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3
novembre
2011 - 6
Cheshwan
5772 |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma
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Commentando quella
che a suo avviso è "la buona notizia" dell'ammissione della Palestina
all'Unesco e quella meno buona delle reazioni di Israele e degli Usa,
la simpatica astrofisica Margherita Hack oggi ha scritto sull'Unità
queste parole, con rigore scientifico e acume politico: "Mai come in
questa occasione è evidente che le religioni, invece di affratellare,
dividono". Attenzione a quel "Mai" e a "questa occasione". Sembrerebbe
invece più evidente che in questa occasione le religioni c'entrano come
l'astrofisica in poltica.
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Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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Il voto per l'ammissione della
Palestina all'Unesco è come un promo (prossimamente su questi schermi)
di quello che potrà accadere presto all'assemblea generale dell'ONU. Su
194 Stati membri, 107 hanno votato a favore, 14 contro (fra cui
Israele, Stati Uniti, Canada, Australia, Panama, e quattro isolette nel
Pacifico: Palau, Samoa, Salomone, Vanuatu), 52 astenuti, e 21 assenti.
Non ci sono grosse sorprese ma vale la pena comunque di dissezionare il
voto, soprattutto quello dei 27 della UE. Cinque Paesi hanno votato
contro (Repubblica Ceca, Germania, Lituania, Olanda, Svezia), undici si
sono astenuti (Bulgaria, Danimarca, Estonia, Italia, Lettonia, Polonia,
Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Ungheria) e undici hanno
votato a favore (Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Grecia,
Irlanda, Lussemburgo, Malta, Slovenia, Spagna). Una curiosità: i tre
piccoli satelliti dell'EU (Andorra, Monaco, San Marino) si sono
astenuti. Anche le ex-repubbliche yugoslave si sono divise fra astenuti
(Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro) e favorevoli
(Serbia oltre alla Slovenia). Fra le ex-repubbliche sovietiche, tre
astensioni (Georgia, Moldova, Ucraina) e tutte le altre favorevoli.
Astenute in Europa anche l'Albania – teoricamente paese musulmano come
la Bosnia – e la Svizzera, oltre a quattro Paesi asiatici (Corea del
Sud, Giappone, Singapore, Tailandia), otto Paesi del Centro-Sud America
(il più importante il Messico), nove Paesi africani (fra cui l'Uganda),
e otto del Pacifico (Nuova Zelanda e altre sette isole). Era scontato
il massiccio voto favorevole dei Paesi arabi, terzomondisti e meno
sviluppati, ma anche dei colossi economici Brasile, Cina, India, e
Russia, e si può notare che l'Argentina ha votato come la Spagna, e la
Norvegia come la Francia. Tutto sommato, però, un voto abbastanza
trasversale la cui indicazione più saliente è che l'Unione Europea
politica evidentemente non esiste. E a proposito, con questi numeri,
all'Assemblea generale dove occorrono i due terzi di sì, la mozione
Palestina non passa.
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Qui Roma - Shechitah, un confronto a rischio
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Gli
animali e la sofferenza: La questione della shechità. Questo il titolo
del convegno dedicato alla macellazione rituale ebraica in programma
domenica 6 novembre alle 16 al Centro Bibliografico Tullia Zevi
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Organizzato
dall’Associazione di cultura ebraica Hans Jonas, dal Collegio Rabbinico
Italiano e da La Rassegna Mensile di Israel, il confronto vedrà gli
interventi di Claudia De Benedetti (vicepresidente UCEI), Tobia Zevi
(Associazione Hans Jonas), Laura Quercioli Mincer (docente di
letteratura ebraica), Mino Chamla (docente di filosofia), Stefano
Cinotti (direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale
della Lombardia e dell’Emilia Romagna), Gianfranco Di Segni (rabbino e
biologo), Giacomo Saban (direttore de La Rassegna Mensile di Israel),
Eligio Resta (professore di Filosofia del diritto – Università di Roma
3), Riccardo Di Segni (rabbino capo di Roma, direttore del Collegio
rabbinico italiano). Gli atti saranno pubblicati da La Rassegna Mensile
di Israel.
“Voi macellerete come Io vi ho
comandato”(Devarim 12,21). Su questo precetto si fonda la Shechitah, la
macellazione rituale della tradizione ebraica. Una pratica tramandata
nei secoli che si basa su precisi regolamenti previsti nella Torah
orale. E che oggi in alcune realtà è messa sempre più in discussione
perché considerata brutale e inaccettabile perché non prevede che
l’animale venga preventivamente stordito. In realtà, affermano i
rabbini, il principio su cui si fonda la Shechitah è esattamente
opposto: ridurre al minimo la sofferenza dell’animale. Non a caso il
compito della macellazione nella tradizione ebraica è affidata allo
shochet, un esperto a cui è richiesto di seguire un lungo percorso di
formazione teorica e pratica. Nello specifico il compito dello shochet
è quello di recidere rapidamente, con un coltello lungo, molto affilato
e senza dentatura, l’esofago, la trachea e la vena giugulare
dell’animale. Pratica che per l’ebraismo è considerata la meno
dolorosa. E ad oggi nessuna ricerca scientifica è riuscita a dimostrare
in modo incontrovertibile il contrario. Inoltre la ritualità della
Shechitah sottolinea il valore sacrale conferito alla vita
dell’animale, una forma ulteriore di rispetto nei confronti dell’essere
vivente. Molti animalisti puntano il dito contro la macellazione
rituale e la definiscono inumana. La questione però è difficile da
porre in questi termini: in primo luogo il mondo scientificoveterinario
è fortemente diviso su questo punto, il che è un ulteriore
dimostrazione che non vi sono dati certi capaci di provare quale sia il
metodo migliore e soprattutto che la shechità provochi maggiore
sofferenza all’animale. Secondo, nell’ambito del concetto di
macellazione cosa può essere definito umano? Chi vuole proibire la
Shechitah così come la Dhabihah, la macellazione islamica, sostiene che
sia necessario lo stordimento preventivo, azione vietata dalla
normativa ebraica e, con qualche differenza, da quella islamica. Gli
stessi metodi per stordire non sono però esenti da errori: nel caso del
proiettile sparato nel cervello, spesso è impreciso e ci vogliono più
tentativi perché riesca. E così per gli altri metodi, nessuno può dirsi
infallibile. Dal punto di vista normativo, come sottolinea il
professor Stefano Cinotti, membro del Consiglio Superiore di Sanità, la
legislazione comunitaria inibirebbe la shechitah ma lascia spazio a
possibili deroghe. “In Italia – spiega Cinotti – la nostra Costituzione
sancisce la libertà religiosa e in favore di questo principio è stata
tutelata la liceità della macellazione rituale”. Per la normativa
italiana, dunque, la Shechitah è permessa; abbiamo visto che non c’è
prova scientifica che causi maggiori sofferenze all’animale; allora
qual è il punto? La questione gravita, come spiega Eligio Resta,
docente di filosofia del diritto all’Università Roma Tre, attorno a
quella categoria di diritti che il filosofo tedesco Hans Jonas definiva
come diritti senza soggetto. “Parliamo di quelle situazioni giuridiche
in cui manca il nesso di reciprocità – spiega Resta – ovvero dove manca
il rapporto in cui io ho diritti e tu doveri e viceversa. In questo
caso parliamo del diritto degli animali che si esplica nella dignità:
il diritto a non essere sottoposti a sofferenze gratuite, non
necessarie. Un diritto che implica evidentemente la responsabilità di
chi agisce”. Su questa responsabilità è possibile lavorare in campo
ebraico? O come si chiede Tobia Zevi dell’Associazione Hans Jonas (che
insieme al Collegio Rabbinico Italiano e alla Rassegna Mensile di
Israel ha organizzato per il 6 novembre una conferenza sul tema della
sofferenza degli animali e della Shechitah), se la scienza dimostrasse
di poter per così dire potenziare il metodo della Shechitah sarebbe
halakhicamente possibile applicarla? Può esserci un compromesso valido
nella tradizione oppure ogni modifica è impossibile? Ad entrare in
gioco e ad intrecciarsi in questo caso sono diversi piani fra cui
quello del diritto alla libertà religiosa e il diritto alla dignità
degli animali. Su questo punto forse sarebbe utile evidenziare alcune
questioni poste alla comunità ebraica internazionale da Grandin Temple,
una delle personalità più famose del panorama veterinario mondiale ed
esperta in tema di macellazione. La Temple è intervenuta sul
tema della Shechitah su richiesta degli ebrei olandesi, impegnati
contro la possibile approvazione di una legge che vuole vietare la
macellazione rituale nei Paesi Bassi (o meglio quella senza il
prestunning). “Negli ultimi trent’anni – scrive la Temple nell’aprile
2011 - ho lavorato a stretto contatto con l’industria kosher per
assicurare che la macellazione religiosa venisse eseguita in modo per
quanto possibile umano. La questione dello stordimento, a mio avviso,
non è la cosa più importante quando si tratta di assicurare il
benessere degli animali prima che vengano macellati. Ma è fondamentale
riconoscere che la macellazione kosher richiede più attenzione ai
dettagli della procedura di macellazione in cui l’animale è stordito”. L’esperta
del mondo veterinario suggerisce poi delle pratiche che a suo avviso
migliorerebbero il benessere degli animali nei macelli kosher, fra cui:
eliminare metodi stressanti di contenzione, tenere gli animali calmi
prima della macellazione, dal momento che un animale agitato è più
difficile da uccidere e impiega più tempo per perdere conoscenza, e
addirittura pubblicare il video della macellazione su una pagina web
per dimostrare la trasparenza della pratica. Da sottolineare in ogni
caso che nella tradizione ebraica il benessere dell’animale e il
rispetto della sua dignità comprendono tutte le fasi della vita. Inciso
doveroso che lascia spazio a un’altra questione: cosa fanno gli altri?
Ma soprattutto, quanto incide il discorso della macellazione kosher sul
numero dei capi macellati in ciascun Paese? Prendiamo i Paesi Bassi, in
questi mesi protagonisti con la citata campagna anti-macellazione
rituale: il totale degli animali macellati è di 500 milioni per anno;
la comunità islamica macella 1,5 milioni di capi all’anno; la comunità
ebraica pratica la shechitah su 2500 animali all’anno, il che
corrisponde allo 0.0005 % del totale dei capi macellati. Visto e
considerato il discorso precedente, sarà proprio il divieto di
macellazione rituale a migliorare la situazione dei diritti e della
dignità degli animali?
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, novembre 2011
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"Ricomporre la Libia, mancano i leader"
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Gli
scenari della nuova Libia che sta nascendo sulle ceneri di una lunga e
sanguinaria dittatura. Paure, passioni e sogni di un paese al bivio
della storia. Ne parliamo con Maurice Roumani, docente universitario,
esperto di politica internazionale e autore dell’opera monumentale The
jews of Lybia recentemente presentata su queste pagine dal professor
Enzo Campelli. Professor Roumani, quale futuro per la Libia del dopo Gheddafi? È
difficile fare previsioni senza correre il rischio di essere smentiti.
La Libia è infatti storicamente una realtà complessa di non semplice
decodificazione. Una complessità che è soprattutto
politico-amministrativa dovuta al frazionamento in tribù che rende
arduo il controllo forte e rigoroso di un’entità centrale. La sfida
principale è proprio quella di unificare, o quantomeno di far
partecipare attivamente a un processo democratico, le varie anime che
compongono questo vasto e instabile Paese. Si tratta di un progetto per
il quale andrà sicuramente versato molto sudore. Ci sono poi altre
situazioni di notevole criticità da non sottovalutare, prima tra tutte
la questione degli armamenti. Che fine hanno fatto le armi di
distruzioni di massa? Sono state distrutte oppure sono in mano di
qualcuno che potrebbe un giorno servirsene? In tutto questo le potenze
occidentali devono però muoversi coi piedi di piombo. In simili
contesti ci vuole poco a risvegliare accuse di colonialismo e a gettare
conseguentemente fango su quanto di buono fatto finora. La
morte di Gheddafi lascia un grande vuoto di potere. Intravede qualche
figura politica attorno cui fare perno per catalizzare il consenso
delle masse e dar vita a un progetto di riforma democratica condiviso? No,
ed è uno dei nodi più significativi in questo periodo di precarietà e
transizione. Purtroppo mancano leader carismatici, amati e stimati dai
più, che possano rappresentare un modello cui ispirarsi per contribuire
alla rinascita di un paese martoriato. L’orizzonte politico è
abbastanza modesto. Servirebbe un re Idris, tanto per citare il sovrano
spodestato da Gheddafi. Qualcuno di quella fattura che sappia davvero
parlare al cuore della gente spingendola a tirarsi fuori dalle macerie
di una guerra civile devastante. Le
immagini trasmesse in questi mesi dalle televisioni raccontano di una
rivolta, analogamente a quanto registrato in altri paesi dell’area, in
cui i giovani hanno avuto la parte del leone. Quale ruolo per loro nel
nuovo assetto libico? Come in quasi tutti i paesi arabi,
anche in Libia i giovani rappresentano la quota maggioritaria della
popolazione. La freschezza, la voglia di cambiare il mondo, l’anelito
di costruire una società ispirata ai modelli occidentali presente in
alcuni di loro, sono fattori che potrebbero risultare decisivi per una
Libia più accogliente e meno oscurantista di quanto altri invece vanno
paventando. D’altro canto viene però da chiedersi come siano stati
finora educati questi ragazzi. Quali valori sono stati loro inculcati
nelle scuole del regime? Sapranno accogliere la sfida della democrazia?
Anche in questo caso è ancora oggi difficile dare una risposta. Spesso
in queste settimane sulla stampa si è letto di un possibile
coinvolgimento di alcune minoranze, tra cui quella ebraica, nel nuovo
governo unitario del paese. Ritiene questa una possibilità attendibile?
Credo purtroppo che in questa fase storica i libici
abbiano altro a cui pensare. Dobbiamo essere realisti. La Libia è oggi
Judenrein, un paese senza ebrei. Non è questo il momento. Lasciamo che
escano con le loro forze da questa drammatica situazione. Poi forse un
giorno potremo tornare.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, novembre 2011
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Le gallerie del mondo
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Il
Tizio vede una puntata delle Iene. Un servizio è su una delle gallerie
clandestine che dall’Egitto portano a Gaza e viceversa. Si vede tutto
quel traffico di gente che striscia sotto la volta del tunnel con le
merci di contrabbando, e magari gli esplosivi. Le gallerie sono
pericolose, possono crollare. A volte le persone sono in galleria che
camminano e non sanno che Hamas ha appena sparato missili su Israele:
passa un tempo ix, gli israeliani bombardano e la galleria è scossa, a
volte cede, e quelli che prima erano vivi, sono morti. Il Tizio vede le
facce di queste persone. Il loro lavoro è andare avanti e indietro nel
tunnel. Vedere una faccia non è vedere una bandiera, o un simbolo. Le
facce degli uomini e delle donne sono diverse e tutte uguali. Diverse
perché nere, bianche, avana, gialle, e un volto è ossuto, uno paffuto,
una ha i capelli rossi. E le facce sono tutte uguali perché quando gli
uomini e le donne del mondo sono preoccupati, o sorridono, pensano, si
assomigliano. E ci accorgiamo subito che un nigeriano, uno scozzese, un
italiano sono tristi, o allegri, o in pensiero. Fa bene, pensa il
Tizio, vedere le facce. Ogni tanto uno vede, si riveste di comprensione
e mette in lavatrice il vestito del risentimento che ormai è
inguardabile: l’odio puzza. Però, pensa il Tizio, bisognerebbe che le
Iene, o la televisione facessero un servizio su una lunghissima
galleria sotto terra che conduce dall’anno 33 della nostra Era al 2011.
È un tunnel dove è passata e continua a passare la persona ebraica,
senza mai uscire. Non lo sa nessuno che c’è questo tunnel e che gli
ebrei ci vivono in modo permanente. La gente crede che gli ebrei vivano
come tutti quanti, una vita sotto il cielo. Non è così, pensa il Tizio:
gli ebrei camminano per strada, vanno al bar, al cinema, al ristorante,
a scuola, ma poi, mentre ognuno di loro in apparenza è al bar che
prende il cappuccino, al cinema, a scuola, invece è sotto quel tunnel
che striscia, senza che nessuno se ne accorga. Una vita clandestina,
nel tunnel più antico che ci sia. C’è poi il terzo tunnel, parallelo a
quello ebraico, lì dentro ci passano le persone di tutte le epoche, gli
ominidi, gli uomini dell’Età del Ferro, soldati delle falangi macedoni,
legionari romani, sudditi di Carlo Magno, persone del Galles, piccoli
popoli dell’Africa, sciamani, vichinghi che pagaiano verso l’America, e
nessuno sa che esiste una galleria accanto dove c’è della gente che
passa come loro e come loro ha paura che crolli il tunnel, che manchi
l’aria, che uno invecchi senza mai uscire - pensa il Tizio.
Il
Tizio della Sera
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
L'omaggio
di Torino ad Amos Gitai
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Stasera a Torino, al
Cinema Massimo, incontro con il regista israeliano Amos Gitai che
insieme a Serge Toubiana, direttore della Cinémathèque francaise,
presenterà alle 20.45 il film Carmèl, un'opera dove i ricordi
personali e la storia dello Stato ebraico si intrecciano
indissolubilmente. In questi giorni al Cinema Massimo sarà inoltre
ospitata una retrospettiva dei film di Gitai composta di 18 pellicole,
alcune ancora inedite in Italia. Nei locali sotterranei della Mole
Antonelliana, l'edificio simbolo della città di Torino progettato
dall'Architetto Antonelli perché diventasse una sinagoga, verrà invece
allestita una video installazione ideata dallo stesso regista e
incentrata sulla figura del padre, architetto della Bauhaus di Berlino,
sulla necessità della memoria e sul ruolo dell'arte. L'installazione
sarà presentata domani durante una conferenza stampa e sarà accessibile
fino a martedì 8 gennaio 2012.
Tommaso De Pas
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italiano |
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Dafdaf
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delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
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