché ovunque in
Europa – non in America, dove resiste ‘Holocaust’ – il vocabolo precedente.
Ma il tarlo della banalizzazione, si sa, non si arresta mai,
così come il lavoro dei banalizzatori. È recente, per esempio, il grido
di dolore di un noto politico italiano, innanzi allo
scempio della situazione carceraria italiana, nella quale si
anniderebbero “pezzi di Shoah”. Prima o poi, forse, occorrerà un’altra
parola.
Francesco
Lucrezi, storico
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Jacob
Frank, studiosi a confronto
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Un incontro denso di nuove prospettive di ricerca ha avuto luogo nella
sede del Centro Bibliografico Ucei, organizzato dal Centro di Cultura
Ebraica, dalla Rassegna Mensile di Israel e dal Centro romano di Studi
sull’Ebraismo dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.
L’occasione è stata la pubblicazione del libro The mixed Moltitude.
Jacob Frank and the Frankist movement, 1755-1816 di Pawel Maciejko,
docente presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. (...)
Maria
Cristina Bonanni
continua >>
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La notizia del giorno è l’accordo raggiunto fra Israele e Hamas per la
liberazione di Gilad Shalit, esattamente 1924 giorni dopo il suo
sequestro in territorio israeliano. Il soldato israeliano sarà
rilasciato dai suoi rapitori in cambio di 1024 prigionieri arabi
detenuti in Israele. (Per la notizia, si può leggere Battistini sul Corriere, ma meglio ancora il Jerusalem
Post). L’accordo è molto dettagliato: un terzo
di questi detenuti scontano ergastoli (...)
Ugo
Volli
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