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5 ottobre 2011 - 7 Tishri 5772
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
 
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sciunnach
David Sciunnach,
rabbino


Nella Parashà di questa settimana, la Parashà di Noach, è scritto: “Noach era un uomo giusto ed integro nelle sue generazioni”. Il grande Rabbì Chayìm ben ‘Attar, conosciuto per il suo commento come Or ha-Chayìm ha-Kadosh, si domanda perché la parola generazioni - dorotav sia al plurale e non al singolare, e cioè: “nella sua generazione”. La Torah usa il plurale per sottolineare la sua grandezza, poiché è nella natura di un uomo avere rapporti con tre generazioni, e cioè quella dei nostri padri, la nostra e quella dei nostri figli.
 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
Sicuramente, come in ogni democrazia del mondo, nella liberazione di Gilad Shalit rientreranno anche elementi di convenienza nei confronti del proprio elettorato ed il governo Netanyahu avrà gioco facile a presentare il ritorno in patria del soldato come un proprio successo, cosa peraltro vera. Ai miei occhi, però, dal momento che ogni governo democratico cerca di assecondare la sensibilità della cittadinanza, questa sarebbe un’ulteriore conferma dell’orizzonte etico in cui si è formata la psicologia ebraica. Un orizzonte che ha visto Moshè Rabbenu andare ad inseguire la singola pecorella allontanatasi dal gregge e che oggi valuta il valore di una vita uguale a quello di 1.027. Mi pare davvero sospetto che i media insistano di più sui contrasti che il caso ha suscitato in Israele piuttosto che sull’enorme disparità palesatasi agli occhi di tutti.

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davar
Qui Roma - Da Israele al Vaticano un ulivo per il dialogo
Nei giardini vaticani da oggi si erge un albero simbolo dell'amicizia e del dialogo tra Israele e la Santa Sede. Questa mattina, infatti, è stata celebrata la messa a dimora dell'ultracentenario ulivo, donato a papa Benedetto XVI dal governo israeliano e dal Keren Kayemeth LeIsrael, la più antica organizzazione ecologista del mondo. Un gesto che testimonia il legame fra i due Stati, impegnati da anni in un complesso percorso di dialogo. Il mastodontico ulivo, due metri di larghezza e quattro in altezza, era stato promesso dal premier israeliano Benjamin Netanyahu a Benedetto XVI durante la sua ultima visita in Vaticano. E così questa mattina l'albero di quattro cento anni, proveniente dalle colline di Nazareth, ha trovato posto nel Viale degli Ulivi dei giardini vaticani davanti allo sguardo partecipe dell'ambasciatore israeliano presso la Santa Sede Mordechay Lewy, del presidente mondiale del KKL, Efi Stenzler e del presidente del KKL Italia Onlus, Raffaele Sassun e delle alte istituzioni vaticane.
Per l'occasione l'ambasciatore Lewy ha pronunciato il seguente discorso:

Cari Amici,

permettetemi innanzitutto di ringraziare il Santo Padre per aver dato il suo cortese consenso a piantare, nel suo giardino, un albero di ulivo proveniente da Israele. Così facendo, Sua Santità ha permesso al primo ministro Netanyahu di esprimere un gesto di apprezzamento e di amicizia. Ciò è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra il Governatorato e tutte le sue agenzie e alla capace e fattiva assistenza del KKL. Il Keren Kayemet Leisrael ha fatto da tramite per realizzare il desiderio del premier Netanyahu che ci ha condotti qui, oggi, nel piccolo acro di Dio, il giardino del papa sulle colline vaticane.
Piantare un albero è sempre stato, in Israele, un simbolo di nuova vita. Quando nasce un bambino, piantiamo un albero. Quando gli incendi li bruciano, noi ripiantiamo immediatamente. Persino dopo la scomparsa di una persona cara, questa viene commemorata con un albero, permettendo alla sua memoria di continuare a vivere.
Nel 2009, prima di lasciare la Terra Santa, Sua Santità, papa Benedetto XVI, ha rinnovato l’importante simbolismo con la messa a dimora di un albero di ulivo nel giardino presidenziale a Gerusalemme, insieme al presidente Shimon Peres. Egli ci ha ricordato che l’albero di ulivo è l’immagine che San Paolo ha utilizzato per descrivere la relazione tra i cristiani e gli ebrei: come il cristianesimo sia un ramo di ulivo innestato nell’albero coltivato rappresentato dall’ebraismo (Lettera ai Romani, 11:17-24).
La coltivazione degli ulivi risale a cinquemila anni fa, diffondendosi dalla Terra Santa attraverso il Mediterraneo e oltre. Ogni albero può vivere fino a duemila anni, attraversando non solo generazioni e regni, ma la storia degli esseri umani così come la intendiamo. La nostra storia comune inizia con il racconto di Noè per il quale il ramo di ulivo fu il segno che le inondazioni erano diminuite e che la terra poteva tornare ad essere popolata. L’ingresso al Tempio di Salomone fu creato attraverso due porte in legno di ulivo. Può essere significativo che mentre noi piantiamo un albero di ulivo qui, il Santo Padre domani ad Assisi farà un appello congiunto a tutti i credenti per promuovere la pace sulla terra.
Noi piantiamo per sanare, guarire, abbellire, apprezzare. L’albero di ulivo davanti a noi ha probabilmente 400 anni di età. Si è fatto strada da Israele alla sua nuova casa qui nei giardini vaticani, in un luogo significativo quale il Viale degli Ulivi. È un dono a Sua Santità da parte del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a nome della nazione ebraica. È un segno dell’amicizia tra i nostri Stati e dell’aspirazione alla promozione della pace e alla fratellanza tra i popoli e le religioni.
Che quest’albero possa crescere così come l’amicizia tra di noi possa prosperare.

Qui Milano - Un brindisi per Gilad
Sono stati momenti di sincera commozione quelli che ha vissuto la Comunità ebraica di Milano nel giorno della liberazione di Gilad Shalit. L'Assessorato ai Giovani ha invitato tutta la comunità nell'Aula Magna della Scuola ebraica per assistere alla diretta da Israele del ritorno a casa del giovane soldato di Zahal.
Alle ore 18 in punto è iniziato il collegamento con la tv israeliana; dopo pochi minuti il padre di Gilad, Noam Shalit, usciva dalla propria casa per parlare ai giornalisti e al grande pubblico che si era radunato fin dalle prime ore del mattino per accogliere calorosamente il figlio. Noam appariva felice e raggiante, ma nello stesso tempo stanco e provato dalla lunga giornata passata ad aspettare e contare i minuti del tanto atteso incontro.
Noam ha portato a tutti i saluti di Gilad, che ancora non se la sentiva di apparire in pubblico data la stanchezza e debolezza provate, ha ringraziato tutti coloro i quali hanno lottato per la liberazione del figlio e hanno sostenuto la famiglia anche nei momenti più difficili. Ha poi ringraziato lo Stato di Israele e Benyamin Netanyahu per il grande impegno nella difficile trattativa con Hamas.
Subito dopo il discorso di Noam Shalit, il presidente della Comunità Roberto Jarach ha espresso la propria gioia per l'importante evento, poi i rappresentanti delle varie associazioni ebraiche a Milano (Adei Wizo, Keren Kayemet, Keren Hayesod, Bnei Berit, Amici di Israele) e i ragazzi dei due movimenti giovanili Bnei Akiva e Hashomer Hatzair hanno espresso la propria gioia e solidarietà con la famiglia Shalit e con Israele.
Lo shaliach del Bnei Akiva, Yair Danzig, ha proiettato un filmato sulla ricostruzione della dinamica del rapimento di Shalit, mostrando le interviste degli altri soldati coinvolti nell'agguato terroristico. Il vice presidente della comunità Daniele Nahum ha concluso la serata accennando al tentativo del gruppo consiliare della Lega nord di fare approvare al Consiglio della Regione Lombardia una mozione contro la macellazione kasher e quella islamica (halal). La serata si è conclusa con un brindisi in onore di Gilad Shalit. 

Sylvia Sabbadini


Qui Roma - Luca Zevi: "Conservare l'avvenire"
Quale rapporto tra salvaguardia e progetto? In quale caso scegliere la conservazione e in quale invece propendere per il rinnovamento? Domande centrali nelle politiche di urbanistica a cui Luca Zevi, progettista e professore universitario, ha provato a dare una risposta nel suo libro di recente uscita Conservazione dell’avvenire, volume che passa in rassegna lo stato delle nostre città e che individua nell’esperienza storica ebraica, nel rapporto intenso ma non feticistico col passato di questa identità, un importante modello di riferimento cui tendere per costruire città più accoglienti e inclusive. Molti gli spunti, molte le riflessioni suscitate dalla lettura del testo. Di questo e di altro ancora si è discusso ieri nella sede della provincia di Roma nel corso di un intenso incontro al quale erano invitati a portare un contributo, oltre all’autore, anche l’ex sindaco di Roma Walter Veltroni, il rabbino capo Riccardo Di Segni, il filosofo Giacomo Marramao e il giornalista Marino Sinibaldi. Tra i vari argomenti affrontati, spesso declinati in modo significativamente ebraico, il valore della Memoria e la sua perpetrazione attraverso le strutture architettoniche. Luca Zevi, progettista del nascituro museo della Shoah, si è soffermato su alcuni tra gli edifici più significativi dedicati alla Memoria nel mondo analizzando, attraverso una comparazione con questi, punti critici e sfide da cogliere che si presentano oggi all’ebraismo italiano. 

a.s.

Qui Casale - La Torah in rima
“La rima baciata è il miele con cui somministrare la medicina, la forma che rende il messaggio biblico più appetibile per il grande pubblico”. In rima, Massimo Foa ha tradotto la Torah; ha raccontato sentimenti e delicate esperienze personali. Dietro a quel sapore velatamente ironico e a tratti infantile, si cela un espediente letterario suggestivo e coinvolgente. E Foa ne ha sfruttato la sfrontatezza per mettere in rima niente meno che la Torah, “il Libro per antonomasia, il fondamento di quel monoteismo che costituisce la base della civiltà occidentale”, ricordava l’autore in un’intervista al Portale dell’ebraismo italiano.
Questa originale opera di traduzione del Pentateuco, pubblicata a casa editrice torinese Accademia vis vitalis, è stata presentata domenica scorsa nella splendida cornice della sinagoga di Casale Monferrato. Assieme all’autore hanno partecipato all’incontro Claudia De Benedetti, vicepresidente UCEI, la professoressa Elisabetta Massera e l’attrice Lucia Carrer perché, come scrive l’ebraista Giulio Busi su Il Sole 24 Ore “le quartine di Foa si possono leggere in silenzio, ma meglio sarebbe recitarle a voce”. Alla difficoltà del testo classico della Torah, fa così posto una versione più scorrevole, ritmica e, prerogativa della rima, facilmente memorizzabile; rimane ferma la fedeltà alla scrittura originale. Così suona in Foa l’annuncio ad Abramo della nascita di Isacco: «Anche da Sara tu un figlio avrai / Abramo chinò la faccia e rise un sacco. / Sara partorirà davvero, vedrai / e poiché hai riso, lo chiamerai Isacco».
Un sorriso diverso è quello che si disegna sul volto di chi conosce la storia di Massimo Foa, nato a Cuorgnè (cittadina piemontese nei pressi della valle dell’Orco)  ricordata durante l’appuntamento monferrino da Elisabetta Massera. Un sorriso melanconico per un passato di sofferenza, di crudeltà, di eroismo. Una ferita unica, privata ma allo stesso condivisa da milioni di ebrei durante l’oscurità della Shoah. Nubi in cui si intravede il raggio di speranza e solidarietà, simbolo di chi nonostante tutto, decise di mettere a rischio la propria vita per salvare quella degli altri. Per Israele, queste persone sono i Giusti tra le nazioni di Yad Vashem, ricordati simbolicamente nel Giardino di Gerusalemme con un albero. E fra i giusti italiani c’è anche Mamma Tilde che salvò il piccolo Massimo Foa dalla deportazione e dalla morte nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Il 9 agosto 1944 Donato Foa, nato a Casale Monferrato nel 1876, il figlio ventiquattrenne Guido e la nuora Elena Recanati, di ventidue anni, vengono arrestati a Canischio, a pochi chilometri da Cuorgnè. Con loro Massimo, il figlio, neppure un anno di vita. I fascisti gli hanno scovati e catturati tutti, a tradirli una delazione. Nessun rifugio è mai sicuro di fronte alla crudeltà umana. “Donato, imprenditore metallurgico, Guido, Elena e il piccolo Massimo sono detenuti per 24 ore nella caserma Pinelli di Cuorgnè – racconta la professoressa Massera - il 10 agosto gli arrestati, caricati su un camion, sono tradotti alle Carceri Nuove di Torino. Prima della partenza Cecilia Genisio, staffetta partigiana e amica di famiglia, riesce a far pervenire ad Elena una bottiglia di latte, piccolo gesto di solidarietà tanto rischioso”. Donato e Guido vengono separati da Elena e il piccolo Massimo. La tragedia della deportazione è imminente, nella paura si fa largo la disperazione.
Per Massimo, però, la strada sta per cambiare direzione; il coraggio e la solidarietà di due donne strappano il piccolo da un destino segnato. Suor Giuseppina, religiosa in servizio presso il braccio femminile delle Carceri Nuove, riesce a nascondere il bambino tra la biancheria sporca delle detenute, che è affidata a lavandaie esterne. “Una di queste – racconta Massera - è Clotilde Roda Boggio, vedova di Cuorgnè, che non ha un attimo di esitazione , prende con sé il piccolo Massimo, e lo ospita nella sua modesta casa , consapevole del rischio mortale che affronta. Mamma Tilde ha tre figli poco più che adolescenti, Domenico, Renzo e Antonietta ; i due ragazzi sono partigiani , militano nella VI Brigata Alpina “Giustizia e Libertà”. Mamma Tilde ai curiosi racconta che il piccolo è figlio di uno dei figli, deportato in Germania”. Nonostante gi stenti, la durezza della guerra, Tilde e la famiglia Boggio si prendono cura di Massimo. Intanto il nonno, il padre e la madre vengono inviati al campo di transito di Bolzano. E’ il 27 agosto del 1944. Due mesi dopo, il 24 ottobre, la famiglia Foa viene deportata ad Auschwitz. All’arrivo Donato viene ucciso. Del figlio Guido si perdono le tracce, partito da Auschwitz per una destinazione ignota. Bergen Belsen, Braunschweig, Ravensbruk, è il terribile percorso di Elena, l’unica che riuscirà a fare ritorno in Italia nell’ottobre del 1945. “Ai primi di maggio del 1945 finalmente anche a Cuorgnè si celebra la festa della Liberazione dal Nazifascismo con una grande sfilata di Partigiani – continua Massera, presidente dell’Associazione Canavesana per i Valori della Resistenza - Mamma Tilde , in prima fila con Massimo in braccio, assiste felice e chissà quanto orgogliosa alla sfilata , tra i quali sono Domenico e Renzo, sani e salvi. Oggi un albero, simbolo ebraico della vita che affonda le sue radici nella Terra che ci ospita e protende i rami verso il Cielo, ricorda Tilde Roda Boggio nel viale dei Giusti di Yad Vashem a Gerusalemme, e soprattutto Massimo può raccontare la favola vera della solidarietà ai suoi figli e nipoti”.

Daniel Reichel


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pilpul
Faziosità
Francesco LucreziFra i vari commenti sullo scambio tra Shalit e i detenuti palestinesi, spicca, come autentico monumento di faziosità, l’articolo di Lucio Caracciolo apparso su la Repubblica di mercoledì 19 ottobre. Proverò a riassumerlo, anche se meriterebbe di essere riportato riga per riga.
Dunque: come affermato da un responsabile dei servizi segreti israeliani, il baratto “rafforza Hamas e indebolisce Fatah”. Da questo dato (assolutamente ovvio, che capirebbe anche un bambino), Caracciolo deduce l’esistenza di un vero e proprio ‘patto’, assolutamente solido e perfettamente funzionante, tra Israele e Hamas. E, tra le righe di questo patto, si possono leggere tre dati essenziali.
Primo: se Israele “concede al nemico 1027 probabili futuri combattenti in cambio di un proprio sottufficiale, vuol dire che si sente terribilmente più robusto”. Ed è proprio questa convinzione alla base dell’impasse negoziale tra Israele e palestinesi, perché Netanyahu non ha alcun interesse a impegnarsi su un fronte che “non considera né strategico né pericoloso”. Per lui, non c’è alcun bisogno di “risolvere la questione palestinese, che di fatto non esiste. Lo status quo va bene”.
Secondo: Hamas “è il miglior nemico possibile per Netanyahu”, tanto è vero che “è stata incentivata da Gerusalemme fin dagli anni Settanta”, per “costruire un contrappeso islamista al nazionalismo di Arafat, allora assai più minaccioso. Dividere i palestinesi per controllarli meglio”.
Terzo: la scelta dei tempi dello scambio è stata oculatamente calcolata, perché lo scenario complessivo del mondo arabo mostra un rapido deteriorarsi della situazione, sicché domani “non ci sarà più spazio per trattare, neanche sottobanco. Semmai riparleranno le armi”. E infatti, “alcuni analisti israeliani [la solita “prova del nove”! n.d.r.] considerano la mossa di Netanyahu come propedeutica alla guerra preventiva contro l’Iran”… Da tempo Gerusalemme lavora ai dettagli di un attacco ai siti nucleari iraniani. La maggioranza dell’establishment militare israeliano lo considera una follia. Netanyahu no”.  
Il senso generale del discorso, e l’insegnamento di fondo che se ne trae, è che Israele può soltanto essere ammirato e invidiato, per la sua straordinaria potenza e fortuna. Protagonista assoluto del territorio, fa il bello e il cattivo tempo, con chiunque. È vero che ha molti nemici, ma non gli fanno un baffo, e si diverte a giocare con loro come il gatto col topo. Preferisce, ovviamente, i nemici “duri e puri”, che  gli permettono di non smuoversi dalla sua logica esclusivamente militaresca, per cui umilia ed emargina (“tamquam non essent”) gli avversari ‘molli’, come Fatah, mentre coccola e blandisce, con occasionali regalini (tipo i 1027 liberati), quelli degni di considerazione (come Hamas). Periodicamente, è vero, diversi civili israeliani ci rimettono la vita, o lasciano per terra qualche gamba o qualche braccio, sotto i missili di Gaza, i bambini vengono bersagliati mentre vanno a scuola, e può anche capitare che un ragazzo resti sequestrato sottoterra per cinque anni e mezzo, ma queste piccolezze potranno magari turbare le anime delicate dei piccolo-borghesi, non certo i rudi politici-guerrieri di Gerusalemme. Perché, oltretutto, oltre che potente, Israele è anche fortunato, e tutto, alla fine, torna a suo vantaggio. Come il sequestro di Shalit, che ha permesso di cogliere addirittura tre piccioni con una sola fava: fare un dispetto al disprezzato Abu Mazen, premiare l’alleato di ferro Hamas, preparare l’opinione pubblica alla prossima guerra contro l’Iran (che Netanyahu  - come rivelano gli “analisti israeliani” -, fregandosi le mani, si prepara a scatenare, già pregustando l’ennesimo successo, alla faccia dei pavidi e titubanti generali). E chi pensa che possa esserci, come “quarto piccione”, il piacere di avere riportato Shalit a casa, è solo un sentimentalone da libro Cuore, che non capisce un tubo di politica, e soprattutto di politica israeliana.
Che dire? Protocolli dei savi anziani di Sion, seconda edizione riveduta e aggiornata. Complimenti.

Francesco Lucrezi, storico

notizieflash   rassegna stampa
Qui Torino - Memorie di pietra 
  Leggi la rassegna

Scorci di Trieste nella Comunità ebraica di Torino. La mostra “Memorie di Pietra. Trieste, la città ebraica e il piccone risanatore” è stata presentata ieri nel centro sociale della comunità torinese dal consigliere della Comunità di Trieste Mauro Tabor, assessore alla cultura.

Tommaso De Pas


 

I giornali radio di questa mattina hanno diffuso la notizia che la Turchia, dopo il disastroso terremoto di domenica, ha finalmente accettato di aprire le proprie frontiere agli aiuti offerti “da una trentina di stati, tra i quali Israele”; (...)

Emanuel Segre Amar












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