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16 ottobre 2011 - 18 Tishri 5772 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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La succà, precaria per
definizione, ci indica l'inconsistenza
della materialità e la nostra dipendenza dalla protezione divina. Solo
in questo modo può diventare quella succà di pace che invochiamo ogni
sera, nella tefillà di arvit: è infatti sulla base di tali valori che i
conflitti perdono di senso.
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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Oggi si ripeteranno le molte
cerimonie che accompagnano la memoria del 16 ottobre 1943. Bene, si
dirà. Sicuramente meglio di quando questa memoria era privata, chiusa
nel dolore dei pochi che tornarono e di coloro che sentirono il peso di
quella tragedia e si impegnarono, per questo, a non lasciarli soli, e a
“tentare di rimetterli nel consorzio umano”, per riprendere le ultime
parole con cui Giacomo Debenedetti chiude il suo “16 ottobre 1943” e
soprattutto rovesciare il senso di quell’immagine terribile del gesto
della figura che compare senza volto dietro la grata del treno in
marcia verso Auschwitz. A lungo quell’impegno visse della buona
volontà. Ma il domani del “dopo ultimo testimone” non può essere
affidato solo alla buona volontà. Quella non guasta, ma non è
sufficiente. C’è un compito preciso che abbiamo davanti. Questo compito
riguarda la riflessione sulla storia, la capacità di far lavorare sul
passato. Quella conoscenza più estesa sarà il risultato di una capacità
maggiore di saper lavorare sui documenti. Di non essere ripetitori, ma
di dotarsi di una cassetta degli strumenti in grado di “muoversi” nella
storia. La conoscenza del passato solo in parte e solo formalmente
coinvolge la scuola. La coscienza civile della generazione che domani
sarà adulta non si forma solo all’interno di un’aula di scuola. Ma
limitiamoci anche solo a questo ambito. E’ corretto chiedere al corpo
docente della scuola una qualità dell’insegnamento che abbia come
obiettivo anche la formazione culturale e civile dei giovani. Ma è
anche necessario capire che questa richiesta deve preliminarmente
contenere una consapevolezza: la formazione professionale non è un
optional o un generico “fai da te” dove vige l’arte di arrangiarsi.
Perché ci siano insegnanti competenti occorre che ci sia non solo un
sistema scolastico che funzioni, ma anche una società che capisce che
niente è un atto dovuto, che sapere è avere gli strumenti, i mezzi, le
opportunità perché quella richiesta abbia la possibilità di essere
soddisfatta. Certo che occorre la volontà, la voglia, la curiosità. Ma
occorre anche una società che investe sul miglioramento della qualità
di un servizio.
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Qui Roma
- Gattegna: "16 ottobre, pagina di crudeltà"
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In occasione del sessantottesimo
anniversario del rastrellamento degli ebrei di Roma, il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, Renzo Gattegna ha dichiarato:
Passeggiare nei vicoli del
quartiere ebraico di Roma è una esperienza straordinaria. Un viaggio
tra colori, suoni e identità che raccontano le plurimillenarie vicende
di una comunità antichissima. Eppure quelle stesse strade attraversate
quotidianamente da migliaia di turisti e curiosi, quegli stessi poetici
luoghi in cui si realizza oggi un proficuo ponte tra ebraismo e società
italiana, furono non troppo tempo addietro scenario di una pagina
atroce di codardia e crudeltà. Il rastrellamento degli ebrei della
Capitale, di cui si ricorda in queste ore il 68esimo anniversario, è
stato uno dei momenti più drammatici ed emblematici delle persecuzioni
antisemite in Italia. 1024 ebrei romani, strappati all’affetto dei loro
cari e da una città che amavano visceralmente, furono deportati nei
campi di sterminio. Solo pochissimi, provati nel fisico e nella mente,
avrebbero fatto ritorno e sarebbero riusciti a ricostruirsi tra molte
difficoltà una vita. Ad essi va come sempre la nostra gratitudine. È
grazie al loro coraggio e alle testimonianze di quanti riuscirono a
scampare all’agguato che siamo oggi in grado di ricostruire quei
momenti atroci di un passato che non possiamo e non vogliamo
dimenticare. Un passato di morte sulle cui ceneri sarebbe stata
rifondata una società all'insegna della libertà e della tolleranza
religiosa. Un passato che noi, figli e nipoti di perseguitati, abbiamo
l’obbligo di conoscere e comprendere così da poterlo trasmettere
correttamente alle nuove generazioni.
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Qui Roma - Una
silenziosa marcia per gridare: "Mai più"
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Nonostante tutto siamo
ancora qui. Nonostante la Shoah, gli ebrei non sono stati cancellati.
Questo il segnale dato stamane dalla Comunità ebraica romana in
occasione dell’anniversario della deportazione dei 1024 ebrei dal
ghetto della capitale, il 16 ottobre 1943. Una marcia silenziosa,
guidata dai sopravvissuti Lello Di Segni e Sabatino Finzi, si è snodata
lungo le vie dell’antico ghetto e decine di ebrei romani si sono
raccolti per ricordare quei terribili giorni. La testimonianza, come
hanno ribadito il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo e
Pacifici e il rabbino capo rav Riccardo Di Segni, di un passato che non
si può dimenticare ma anche di una presenza che, nonostante tutto, è
ancora viva e guarda al futuro. “Non abbiamo voluto politici né schiere
di giornalisti – ha affermato Pacifici – questa manifestazione è
rivolta alla comunità ebraica romana, è una nostra occasione per stare
insieme e ricordare”. Il presidente ha poi sottolineato l’importanza
della presenza degli ultimi sopravvissuti alla deportazione del 16
ottobre, dedicando un ricordo alla recente scomparsa di una importante
testimone della Shoah, Ida Marcheria.
“La tragedia della Shoah – ha spiegato rav Riccardo Di Segni
– è una ferita aperta nella storia del popolo ebraico; una ferita non
rimarginabile che ha segnato il nostro cammino. Ma la nostra presenza
qui, oggi, è la dimostrazione che siamo riusciti ad andare avanti;
volevano cancellarci ma siamo ancora qui”.
Prima della deposizione ufficiale delle corone di fronte al Tempio
grande della capitale, Marcello Pezzetti, direttore del Museo della
Shoah di Roma (in fase di realizzazione), ha ricordato il ruolo
fondamentale nella salvaguardia della memoria da parte dei testimoni.
“Oggi, purtroppo, stanno piano piano scomparendo ma noi, è questa marci
silenziosa lo dimostra, non dimenticheremo quanto successo e
soprattutto non dimenticheremo ciascuno di loro”.
In occasione della commemorazione del 16 ottobre, alle 18.30 inizierà
la fiaccolata organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio a cui
parteciperanno fra gli altri, il presidente dell’UCEI Renzo Gattegna,
il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici e il
rabbino capo rav Riccardo Di Segni. Saranno inoltre presenti il sindaco
Gianni Alemanno, il presidente della Regione Renata Polverini e il
presidente della Provincia Nicola Zingaretti.
Questa sera, inoltre, verrà presentato al Museo ebraico della Capitale
il libro “Il poliziotto che cercava le stelle”, opera su Giovanni
Palatucci dello scrittore e artista Georges de Canino.
Daniel Reichel
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Qui Gerusalemme - In Succà
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Molti
anni fa andai a trovare per Chol Hamo'ed di Succot l'avvocato Alfonso
Pacifici z.l., a Gerusalemme, nel quartiere di Gheula degli anni 60,
periodo in cui vi abitavano ancora anche famiglie non osservanti. Dopo
aver chiesto l'autorizzazione della moglie a indossare la giacca bianca
(in onore di Chol hamoed) Pacifici mi invita ad accompagnarlo nel suo
programmato giretto nel cuore di Gheula. L'atmosfera è quella propria
delle mezze feste: da un lato è festa, ma dall'altro puoi andare a
rifornirti di quello che ti è necessario per la festa stessa, in
particolare di cibo. La nostra attenzione si sofferma sulle
Succot; Pacifici mi parla della grande importanza di quello che è
mobile, non duraturo "e quindi eterno". Vedi, mi dice, una fragile
mezuzà, una succà cadente fanno parte integrale della nostra vita di
mizvot; il Beth Hamikdash, con la sua maestosità, con le sue grandi
pietre non è più con noi… dopo un momento di silenzio, mi dice: "guarda
che bello, ognuno ha la sua succà". Gli faccio osservare a mia
volta: "quella è stata fatta sotto una terrazza; è come se non avesse
fatto nulla…": le mie ultime parole sono accolte da un sonoro:
"Nossignore; non ti permetto di dire così"; reagisco timidamente:
"sinceramente non credo che si possa dire che jazà iedé chovatò (è
uscito dall'obbligo di compiere la mizvà); e Pacifici: "spero che tu
veda la differenza fra le due espressioni; non si può dire che chi ha
fatto uno sforzo per compiere la mizvà sia come uno che non abbia fatto
nulla; ha fatto una succà pesulà, che ha per lo meno il ricordo della
succà". Fui molto grato al Maestro per questo insegnamento (con
questo non si pensi che l'avvocato Pacifici non fosse rigido con se
stesso; per esempio ricordo benissimo come non abbia voluto mangiare
carne in casa dei miei a Bologna, durante la visita che ci fece); più
tardi, ripensandoci trovavo appoggio nell'insegnamento avuto anche dal
rav Dario Disegni quando mi diceva di abituare gli ebrei di Mantova a
mangiare carne casher anche se non avessi potuto assicurare
l'osservanza di molti particolari: "se li lasci mangiare taref
proseguiranno a farlo; se li abitui a mangiare casher puoi sperare che
sia solo l'inizio del ritorno"; ripensavo ancora alla splendida lezione
che aveva tenuto, su mio invito, il rav Elia Samuel Artom, agli ebrei
di Mantova su "La riconquista graduale delle Mizvot". Pacifici,
Disegni, Artom: tutti allievi a Firenze del rav Margulies: si poteva
vedere in questo il segno della linea educativa del grande Maestro?
Allora, quando forse avrei potuto avere una risposta, non chiesi; oggi
non saprei più a chi rivolgermi. L'insegnamento dell'avvocato
Pacifici si può ricollegare all'insegnamento profetico di Amòs (9:11):
"In quel giorno solleverò la cadente capanna di David…": il regno di
David è chiamato qui succà, mentre normalmente viene chiamato con
"bait" (malchut bet David): la succà anche una volta caduta, si può
risollevare facilmente e da qui l'uso del verbo akim: in questa succà
possono sedere tutti gli ebrei, di nascita o gherim, anche quei
"peccatori" che erano con noi al Beth Hakeneset il giorno di Kippur:
"Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele
risieda nelle capanne" (Lev.23:42) ed il Talmud (Succà 27b) commenta:
"Tutto Israel è degno di sedere in una sola succà": per tutti noi,
quindi, una sola succà per sentire in ognuno un nostro fratello.
Mo'adim lesimchà.
Alfredo Mordechai Rabello, giurista
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Davar acher - La vita degli
ebrei
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La notizia dell'accordo
raggiunto per la liberazione di Gilad Shalit ha emozionato tutti gli
ebrei e gli amici di Israele nel mondo. Il giudizio politico e militare
sull'opportunità della scarcerazione di tanti temibili ed esperti
terroristi in cambio di un solo soldato - peraltro privo di competenze
o conoscenze particolari, senza nessun'altra speciale qualità a parte
il suo essere una persona, un ragazzo, un ebreo - ha diviso l'opinione
pubblica israeliana. Ma anche quelli che col ragionamento sono rimasti
perplessi o contrari al rilascio di criminali pronti a ripetere i loro
attacchi, col cuore sono stati certamente felici: perché davvero l'idea
che tutti gli ebrei sono responsabili gli uni verso gli altri, sono in
un certo senso una sola famiglia, non è un principio astratto, ma
un'esperienza concreta, un modo di vivere. Non entrerò in questa
discussione, perché credo di non averne il diritto, vivendo in Italia,
senza subire se non di riflesso i rischi degli attentati e della
cattura dei colpevoli. Credo però che chi parla di una dirigenza
israeliana incapace di decidere, paralizzata, isolata, immobilista,
dovrà ricredersi, perché il rischio che si è assunto Netanyahu con la
sua decisione è grande e certo non preso a cuor leggero.
Credo che questa sia anche l'occasione in cui noi, ebrei della
diaspora, dobbiamo ringraziare chi ci è stato vicino, le città che
hanno esposto il ritratto di Gilad sui municipi, che hanno compiuto
atti simbolici come oscurare i monumenti, che gli hanno concesso la
cittadinanza. Grazie, ci fanno pensare che la pianta dei Giusti delle
nazioni non sia isterilita in questi anni difficili. Anche questo è un
pensiero che allarga il cuore.
Ma anche senza entrare nella difficile discussione sul prezzo del
riscatto e senza mettersi a fare dietrologia politica (l'umiliazione di
Abu Mazen e della Turchia tagliati fuori dallo scambio, l'esistenza di
un canale che continua col governo egiziano, la funzione della
mediazione tedesca, finalmente un gesto positivo da parte dell'Europa),
ci sono delle ragioni di amarezza profonde. Gli ebrei si catturano, si
rapiscono: Hamas ha subito promesso che si provvederà il ricambio a
Shalit. Si prendono e si usano come materiale di scambio per ciò che si
vuole ottenere. L'ha fatto il III Reich, chiedendo oro (per esempio a
Roma, prima del rastrellamento del '43 di cui oggi ricorre
l'anniversario), l'hanno fatto per secoli sovrani europei e arabi,
inquisizioni, cosacchi, fino agli islamisti di oggi.
La vita degli ebrei per tutti costoro non vale niente, può essere
umiliata o distrutta senza rimorsi, ma viene venduta a caro prezzo:
mille a uno, in questo caso. Un po' di solidarietà dal resto del mondo
arriva, ma vi manca l'indignazione. Si condanna, ma in fondo si
comprende. In questo momento la parola indignazione è diventata merce
comune, produce piccoli best seller ipocriti come quello di un signore
francese che non nomino, o induce a gettare sassi sulla polizia e uova
sulle banche, come se il loro mestiere fosse una colpa morale e il
collettivismo economico non avesse mostrato ampiamente il suo
fallimento, o come una società potesse reggere senza forze dell'ordine.
E ci si indigna naturalmente contro Israele, che "ruba la terra" agli
arabi eccetera eccetera.
Ma contro il sequestro di un ragazzo, il furto di cinque anni della
vita sua e della sua famiglia per puro profitto, invece non ci si
indigna. Non ci sono Ong che protestano, non si fanno manifestazioni.
Non si dice che i palestinesi sono pieni di criminali che rapiscono la
gente, sgozzano i bambini, ammazzano gli handicappati a sangue freddo,
mettono bombe nei ristoranti e negli autobus. Ora è provato che i
criminali, i pazzi sadici ci sono dappertutto, e questa potrebbe essere
una giustificazione. Ma quel che non si dice, e per cui certamente non
ci si indigna, è il fatto che questi gesti sono per lo più freddamente
calcolati e programmati dai loro mandanti, sono insomma crimini
premeditati anche se compiuti da esaltati. E soprattutto che chi li
compie non è rifiutato, condannato, ostracizzato, ma anzi al contrario
onorato e ricordato come un eroe. Cinquant'anni fa, al momento del
processo Eichmann, Hannah Arendt coniò lo slogan profondamente equivoco
e sbagliato della "banalità del male". Voleva indicare che le SS
facevano il loro sporco lavoro convinte che fosse un dovere quotidiano,
come qualunque altra incombenza. Ma per questo "dovere" venivano
premiati e promossi. I terroristi palestinesi fanno sostanzialmente le
stesse cose e per le stesse ragioni. Come i nazisti rapiscono, uccidono
stuprano mutilano. E come loro lo fanno "per la patria". Ma nessuno si
indigna contro di loro oggi. Forse per le stesse ragioni per cui
nessuno si indignava settant'anni fa. Perché le vittime allora erano
ebrei, affamatori del popolo, nemici della nazione, razza inferiore. E
oggi sono ebrei coloni, esercito di occupazione, affamatori dei popoli,
nemici delle nazioni.
Ugo
Volli
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Scelte certe
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Dunque parrebbe che Ghilad
Shalit sia prossimo alla liberazione. È bene usare il condizionale
poiché con certuni si sa solo che ci si può attendere di tutto, anche
la negazione di quanto appena negoziato. Dopo di che ci sono elementi
che lasciano ben sperare nel senso di un esito finalmente affermativo
di una vicenda che ha dilacerato le carni e le coscienze. Il prezzo di
una vita – poiché per quei certuni la vita ha un costo, più che un
intrinseco valore – è la messa in libertà di un migliaio di ospiti
delle galere israeliane, figuri tristi se non osceni, spesso criminali
e assassini professionisti. Inevitabile che le polemiche divampino,
soprattutto in Israele, che dovrà sopportare le conseguenze, materiali,
politiche e anche morali di questa scelta. Ragione ha Ugo Volli,
quindi, quando dice che è bene lasciare agli israeliani medesimi il
diritto pieno al confronto di merito e, nel qual caso, alla
formulazione di un giudizio definitivo. E tuttavia è bene che per parte
nostra si colga, ancora una volta, l’eccezionalità della volontà
manifestata dal governo Netanyahu. Che va nel senso di una tradizione
umana, quella di Israel, che è patrimonio non di un governo e neanche
di uno Stato ma di un’idea concreta di popolo che si è storicamente
inverata in una nazione. Nessuno deve essere abbandonato al suo
destino. La vita di una nazione vale la vita di una persona. Non ci
sono tatticismi, utilitarismi né, tanto meno, machiavellismi che
tengano al riguardo. La vita non ha prezzo ma solo un valore, quello
dell’incalcolabilità. Ragion per cui se il salvare un giovane germoglio
ha dei costi terribili li si sosterrà comunque. Altrimenti, venendo
meno il germoglio, la terra non sarà più fertile e il popolo medesimo
si renderà sterile. La regola dice che tra compagni non si lascia mai
nessuno alle proprie spalle, abbandonandolo al suo destino. Poiché quel
destino è invece di tutti. Una nazione è grande non perché imperitura
bensì in quanto solidale. Il sionismo, a suo tempo, funzionò proprio
perché seppe essere tale fino in fondo. Non escludeva nessuno, semmai
cercava di includere, di trattenere nel suo seno. Per questi molti
l’hanno odiato. Non c’è di che sorprendersi. Tutti cerchiamo sicurezza:
non è l’impossibile preservazione dai molti rischi che l’orizzonte ci
offre ma la percezione che chi ci sta accanto si occupi di noi, così
come noi ci occuperemmo di lui, soprattutto nel momento del bisogno. Il
governo Netanyahu ha fatto una scelta piena di conseguenze poiché la
solidarietà è un grande onere. Ma è anche un onore. Va reso omaggio al
coraggio di certe scelte.
Claudio
Vercelli
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rassegna
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Rilascio
Shalit: Israele pubblica l'elenco dei palestinesi da liberare |
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Israele ha reso nota la lista di un primo gruppo di 477 prigionieri
palestinesi da liberare martedì prossimo in cambio di Gilad Shalit.
L'elenco di nomi è stato pubblicato dal ministero della Giustizia sul
sito dei servizi penitenziari per dare 48 ore di tempo per eventuali
ricorsi dei cittadini contro una o più scarcerazioni. In questa prima
lista israeliana compaiono anche 27 donne. Nell'elenco dei prigionieri
spiccano fra l'altro i nomi di Ahlam Tamimi, accusato di essere
complice di un attentato suicida in un ristorante di Gerusalemme, e
Amneh Muna, che progettò l'omicidio di un 16enne israeliano nel 2001 e
condannato all'ergastolo. Un secondo gruppo di 550 palestinesi dovrebbe
essere liberato entro due mesi. La lista israeliana dello scambio
comprende oltre mille prigionieri palestinesi.
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