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4 novembre 2011 - 7 Cheshwan 5772 |
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Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
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Nella
parashà di Lekh Lekhà Lot si separa da Avrahàm cerca un luogo in cui
risiedere e sceglie Sodoma. Secondo un midràsh la sceglie perché è una
città tranquilla, senza conflitti. La tranquillità e l'assenza di
conflitti sono normalmente considerate caratteristiche positive ma
Sodoma è, com'è noto, la quintessenza del male. Ci sono due tipi di
tranquillità, la serenità di una persona che considera tutti gli
aspetti di un problema e decide pacatamente qual è la scelta giusta da
operare, ma c'è anche la tranquillità di chi, pur vivendo in mezzo al
mare decide di chiudere gli occhi e di smettere di pensare. Questa è
tranquillità di Sodoma.
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Laura
Quercioli Mincer, slavista
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Nel suo racconto Qu’une larme dans l’ocean
pubblicato nel 1983, lo scrittore polacco (e non ebreo) Stanisław
Vincenz così riferisce: " Durante il mio esilio in Ungheria conobbi un
giovane chassid del luogo che aveva trascorso alcuni anni in una
yeshivà in Polonia, dal noto rav Rokach a Bełzec . [...] Aveva dei
nuovi documenti “ariani” nei quali si chiamava Stanisław Zięba. […]
Zięba nel periodo trascorso nascondendosi durante l’assedio di Budapest
si era dedicato con passione alla lettura. “Le letterature che più mi
affascinano – mi disse – sono quella russa e quella polacca. Quella
russa, Dostoevskij e Tolstoj, tratta delle questioni umane, e quella
polacca della religione”. “E che opere ti interessano della letteratura
polacca?”, gli chiesi. Mi rispose senza esitare: “Il grande Maggid, le
parole dello stesso Baal Shem Tov, Mendel di Vitebsk, Nachman di
Bratslav e altri”.
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Qui
Venezia - Amor sacro o amore profano?
Un seminario dell'Università Ebraica sul Cantico dei Cantici
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Il Cantico dei Cantici, uno
dei poemi più amati e più misteriosi. Perché il titolo? -come se fosse
la quintessenza dei poemi. È vero che lo scrisse il re Salomone per
l’etiope Regina di Saba, nigra
sed formosa? È un canto erotico, o l’erotismo serve solo
come allegoria mistica? Eppure le allusioni sessuali sono
inequivocabili. Perché allora è stato assunto nel canone biblico?
Ma nessuno resiste al fascino dei versi di altissima poesia, di intensa
passione, alle evocative descrizioni di fiori, vesti, profumi , ai
ricordi suscitati dai luoghi, Gerusalemme, l’oasi di En Ghedi…
Il Cantico fa parte dell’immaginario collettivo di tutti. Che lo si sia
letto o solo se ne sia sentito parlare, che se ne abbia in casa una
copia erudita, o magari solo un souvenir calligrafico acquistato a
Safed, dove le lettere microscopicamente vergate formano disegni di
melograni e colombe, è difficile ignorarne l’esistenza.
Eppure il senso primario è stato per secoli accantonato, in favore di
una interpretazione mistica, sia da parte ebraica che da parte
cattolica (spesso arrampicandosi sugli specchi pur di ignorare gli
evidenti riferimenti sessuali..)
Amore fra D-o e il suo popolo, fra Gesù e la sua Chiesa, fra il Divino
e l’umano, o fra un uomo e una donna?
Amor sacro o
amore profano?
È questo il titolo di un interessante convegno che ha luogo questo fine
settimana fino al 6 novembre a Venezia, organizzato dall’Università
Ebraica di Gerusalemme e che vede riuniti alcuni tra i più insigni
studiosi del Cantico al mondo: in primis Moshe Idel, il grande studioso
della Kabbalah, che si confronterà con l’esperto biblico Yair
Zacovitch, con Guy Stroumsa, professore di religioni comparate, Haim
Baharier, noto in Italia per le sue straordinarie lezioni di
ermeneutica biblica, Marco Ceresa, che insegna all’Università Ca’
Foscari letteratura e cultura dell’Est Asiatico (come non paragonare il
Cantico alle opere della religione tantrica?)
La scrittrice Eliette Abécassis, la filosofa dell’Ecole Normale
Supérieure Monique Canto-Sperber, Menachem Ben Sassoun e Sarah
Stroumsa, rispettivamente presidente e rettore dell’Università Ebraica
di Gerusalemme, Ami Bouganim, il brillante scrittore e filosofo,
parleranno di amore sacro e amore profano, del sesso nelle diverse
tradizioni religiose, del simbolismo del Cantico dei Cantici, e del
rapporto tra Cantico ed Ecclesiaste. Per finire con una tavola rotonda,
domenica mattina, su Sesso e politica (tema ahimé di fin troppa
attualità) che vedrà Gad Lerner, Sergio della Pergola, lo psicologo
Daniel Sibony, e la sociologa Eva Illuz discutere del perché il potere
politico sembra alimentare una sessualità smodata (da Kennedy a
Clinton, da Strass Kahn a Berlusconi a Moshe Katsav... tutto il mondo è
paese...)
I seminari, in francese e in inglese (non è prevista la
simultanea in italiano) saranno corredati di visite alla Biennale e al
Ghetto, di uno straordinario concerto di Myung-Whun Chung alla Fenice,
e degli a-solo della soprano americana Brett Kroeger che presenterà una
carrellata di diverse versioni musicali del Cantico attraverso i secoli.
Viviana Kasam
Il Cantico dei Cantici: il poema d'amore più conosciuto, più
commentato, più tradotto nella Storia, e anche il più misterioso. Che
cosa significa il titolo? Perché un poema così fortemente erotico è
stato assunto sin dall'antichità (Concilio di Yavnè, 90 dC), nel canone
dell'Antico Testamento? E come mai nelle tradizioni religiose
dell'occidente, quella ebraica, quella cattolica, quella cristiana, la
letteralità del testo, che descrive senza mezzi termini un amplesso, è
stata "freudianamente" rimossa in favore di una interpretazione mistica
spesso tirata per i capelli, così forzata nel diniego dell'evidenza da
apparire quasi assurda ad un occhio laico e smaliziato?
Giriamo i quesiti a Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di
mistica ebraica, che insegna alla cattedra che fu di Gershom Scholem,
Haim Baharier, famoso per le sue lezioni di ermeneutica biblica
diventate cult, e Padre Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità
monastica di Bose, scrittore, editore di Qiqajon, profondo conoscitore
e interprete delle Scritture.
Perché il
titolo?
Baharier: Se
abbracciamo ciò che dice Rashi al riguardo si tratterebbe di una
valutazione qualitativa: un canto sopra ogni canto. Oppure un canto per
tutti i canti. Seguendo invece il commento di Rabbi Israel Salanter, il
Cantico dei Cantici è un testo paradigmatico della pluralità dei
significati e nello stesso tempo dell'univocità: ossia una voce
profonda, separata, sempre identificabile.
Bianchi:
Questo titolo – che coincide con la prima riga del testo: "Cantico dei
Cantici, che è di Salomone" – è un superlativo, dunque indica "il canto
per eccellenza", il più sublime tra tutti i canti cantati in Israele. I
rabbini dicevano che c'è una corrispondenza tra questa espressione e il
Santo dei Santi, ovvero il luogo più interno del Tempio, sede della
presenza di Dio. È un modo simbolico per affermare che la parola di Dio
è presente più che mai in questo piccolo gioiello letterario.
Dunque
l'autore fu davvero il re Salomone?
Baharier:
Dal punto di vista storico saremmo legittimati ad avere dei dubbi. Se
però immaginiamo una sorta di casting dobbiamo ammettere che il ruolo
di autore del Cantico ben si addice a Re Salomone.
Idel: Ritengo
di no, il testo è probabilmente più tardo di qualche secolo rispetto al
regno di Salomone, ma questa attribuzione è stata fondamentale per far
adottare il Cantico nel canone biblico.
Bianchi:
Non è realistico attribuirlo al Re Salomone. Però c'è un senso logico
in questa attribuzione, legato al fatto che nel testo viene citato
alcune volte (per l'esattezza sei) proprio il Re Salomone.
Approfondendo questo dato, potremmo chiederci: per una innamorata il
suo amato non è forse sempre un re? In quest'ottica è bello pensare che
i due personaggi siano in qualche modo un re e una regina, anche se
nella realtà materiale del testo sono più probabilmente un pastorello e
una pastorella. L'amore descritto è quello di due ragazzi, è l'amore di
tutti i ragazzi innamorati. L'autore, chiunque egli sia, è certamente
un poeta raffinato, capace di descrivere l'amore con grande maestria.
Ma di quale amore stiamo parlando: amore sacro, amore profano, o
entrambi?
Idel:
Secondo il suo significato originario, è un canto erotico secolare, che
solo più tardi è stato allegorizzato sia nella tradizione ebraica che
in quella cristiana, per adattarsi a nuovi valori religiosi emersi più
tardi, a partire dal primo secolo dopo Cristo.
Bianchi:
Direi che il Cantico celebra l'amore umano in tutte le sue infinite
sfaccettature, alle quali si può alludere solo in chiave poetica: la
lontananza, il cercarsi, il rincorrersi, il ritrovarsi, l'amplesso...
E' significativo che il nome di Dio compaia solo alla fine, quando si
dice che l'amore è una fiammata, è un fuoco divino. In questo senso,
nella tradizione ebraica il Cantico è diventato ben presto simbolico
dell'amore di Dio per il suo popolo; nella tradizione cristiana è
normalmente simbolico dell'amore tra Cristo e la Chiesa o, in ambienti
monastici, tra Dio, tra Cristo e il singolo credente. In questo cammino
il senso letterale del Cantico fu totalmente oscurato. Quando però si
trattò di inserire questo poema nel canone dell'Antico Testamento molti
si opposero, proprio per gli espliciti riferimenti al sesso contenuti
in queste pagine. Fu Rabbi Akiva a farcelo entrare, durante il Concilio
di Javne (fine del I secolo d.C.), insistendo sull'interpretazione
simbolica di cui si diceva. Celebri sono le parole da lui usate per
giustificare tale inserimento: "Il mondo intero non è degno del giorno
in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le
Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei
Santi!".
Baharier: Non
vedo una compresenza o alternanza di ‘amori' di diversa natura;
percepisco come uno e unico l'amore espresso dal Cantico: amore sacro
quale approfondimento dell'amore profano e amore profano quale amore
sacro ancora imperfetto, sentimento acerbo, in divenire.
Quale
significato si deve quindi attribuire all'erotismo presente nel testo?
Idel:
Si tratta di una forma di erotismo assolutamente naturale, rurale,
libero da restrizioni religiose, che ha luogo nella natura , non in un
ambiente urbano. Da questo punto di vista la nostra esperienza urbana
contemporanea, anche quando parliamo di amore libero e enfatizziamo la
dimensione corporea dell'esperienza, è molto diversa dal concezione di
base che permea il testo antico.
Baharier: L'erotismo
attiene a ciò che si nasconde e al tempo stesso si rivela, alla
presenza nell'assenza. Il Cantico dei Cantici ma anche tutta la Torà
sono permeati da tale dualità che sicuramente seduce il pensiero e
genera ermeneutica. "Aggiungere è sottrarre", recita un detto
talmudico. L'erotismo in generale e quello del Cantico in particolare,
dovrebbe acuire la nostra capacità di comprendere simbolicamente. Per
l'appunto, il vestito coprente e aderente che nasconde e rivela,
simbolo per eccellenza dell'erotismo e quindi di ciò che è relazione,
si dice in ebraico "simlà", il cui etimo omofonico "semel" significa
"simbolo".
Bianchi:
Questo erotismo è la cifra riassuntiva di un naturale rapporto d'amore
tra due ragazzi. Un rapporto, si badi bene, senza alcuna allusione a
una vicenda matrimoniale! In questo senso è un poema estremamente
trasgressivo, così trasgressivo che nelle interpretazioni tradizionali
si sentì sempre il bisogno di leggerlo facendo riferimento a uno sposo
e a una sposa. Ma nel Cantico – lo ripeto a scanso di equivoci – non
c'è alcun accenno a un rapporto sponsale istituzionalizzato.
C'è una
diversità tra l'interpretazione ebraica del Cantico e quella cattolica?
Idel:
Nell'ebraismo ci sono parecchie forme di interpretazione del Cantico,
che riflettono uno spettro di valori diversi nel tempo. Interpretazioni
mistiche e filosofiche, alcune ispirate da fonti greche ed ellenistiche
attraverso la mediazione dei testi musulmani medioevali. Tuttavia la
visione più diffusa del Cantico anche in mondo ebraico è quella che lo
considera un riflesso dell'amore erotico fra Dio e il suo Popolo,
definito la Kenesset Yisrael, l'assemblea di Israel, e raffigurato come
la sua sposa. Questa interpretazione nasce dall'antico paragone di
Rabbi Aqivah, ed è stata assunta nell'ebraismo rabbinico forse in
competizione con la pretesa cristiana che la Sposa fosse l'ecclesia, e
cioè la Chiesa Cattolica. È un concetto che si riflette in molti
commentari del Cantico, fino a diventare preponderante.
Bianchi: Nella
tradizione ermeneutica cattolica il rifiuto dell'interpretazione
letterale nasce da una visione "angosciata" della sessualità, una
visione che, semplificando, potremmo definire nemica del piacere.
Nell'ambiente monastico, in particolare, si consolida la
trasfigurazione del Cantico letto come una sorta di inno sacro, in cui
lo sposo è Gesù e la sposa la Chiesa: al riguardo, basta leggere i
commenti di san Bernardo di Clairvaux, che è stato il più grande
esegeta cattolico del Cantico. Solo negli ultimi sessant'anni in ambito
cristiano si è cominciato a leggere il Cantico nella sua dimensione
letterale. Prima non se ne aveva il coraggio. Fu Dietrich Bohnoeffer,
il grande teologo luterano ucciso dai nazisti nel 1945, ad aprire la
strada, leggendo questo poema come un canto di amore umano. Egli fece
al riguardo alcune considerazioni decisive, che hanno radicalmente
mutato l'interpretazione consolidata.
Baharier: A
differenza della tradizione cristiana, secondo la tradizione
ermeneutica ebraica non possono esistere piani esclusivi di lettura del
testo sacro: una lettura o tutta allegorica, o tutta pedagogica, o
tutta simbolica. Le varie letture devono poter coesistere. La lettura è
un avvenimento. E poiché per la tradizione ebraica un avvenimento
simbolico è un avvenimento, non entro nel testo del Cantico per
braccare i simboli che rimandano a una certa realtà, ma ricerco il
significato simbolico di questa realtà.
Può il
Cantico essere paragonato a esperienze di erotismo mistico presenti in
altre culture e religioni, per esempio il tantrismo?
Idel:
In senso letterale, ci sono pochi parallelismi con l'antico Oriente.
Nel senso allegorico e mistico, ci sono invece molti parallelismi con
forme di misticismo nell'Europa medioevale e rinascimentale. Nonostante
le grandi diversità tra l'interpretazione mistica del Cantico e altre
forme di erotismo mistico, c'è tuttavia qualcosa in comune: questi
approcci enfatizzano il raggiungimento di una spiritualità individuale
a scapito del piacere fisico per sè. Quelle che rimangono peculiari al
solo ebraismo sono invece le interpretazioni cabalistiche , fiorite a
partire dal Medioevo, in particolare la più diffusa, secondo la quale
si crea un forte parallelismo tra la coppia umana, inferiore, e quella
più "alta" pertinente al regno divino, generando una forma di
isomorfismo. Ovvero, ciò che viene fatto a livello inferiore, tra gli
uomini, si ritiene provochi un impatto sulla coppia alta, e dunque il
rapporto umano, che genera corpi, si ritiene possa contribuire a una
più elevata forma di rapporto all'interno dei poteri divini, capace di
generare anime.
Baharier:
Non vedo analogie. Come ho detto, gli ingredienti principali del
Cantico sono celamento e rivelazione: una forma di erotismo pervade
questo testo in un movimento perpetuo di entrata e di uscita da esso,
di ritrosia e di emergenza. Una dimensione erotica anche nel senso di
esclusività: c'è il testo e il lettore. Certamente un lettore con la
sua storia e dentro la sua storia, ma per il testo è solo il lettore
vivente in quel momento. Soltanto in seguito a questo ‘incontro
amoroso' (in ebraico "qerià", lettura, contiene l'etimo dell'incontro
inatteso e improvviso), fatto di impegno e di studio, si è invitati a
creare nel mondo il luogo del confronto. Non occorrerebbe dunque una
esperienza erotica esterna.
Bianchi:
Non credo che si possa paragonare il Cantico alle tradizioni orientali
come il tantra. In quell'ambito il piacere sessuale, riservato agli
iniziati, è ritenuto una via di accesso al misticismo. Nel Cantico
invece si narra l'amore umano, si celebra il piacere umano accessibile
a tutti, o meglio a chiunque sappia amare con consapevolezza. In
sintesi, nella tradizione ebraica e cristiana è la traslazione
simbolica a far accedere al piano spirituale, non la realtà dell'atto
sessuale, come avviene nelle tradizioni orientali.
Eppure il
significato letterale, l'amore erotico, è passato in secondo piano
rispetto alla predominante interpretazione mistica del poema. È stata
una rimozione consapevole?
Bianchi:
Certamente sì nell'esegesi cattolica. Questa rimozione è il frutto di
una visione dualistica della sessualità, ereditata dal mondo greco, in
particolare dal platonismo. Per questo disprezzo della sessualità si è
voluto cancellare ogni riferimento alla fisicità presente nel Cantico:
purtroppo si è scelto di considerare il testo solo in chiave simbolica,
negando il grande valore umano che esso contiene. In sintesi,
occorrerebbe saper tenere insieme queste due dimensioni, come ha
scritto con intelligenza il cardinale Ravasi, in un suo commento al
Cantico: "L'amore umano pieno, dove corporeità ed eros sono già
linguaggio di comunione, giunge di sua natura a dire il mistero
dell'amore che tende all'infinito e può raggiungere la realtà
trascendente e divina".
Baharier: Per
quello che concerne l'ermeneutica ebraica, non penso proprio ci sia
alcuna rimozione. Ritengo che il significato più evidente sia quello
che scaturisce dal percorso ermeneutico concepito come un imperativo
categorico di lettura dignitosa.
Idel: Le
più tarde interpretazioni mistiche del Cantico in ambienti ebraici non
hanno assunto la necessità di rifiutare il significato letterale,
corporeo, hanno invece ribadito la coesistenza dei due piani, come già
spiegato. Poichè all'interno dell'ebraismo non esiste alcuna forma di
ascetismo istituzionalizzato –monaci, suore, monasteri, ordini- e la
verginità non è un valore religioso superiore, l'erotismo fisico non è
stato concepito dalla maggior parte dei Maestri ebrei come antagonista
a quello spirituale . Non dovendo scegliere tra corpo e spirito, è
stato possibile per gli esegeti ebrei di abbracciare contemporaneamente
entrambe le forme di esperienza ed entrambi i livelli di significato.
V.K.
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Qui
Roma - Il Festival del Film premia Eti Tsico
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In occasione del Festival
Internazionale del Film di Roma, grande rassegna internazionale che in
questi giorni ha tenuto banco nella Capitale, sono stati premiati due
cortometraggi girati dagli studenti di cinema dell'Università di Tel
Aviv. Location il Maxxi, progettato per essere lo scrigno dei gioielli
dell'arte contemporanea, che non si è fatto sfuggire questi piccoli sei
capolavori che meritano di viaggiare ancora lontano. La giuria,
composta da mostri sacri del cinema dal calibro di Roberto Faenza,
Ettore Scola e della costumista da Oscar Milena Canonero (che ha
vestito i protagonisti di Arancia Meccanica e Marie Antoniette), dopo
essersi ritirata per deliberare, ha decretato il vincitore: è la
giovane Eti Tsico che riceve il premio da Anna Fendi. Il suo
cortometraggio Audition è l'audizione che una regista, interpretata
dalla stessa Ety, fa ad un ragazzo arabo. Usando la lingua del cinema
l'orizzonte si amplia: dal divano sul quale l'aspirante attore è seduto
si passa a trattare con semplicità e delicatezza il rapporto tra
israeliani e palestinesi. "Quella tra di noi non è paura, è esitazione"
ed un languido bacio farà finire l'audizione per un film e iniziare
l'audizione per la vita vera. Ma il prossimo aspirante è dietro la
porta. Il corto fa parte di un progetto finanziato dall'Università di
Tel Aviv chiamato "Coffee Between Reality and Imagination", una
collaborazione israelo-palestinese. Gli spettatori chiamati ad
effettuare una seconda votazione, entusiasti di poter essere almeno per
una notte critici con il fascino da sciarpa di cachemire al collo,
danno la loro preferenza a Second watch. Il corto, firmato da Udi
Ben-Arie, è uno spaccato spassosissimo dell'esperienza dell'esercito.
Berkowitz, di guardia al confine, stringe una insolita amicizia con il
soldato della Giordania. Tra balli scatenati sulle note di Salma ya
Salama, storpiato in Barbara ya Barbara, la pace sembra davvero
possibile. Sarebbe un peccato non citare gli altri corti in concorso:
del progetto israelo-palestinese fanno parte anche Tasnim, ambientato
in un villaggio beduino, per il quale la regista Elite Zexer ha dovuto
fare ricerche e sopralluoghi per sei mesi e Trip to Jaffa di Eitan
Sarid (risate assicurate). Non si ride invece vedendo A bug with a
helmet di Yona Rozenkier, tragico ritratto della guerra e della lotta
che ne consegue per la sopravvivenza. Infine Pini Tavger ci delizia con
Pinhas, 32 minuti che narrano la vicenda di un bambino di origine russa
che decide di avvicinarsi alla religione. Quando gli viene chiesto
quanto tempo ha impiegato a girare, Tavger risponde schiettamente:
"Tutta la vita", con la consapevolezza del piccolo capolavoro che ha
emozionato la sala. I titoli di coda terminano, le luci si accendono, i
premi sono stati consegnati e ora non resta che sperare nel successo
dei sei registi. Sentiremo ancora parlare di loro...
Rachel Silvera
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Qui Torino - Vera e Norma, militanti della memoria
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Grande
intensità e partecipazione al Caffè Basaglia di Torino in occasione
della conferenza Donde Estan? Desaparecidos - La Memoria di Plaza de
Mayo che ha avuto come protagoniste Vera Vigevani Jarach, madre di una
vittima dei “voli della morte” e Norma Berti, allora ventenne,
sopravvissuta al sequestro e a tre anni di prigionia. Due donne che
hanno vissuto la tragedia dell’Argentina, due vittime della dittatura
militare che ha avuto inizio con il Golpe del generale Rafael Videla il
24 marzo 1976. Vera Vigevani, nata a Milano nel 1928, dovette
lasciare l'Italia, emigrando con la famiglia in Argentina a causa delle
leggi razziste. Sposata successivamente con Giorgio Jarach, anch'egli
fuggito dall'Italia fascista, ebbe una figlia Franca, sequestrata
all’età di 18 anni il 25 giugno 1976, perché ritenuta un possibile
oppositore politico. Da allora, insieme alle altre coraggiose ''madri e
nonne di Plaza de Mayo'' ha animato la battaglia per avere verità e
giustizia sugli scomparsi. Viene a conoscenza della terribile verità
solo pochi anni fa, grazie alla testimonianza di una donna, Marta
Álvarez, che aveva incontrato Franca in un campo di detenzione
clandestino dell’ESMA (Escuela Superior de Mecanica de la Armada):
poche settimane dopo l'arresto Franca viene barbaramente uccisa.
Insieme ad altri, per liberare spazio nel centro di detenzione, viene
caricata su uno dei consueti "voli della morte": dagli aerei, gli
ufficiali della marina militare argentina gettavano in mezzo all'oceano
o nel Rio de La Plata le persone da eliminare. I prigionieri venivano
imbottiti di sedativi prima di venire prelevati e quando venivano fatti
salire sull'aereo erano in uno stato di incoscienza. Perché
desaparecidos? Dovevano eliminare i dissidenti, ma senza ripetere gli
“errori” compiuti da Pinochet nel Cile del 1973: una repressione troppo
“visibile”. L'Argentina andava “ripulita”: «Prima elimineremo i
sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti,
successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli
indecisi.» (Jorge Rafael Videla). Il risultato fu un'intera generazione
cancellata da un terrorismo di Stato che in sette anni si portò via nel
nulla dalle 10 alle 30 mila persone. La riflessione di Vera parte a
ritroso e parla di due recenti vittorie: il fondamentale processo
svoltosi pochi giorni fa in Argentina che si è concluso con le sentenze
di ergastolo per molti carnefici dell’ESMA e la vittoria elettorale di
Cristina Fernández de Kirchner, dal 2007 presidente d'Argentina. La
speranza è che, finalmente, questo governo possa portare avanti gli
ideali dei loro figli. Ciò che colpisce di più è la forza con cui
Vera ancora oggi racconta, come se fosse la prima volta, il suo dramma.
Lo fa con una freschezza che si potrebbe quasi dire “infantile”, che
prende l’ascoltatore e lo inchioda alla sedia: continua a lottare per
la creazione di una memoria, affinché nessuno mai dimentichi. Il suo
obiettivo è far sì che il ricordo diventi un’arma di battaglia per il
presente, e che tutte quelle vite spezzate non siano state inutili. Racconta
del terribile e grande silenzio che ha paralizzato l’Argentina durante
la dittatura. Da questo baratro si è potuti uscire grazie a diverse
forme di resistenza: la nascita del movimento delle Madres de Plaza de
Mayo. “Il movimento – dice Vera- è nato tra terrore e dolore, avevamo
paura, ma l’unico modo per superarla era non immobilizzarsi, agire”.
Altra forma fu il teatro argentino che, mosso dalla volontà di
denuncia, ha rotto il silenzio, costituendo così il primo passo in
avanti dell’intera società. Norma Berti aveva 21 anni nel 1976,
quando fu sequestrata e condotta in un centro clandestino di detenzione
dove vennero inghiottite più di 2500 persone. Da lì fu trasferita al
penitenziario di Cordoba e poi al carcere di Villa Devoto a Buenos
Aires. Fu messa in libertà alla fine del 1979 dopo tre anni di
prigionia e fu successivamente costretta a emigrare in Italia in
seguito a minacce. Ciò che l’affligge di più, oltre al senso di colpa
per essere una dei pochissimi sopravvissuti, è il senso di sconfitta
che Norma definisce “totale, schiacciante”, il fallimento di ideali e
di un’esperienza di militanza politica molto forte. “Quando ero in
carcere non ero sola, ero con le altre compagne dove campeggiava la
parola resistenza, anche davanti alle richieste del nemico: non
accettavamo la perquisizione corporale e non firmavamo atti di
pentimento. Non volevamo pronunciare la parola sconfitta, c’è voluto
molto tempo per interiorizzarla”. Si sofferma sul termine genocidio,
forse non così appropriato per definire ciò che è accaduto in quegli
anni in Argentina: non erano in ballo motivi di odio razziale, etnico o
religioso. È stata colpita un’intera generazione per motivi politici,
forse il termine corretto sarebbe “politicidio”. “Presenti ora e
sempre”: questo è il compito dei testimoni. “La testimonianza -
conclude Vera - di per sé ha dei limiti, avrà sempre delle lacune e non
sarà mai del tutto oggettiva, tuttavia è fondamentale perché noi siamo
testimoni diretti”. Solo grazie alla conoscenza del passato si possono
riconoscere nel domani i “sintomi”, nella speranza questa volta di
prevenire.
Alice Fubini
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Qui Genova - Una fiaccolata per non dimenticare
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Oltre
un migliaio di cittadini ha sfilato ieri pomeriggio per le strade di
Genova in occasione del 68esimo anniversario della deportazione degli
ebrei del capoluogo ligure ad opera dei nazifascisti. 260 persone,
uomini e donne, anziani e bambini, furono catturati e trasferiti nei
campi della morte. Solo dieci fecero ritorno. In loro ricordo una lunga
e partecipata fiaccolata con i nomi dei lager nazisti affissi su
targhe, organizzata dalla Comunità ebraica di Genova, dalla Comunità di
Sant'Egidio e dal Centro Culturale Primo Levi, ha attraverso la città
da Galleria Mazzini, luogo in cui fu arrestato l'allora rabbino capo
Riccardo Pacifici, alla sinagoga di via Bertora. In prima fila, dietro
allo striscione 'Non c'è futuro senza Memoria', i gonfaloni della
Regione Liguria, della Provincia e del Comune di Genova, rappresentanti
delle istituzioni ebraiche nazionali e cittadine, il sindaco Marta
Vincenzi, il responsabile locale della Comunità di Sant'Egidio Andrea
Chiappori, il vescovo ausiliare Luigi Palletti e il portavoce della
Comunità islamica Salah Hussein. Presenti inoltre il sindaco di
Varsavia Hanna Gronkiewicz Waltz e i primi cittadini di numerose città
europee, a Genova per presenziare alla concomitante assemblea
Eurocities 2011. Più volte sottolineato nel corso degli interventi il
valore imprescindibile della Memoria e il concetto di sacralità della
vita. Nel suo discorso il rabbino capo Giuseppe Momigliano ha ricordato
come l'ebraismo attribuisca da sempre grande importanza alla Memoria
nella quotidianità e non solo in occasione di anniversari specifici. Il
rav ha fatto riferimento ad alcuni tra gli eventi più traumatici
vissuti dall'Am Israel nei secoli e alla loro rielaborazione. E per
spiegare la devastazione dello sterminio nazifascista ha utilizzato una
semplice quanto efficace metafora: “Come nessun Beth Haknesset può
sostituire il Beth HaMiqdash così nessun evento potrà colmare il vuoto
lasciato dalla Shoah”. Chiusura in ogni caso con un messaggio di
speranza: “L'ebraismo ci insegna a guardare al domani con fiducia” ha
affermato rav Momigliano. Una fiducia rinnovata ieri con la presenza di
cittadini di ogni etnia, religione e appartenenza culturale. Uniti,
stretti insieme per dire: Mai più. “La Torah – ha spiegato il
presidente della Comunità ebraica Amnon Cohen – insegna che ogni vita
ha un valore incommensurabile e nessun prezzo è troppo alto per
salvarla. È stato dimostrato recentemente con il caso del caporale
Gilad Shalit. Oggi, noi della Comunità ebraica, insieme alla Comunità
di Sant’Egidio, con le massime autorità della Chiesa e con il primo
cittadino di Genova in qualità di rappresentante degli amministratori
locali vogliamo ricordare questo periodo oscuro della nostra storia
perché non accada mai più, né agli ebrei né a persone di altre etnie,
credenze e religioni. Ricordare e non dimenticare per poter costruire
un mondo migliore per i nostri figli”. Per Giulio Disegni, consigliere
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, “se a quasi 70 anni da
Auschwitz si continua a scrivere e a commentare la tragedia è perché la
nostra civiltà non ne ha accettato del tutto la responsabilità”. È
ancora necessario, dice Disegni, opporsi alle riduzioni e alle
negazioni, ai tentativi di rimozione, di negazione e falsificazione.
“Non sono affermazioni, ma domande a cui è dovere non negare mai una
risposta. Riconciliarsi con il passato significa riconoscerne
l’attualità e la presenza. Per questo non si riesce a smettere di
chiedersi come 'pensare Auschwitz, come 'insegnare Auschwitz'. Parlarne
e scriverne è, con tutti i limiti e rischi, l’unica alternativa ai vari
percorsi dell’oblio”. Nel corso della cerimonia sono intervenuti tra
gli altri anche il presidente del Porto Antico Ariel Dello Strologo,
che ha contestualizzato al folto pubblico alcuni dei passaggi più
drammatici di quei giorni di deportazione, e Gilberto Salmoni, memoria
storica della Comunità ebraica, sopravvissuto alla deportazione prima a
Fossoli e poi nel lager di Buchenwald.
a.s.
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Qui Torino - Amos Gitai e la "settima arte"
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"Un
film che parla di persone molto vicine a me, come i mei due figli, mia
moglie e mia madre. È quindi un'opera molto intima, che si riferisce
anche a eventi passati, remoti nel tempo. È un film che parla del
rapporto che ho col mio paese, Israele, e del modo in cui concepisco il
cinema". Questo dice il regista Amos Gitai prima che venga trasmesso,
al Cinema Massimo di Torino, il suo film Carmel. Accanto a lui, il noto
critico cinematografico di origine tunisina Serge Toubiana, direttore
della Cinémathèque Francaise e autore del libro Il cinema di Amos Gitai
– Frontiere e Territori ( Bruno Mondadori 2006 ). Ieri sera al Cinema
Massimo a fare gli onori di casa è stato Alberto Barbera, direttore dal
2004 del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il Museo quest'hanno ha
voluto dedicare un omaggio a Gitai, offrendogli di allestire una video
installazione nei locali sotterranei della Mole Antonelliana, aperti al
pubblico per la prima volta, e omaggiandolo con una monografia e una
retrospettiva dei suoi film. Diciotto lungometraggi scelti dall'autore
e da Toubiana, ex direttore dei Cahiers du cinéma, tra le riviste
cinematografiche più prestigiose a mondo, verranno infatti trasmessi al
Cinema Massimo fino al 18 novembre. La video installazione Architettura
della Memoria, curata dal regista e architetto Amos Gitai, sarà invece
accessibile al pubblico da oggi fino al prossimo otto gennaio. Questa,
già presentata al pubblico tedesco e francese al Kunst-Werke di
Berlino, nella base sottomarina di Bordeaux e al Palais de Tokyo di
Parigi sarà una sintesi degli allestimenti precedenti, adattata però
alla struttura della Mole Antonelliana e potrà quindi godere di una sua
piena originaltà. Oggetto dell'opera di Gitai, ospitata nell'edificio
che un tempo sarebbe dovuto diventare la sinagoga principale della
città, un omaggio alla figura del padre Munio Weinraub, esponente della
Bauhaus berlinese e al quale Gitai dedicherà il suo nuovo film Lullaby
to My Father. "Mi colpisce sapere che la Mole inizialmente venne
pensata per essere una sinagoga; la memoria dei luoghi conta molto per
me" rivela il regista. Amos Gitai nasce a Haifa nel 1950, dove si
laurea in architettura al prestigioso Technion. Consegue poi un
dottorato alla University of California di Berkeley. Le prime
esperienze con la telecamera arrivano quando è richiamato in patria per
combattere nella guerra del Kippur. In quella occasione, durante le
missioni in elicottero, effettua alcune riprese con la Superotto
regalatagli dalla madre. La sua carriera vera e propria da regista
inizierà però solo alla fine degli anni '70. I suoi film furono dal
principio molto criticati a causa dell'atteggiamento che veniva fatto
trasparire, secondo molti troppo filo-palestinese. Questo lo porterà a
trasferirsi in Francia, dove rimarrà fino a quando Rabin non sarà
eletto primo ministro, nel 1992. Forse proprio a causa di questo suo
atteggiamento poco filogovernativo e a detta di alcuni semplificatore
d'una realtà complessa come quella mediorientale, Gitai è stato più
apprezzato all'estero che in patria. Con Free Zone, del 2005, riesce a
far nominare il suo film per la Palma d'oro al festival di Cannes. In
tale contesto l'attrice israeliana Hana Laszlo riesce ad ottenere il
prestigioso alloro come miglior attrice. Il regista sarà presente al
Cinema Massimo anche domani e dopodomani sera per introdurre i film
Esther e Kadosh. A concludere l'incontro che si è svolto prima della
proiezione di Carmel, alcune riflessioni sulla "settima arte": "Il
cinema mi piace proprio perché non è una vera e propria arte. Adoro il
suo lato impuro,quello che possiamo scorgere quando entriamo in un
cinema e per prima cosa sentiamo l'odore di pop corn e bibite gasate;
ma quando le luci si spengono e lo schermo trasmette le prime
immagini...". Tommaso De Pas
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Senza
casta
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La cultura ebraica sembra
nutrire una sana diffidenza per i leader carismatici: Mosè, nonostante
l’educazione faraonica, non era particolarmente abile nella
comunicazione orale. Saul, primo re d’Israele, prima si schermisce
(“Non sono forse un Beniaminita, di una delle più piccole tribù
d’Israele, e la mia famiglia non è la più piccola tra le famiglie della
tribù di Beniamino?”) e poi quando viene eletto re (a sorte) si
nasconde addirittura tra i bagagli. Non mi vengono in mente grandi
leader nella storia ebraica che avessero studiato da leader. Sarà per
questo che i corsi di leadership suscitano in me un’istintiva
diffidenza? Forse, ma c’è anche un altro motivo: come si fa a decidere
oggi chi saranno i leader di domani? In un contesto democratico
chiunque può diventare leader in qualunque momento, indipendentemente
dalle competenze che possiede o dai corsi che ha frequentato. C’è chi è
apprezzato per l’onestà, chi per la dedizione, c’è chi piace per le sue
idee, chi ispira simpatia; nelle nostre Comunità può essere votato chi
ha una buona cultura ebraica, chi è attivo a favore di Israele, chi ha
tempo; può anche capitare che si elegga qualcuno semplicemente perché
in quel momento non ci sono altre persone disponibili a ricoprire
quella carica. Se il Talmud ci insegna che il diritto della maggioranza
può zittire persino una voce divina, sicuramente chi è stato eletto ha
il diritto e il dovere di sedere nei consigli delle comunità, dell’UCEI
e delle istituzioni ebraiche indipendentemente dalle sue competenze.
Inoltre nelle nostre Comunità, soprattutto in quelle medie e piccole, i
ruoli di responsabilità prima o poi toccano a tutti, purché siano
disponibili, o magari un po’ meno indisponibili di altri: chiunque
abbia voglia e tempo di dare una mano sarà un giorno il leader di
qualcosa. Ho due genitori, una zia e uno zio che sono stati tutti
consiglieri comunitari (tre di loro anche dell’UCEI), e non credo che
la mia famiglia sia un caso raro tra gli ebrei italiani. Se tutti siamo
leader, nessuno lo è più di altri. Ho sempre considerato una bellissima
cosa, e un bellissimo insegnamento da portare anche fuori dal mondo
ebraico, che nelle nostre Comunità, in cui le responsabilità toccano un
po’ a tutti coloro che se le vogliono accollare, non esista una vera e
propria casta. L’idea del leader carismatico formato alla scuola di
partito per guidare le masse mi sembra molto lontana dalla nostra
mentalità.
Con questo non voglio negare il valore e l’importanza del progetto di
formazione promosso dal Dec; anzi, è auspicabile che coinvolga il
maggior numero possibile di persone; ma non si potrebbe chiamarlo con
qualche altro nome?
Anna
Segre, insegnante
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Gaza - La miniflottiglia si avvicina alla Striscia
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Si
avvicina lentamente a destinazione la miniflottiglia filopalestinese
partita negli scorsi giorni dal porto turco di Fethiye con destinazione
Gaza. Gli attivisti a bordo delle due navi - l'irlandese Saoirse e la
canadese Tahrir - hanno comunicato via Twitter di essere "a 70 miglia
nautiche" dalle coste della Striscia anche se attendono di essere
intercettati.
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