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  4 novembre 2011 - 7 Cheshwan 5772
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav
rav arbib Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano


Nella parashà di Lekh Lekhà Lot si separa da Avrahàm cerca un luogo in cui risiedere e sceglie Sodoma. Secondo un midràsh la sceglie perché è una città tranquilla, senza conflitti. La tranquillità e l'assenza di conflitti sono normalmente considerate caratteristiche positive ma Sodoma è, com'è noto, la quintessenza del male. Ci sono due tipi di tranquillità, la serenità di una persona che considera tutti gli aspetti di un problema e decide pacatamente qual è la scelta giusta da operare, ma c'è anche la tranquillità di chi, pur vivendo in mezzo al mare decide di chiudere gli occhi e di smettere di pensare. Questa è tranquillità di Sodoma.

Laura Quercioli Mincer, slavista


laura mincer
Nel suo racconto Qu’une larme dans l’ocean pubblicato nel 1983, lo scrittore polacco (e non ebreo) Stanisław Vincenz così riferisce: " Durante il mio esilio in Ungheria conobbi un giovane chassid del luogo che aveva trascorso alcuni anni in una yeshivà in Polonia, dal noto rav Rokach a Bełzec . [...] Aveva dei nuovi documenti “ariani” nei quali si chiamava Stanisław Zięba. […] Zięba nel periodo trascorso nascondendosi durante l’assedio di Budapest si era dedicato con passione alla lettura. “Le letterature che più mi affascinano – mi disse – sono quella russa e quella polacca. Quella russa, Dostoevskij e Tolstoj, tratta delle questioni umane, e quella polacca della religione”. “E che opere ti interessano della letteratura polacca?”, gli chiesi. Mi rispose senza esitare: “Il grande Maggid, le parole dello stesso Baal Shem Tov, Mendel di Vitebsk, Nachman di Bratslav e altri”.

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Qui Venezia - Amor sacro o amore profano?
Un seminario dell'Università Ebraica sul Cantico dei Cantici
cantico dei canticiIl Cantico dei Cantici, uno dei poemi più amati e più misteriosi. Perché il titolo? -come se fosse la quintessenza dei poemi. È vero che lo scrisse il re Salomone per l’etiope Regina di Saba, nigra sed formosa? È un canto erotico, o l’erotismo serve solo come allegoria mistica? Eppure le allusioni sessuali sono inequivocabili. Perché allora è stato assunto nel canone biblico?
Ma nessuno resiste al fascino dei versi di altissima poesia, di intensa passione, alle evocative descrizioni di fiori, vesti, profumi , ai ricordi suscitati dai luoghi, Gerusalemme, l’oasi di En Ghedi…
Il Cantico fa parte dell’immaginario collettivo di tutti. Che lo si sia letto o solo se ne sia sentito parlare, che se ne abbia in casa una copia erudita, o magari solo un souvenir calligrafico acquistato a Safed, dove le lettere microscopicamente vergate formano disegni di melograni e colombe, è difficile ignorarne l’esistenza.
Eppure il senso primario è stato per secoli accantonato, in favore di una interpretazione mistica, sia da parte ebraica che da parte cattolica (spesso arrampicandosi sugli specchi pur di ignorare gli evidenti riferimenti sessuali..)
Amore fra D-o e il suo popolo, fra Gesù e la sua Chiesa, fra il Divino e l’umano, o fra un uomo e una donna?
Amor sacro o amore profano?
È questo il titolo di un interessante convegno che ha luogo questo fine settimana fino al 6 novembre a Venezia, organizzato dall’Università Ebraica di Gerusalemme e che vede riuniti alcuni tra i più insigni studiosi del Cantico al mondo: in primis Moshe Idel, il grande studioso della Kabbalah, che si confronterà con l’esperto biblico Yair Zacovitch, con Guy Stroumsa, professore di religioni comparate, Haim Baharier, noto in Italia per le sue straordinarie lezioni di ermeneutica biblica, Marco Ceresa, che insegna all’Università Ca’ Foscari letteratura e cultura dell’Est Asiatico (come non paragonare il Cantico alle opere della religione tantrica?)
La scrittrice Eliette Abécassis, la filosofa dell’Ecole Normale Supérieure Monique Canto-Sperber, Menachem Ben Sassoun e Sarah Stroumsa, rispettivamente presidente e rettore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Ami Bouganim, il brillante scrittore e filosofo, parleranno di amore sacro e amore profano, del sesso nelle diverse tradizioni religiose, del simbolismo del Cantico dei Cantici, e del rapporto tra Cantico ed Ecclesiaste. Per finire con una tavola rotonda, domenica mattina, su Sesso e politica (tema ahimé di fin troppa attualità) che vedrà Gad Lerner, Sergio della Pergola, lo psicologo Daniel Sibony, e la sociologa Eva Illuz discutere del perché il potere politico sembra alimentare una sessualità smodata (da Kennedy a Clinton, da Strass Kahn a Berlusconi a Moshe Katsav... tutto il mondo è paese...)
I seminari, in francese e in inglese (non è prevista la simultanea in italiano) saranno corredati di visite alla Biennale e al Ghetto, di uno straordinario concerto di Myung-Whun Chung alla Fenice, e degli a-solo della soprano americana Brett Kroeger che presenterà una carrellata di diverse versioni musicali del Cantico attraverso i secoli.

Viviana Kasam

Il Cantico dei Cantici: il poema d'amore più conosciuto, più commentato, più tradotto nella Storia, e anche il più misterioso. Che cosa significa il titolo? Perché un poema così fortemente erotico è stato assunto sin dall'antichità (Concilio di Yavnè, 90 dC), nel canone dell'Antico Testamento? E come mai nelle tradizioni religiose dell'occidente, quella ebraica, quella cattolica, quella cristiana, la letteralità del testo, che descrive senza mezzi termini un amplesso, è stata "freudianamente" rimossa in favore di una interpretazione mistica spesso tirata per i capelli, così forzata nel diniego dell'evidenza da apparire quasi assurda ad un occhio laico e smaliziato?
Giriamo i quesiti a Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di mistica ebraica, che insegna alla cattedra che fu di Gershom Scholem, Haim Baharier, famoso per le sue lezioni di ermeneutica biblica diventate cult, e Padre Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, scrittore, editore di Qiqajon, profondo conoscitore e interprete delle Scritture.
Perché il titolo?
Baharier: Se abbracciamo ciò che dice Rashi al riguardo si tratterebbe di una valutazione qualitativa: un canto sopra ogni canto. Oppure un canto per tutti i canti. Seguendo invece il commento di Rabbi Israel Salanter, il Cantico dei Cantici è un testo paradigmatico della pluralità dei significati e nello stesso tempo dell'univocità: ossia una voce profonda, separata, sempre identificabile.
Bianchi: Questo titolo – che coincide con la prima riga del testo: "Cantico dei Cantici, che è di Salomone" – è un superlativo, dunque indica "il canto per eccellenza", il più sublime tra tutti i canti cantati in Israele. I rabbini dicevano che c'è una corrispondenza tra questa espressione e il Santo dei Santi, ovvero il luogo più interno del Tempio, sede della presenza di Dio. È un modo simbolico per affermare che la parola di Dio è presente più che mai in questo piccolo gioiello letterario.
Dunque l'autore fu davvero il re Salomone?
Baharier: Dal punto di vista storico saremmo legittimati ad avere dei dubbi. Se però immaginiamo una sorta di casting dobbiamo ammettere che il ruolo di autore del Cantico ben si addice a Re Salomone.
Idel: Ritengo di no, il testo è probabilmente più tardo di qualche secolo rispetto al regno di Salomone, ma questa attribuzione è stata fondamentale per far adottare il Cantico nel canone biblico.
Bianchi: Non è realistico attribuirlo al Re Salomone. Però c'è un senso logico in questa attribuzione, legato al fatto che nel testo viene citato alcune volte (per l'esattezza sei) proprio il Re Salomone. Approfondendo questo dato, potremmo chiederci: per una innamorata il suo amato non è forse sempre un re? In quest'ottica è bello pensare che i due personaggi siano in qualche modo un re e una regina, anche se nella realtà materiale del testo sono più probabilmente un pastorello e una pastorella. L'amore descritto è quello di due ragazzi, è l'amore di tutti i ragazzi innamorati. L'autore, chiunque egli sia, è certamente un poeta raffinato, capace di descrivere l'amore con grande maestria.
Ma di quale amore stiamo parlando: amore sacro, amore profano, o entrambi?
Idel: Secondo il suo significato originario, è un canto erotico secolare, che solo più tardi è stato allegorizzato sia nella tradizione ebraica che in quella cristiana, per adattarsi a nuovi valori religiosi emersi più tardi, a partire dal primo secolo dopo Cristo.
Bianchi: Direi che il Cantico celebra l'amore umano in tutte le sue infinite sfaccettature, alle quali si può alludere solo in chiave poetica: la lontananza, il cercarsi, il rincorrersi, il ritrovarsi, l'amplesso... E' significativo che il nome di Dio compaia solo alla fine, quando si dice che l'amore è una fiammata, è un fuoco divino. In questo senso, nella tradizione ebraica il Cantico è diventato ben presto simbolico dell'amore di Dio per il suo popolo; nella tradizione cristiana è normalmente simbolico dell'amore tra Cristo e la Chiesa o, in ambienti monastici, tra Dio, tra Cristo e il singolo credente. In questo cammino il senso letterale del Cantico fu totalmente oscurato. Quando però si trattò di inserire questo poema nel canone dell'Antico Testamento molti si opposero, proprio per gli espliciti riferimenti al sesso contenuti in queste pagine. Fu Rabbi Akiva a farcelo entrare, durante il Concilio di Javne (fine del I secolo d.C.), insistendo sull'interpretazione simbolica di cui si diceva. Celebri sono le parole da lui usate per giustificare tale inserimento: "Il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi!".
Baharier: Non vedo una compresenza o alternanza di ‘amori' di diversa natura; percepisco come uno e unico l'amore espresso dal Cantico: amore sacro quale approfondimento dell'amore profano e amore profano quale amore sacro ancora imperfetto, sentimento acerbo, in divenire.
Quale significato si deve quindi attribuire all'erotismo presente nel testo?
Idel: Si tratta di una forma di erotismo assolutamente naturale, rurale, libero da restrizioni religiose, che ha luogo nella natura , non in un ambiente urbano. Da questo punto di vista la nostra esperienza urbana contemporanea, anche quando parliamo di amore libero e enfatizziamo la dimensione corporea dell'esperienza, è molto diversa dal concezione di base che permea il testo antico.
Baharier: L'erotismo attiene a ciò che si nasconde e al tempo stesso si rivela, alla presenza nell'assenza. Il Cantico dei Cantici ma anche tutta la Torà sono permeati da tale dualità che sicuramente seduce il pensiero e genera ermeneutica. "Aggiungere è sottrarre", recita un detto talmudico. L'erotismo in generale e quello del Cantico in particolare, dovrebbe acuire la nostra capacità di comprendere simbolicamente. Per l'appunto, il vestito coprente e aderente che nasconde e rivela, simbolo per eccellenza dell'erotismo e quindi di ciò che è relazione, si dice in ebraico "simlà", il cui etimo omofonico "semel" significa "simbolo".
Bianchi: Questo erotismo è la cifra riassuntiva di un naturale rapporto d'amore tra due ragazzi. Un rapporto, si badi bene, senza alcuna allusione a una vicenda matrimoniale! In questo senso è un poema estremamente trasgressivo, così trasgressivo che nelle interpretazioni tradizionali si sentì sempre il bisogno di leggerlo facendo riferimento a uno sposo e a una sposa. Ma nel Cantico – lo ripeto a scanso di equivoci – non c'è alcun accenno a un rapporto sponsale istituzionalizzato.
C'è una diversità tra l'interpretazione ebraica del Cantico e quella cattolica?
Idel: Nell'ebraismo ci sono parecchie forme di interpretazione del Cantico, che riflettono uno spettro di valori diversi nel tempo. Interpretazioni mistiche e filosofiche, alcune ispirate da fonti greche ed ellenistiche attraverso la mediazione dei testi musulmani medioevali. Tuttavia la visione più diffusa del Cantico anche in mondo ebraico è quella che lo considera un riflesso dell'amore erotico fra Dio e il suo Popolo, definito la Kenesset Yisrael, l'assemblea di Israel, e raffigurato come la sua sposa. Questa interpretazione nasce dall'antico paragone di Rabbi Aqivah, ed è stata assunta nell'ebraismo rabbinico forse in competizione con la pretesa cristiana che la Sposa fosse l'ecclesia, e cioè la Chiesa Cattolica. È un concetto che si riflette in molti commentari del Cantico, fino a diventare preponderante.
Bianchi: Nella tradizione ermeneutica cattolica il rifiuto dell'interpretazione letterale nasce da una visione "angosciata" della sessualità, una visione che, semplificando, potremmo definire nemica del piacere. Nell'ambiente monastico, in particolare, si consolida la trasfigurazione del Cantico letto come una sorta di inno sacro, in cui lo sposo è Gesù e la sposa la Chiesa: al riguardo, basta leggere i commenti di san Bernardo di Clairvaux, che è stato il più grande esegeta cattolico del Cantico. Solo negli ultimi sessant'anni in ambito cristiano si è cominciato a leggere il Cantico nella sua dimensione letterale. Prima non se ne aveva il coraggio. Fu Dietrich Bohnoeffer, il grande teologo luterano ucciso dai nazisti nel 1945, ad aprire la strada, leggendo questo poema come un canto di amore umano. Egli fece al riguardo alcune considerazioni decisive, che hanno radicalmente mutato l'interpretazione consolidata.
Baharier: A differenza della tradizione cristiana, secondo la tradizione ermeneutica ebraica non possono esistere piani esclusivi di lettura del testo sacro: una lettura o tutta allegorica, o tutta pedagogica, o tutta simbolica. Le varie letture devono poter coesistere. La lettura è un avvenimento. E poiché per la tradizione ebraica un avvenimento simbolico è un avvenimento, non entro nel testo del Cantico per braccare i simboli che rimandano a una certa realtà, ma ricerco il significato simbolico di questa realtà.
Può il Cantico essere paragonato a esperienze di erotismo mistico presenti in altre culture e religioni, per esempio il tantrismo?
Idel: In senso letterale, ci sono pochi parallelismi con l'antico Oriente. Nel senso allegorico e mistico, ci sono invece molti parallelismi con forme di misticismo nell'Europa medioevale e rinascimentale. Nonostante le grandi diversità tra l'interpretazione mistica del Cantico e altre forme di erotismo mistico, c'è tuttavia qualcosa in comune: questi approcci enfatizzano il raggiungimento di una spiritualità individuale a scapito del piacere fisico per sè. Quelle che rimangono peculiari al solo ebraismo sono invece le interpretazioni cabalistiche , fiorite a partire dal Medioevo, in particolare la più diffusa, secondo la quale si crea un forte parallelismo tra la coppia umana, inferiore, e quella più "alta" pertinente al regno divino, generando una forma di isomorfismo. Ovvero, ciò che viene fatto a livello inferiore, tra gli uomini, si ritiene provochi un impatto sulla coppia alta, e dunque il rapporto umano, che genera corpi, si ritiene possa contribuire a una più elevata forma di rapporto all'interno dei poteri divini, capace di generare anime.
Baharier: Non vedo analogie. Come ho detto, gli ingredienti principali del Cantico sono celamento e rivelazione: una forma di erotismo pervade questo testo in un movimento perpetuo di entrata e di uscita da esso, di ritrosia e di emergenza. Una dimensione erotica anche nel senso di esclusività: c'è il testo e il lettore. Certamente un lettore con la sua storia e dentro la sua storia, ma per il testo è solo il lettore vivente in quel momento. Soltanto in seguito a questo ‘incontro amoroso' (in ebraico "qerià", lettura, contiene l'etimo dell'incontro inatteso e improvviso), fatto di impegno e di studio, si è invitati a creare nel mondo il luogo del confronto. Non occorrerebbe dunque una esperienza erotica esterna.
Bianchi: Non credo che si possa paragonare il Cantico alle tradizioni orientali come il tantra. In quell'ambito il piacere sessuale, riservato agli iniziati, è ritenuto una via di accesso al misticismo. Nel Cantico invece si narra l'amore umano, si celebra il piacere umano accessibile a tutti, o meglio a chiunque sappia amare con consapevolezza. In sintesi, nella tradizione ebraica e cristiana è la traslazione simbolica a far accedere al piano spirituale, non la realtà dell'atto sessuale, come avviene nelle tradizioni orientali.
Eppure il significato letterale, l'amore erotico, è passato in secondo piano rispetto alla predominante interpretazione mistica del poema. È stata una rimozione consapevole?
Bianchi: Certamente sì nell'esegesi cattolica. Questa rimozione è il frutto di una visione dualistica della sessualità, ereditata dal mondo greco, in particolare dal platonismo. Per questo disprezzo della sessualità si è voluto cancellare ogni riferimento alla fisicità presente nel Cantico: purtroppo si è scelto di considerare il testo solo in chiave simbolica, negando il grande valore umano che esso contiene. In sintesi, occorrerebbe saper tenere insieme queste due dimensioni, come ha scritto con intelligenza il cardinale Ravasi, in un suo commento al Cantico: "L'amore umano pieno, dove corporeità ed eros sono già linguaggio di comunione, giunge di sua natura a dire il mistero dell'amore che tende all'infinito e può raggiungere la realtà trascendente e divina".
Baharier: Per quello che concerne l'ermeneutica ebraica, non penso proprio ci sia alcuna rimozione. Ritengo che il significato più evidente sia quello che scaturisce dal percorso ermeneutico concepito come un imperativo categorico di lettura dignitosa.
Idel: Le più tarde interpretazioni mistiche del Cantico in ambienti ebraici non hanno assunto la necessità di rifiutare il significato letterale, corporeo, hanno invece ribadito la coesistenza dei due piani, come già spiegato. Poichè all'interno dell'ebraismo non esiste alcuna forma di ascetismo istituzionalizzato –monaci, suore, monasteri, ordini- e la verginità non è un valore religioso superiore, l'erotismo fisico non è stato concepito dalla maggior parte dei Maestri ebrei come antagonista a quello spirituale . Non dovendo scegliere tra corpo e spirito, è stato possibile per gli esegeti ebrei di abbracciare contemporaneamente entrambe le forme di esperienza ed entrambi i livelli di significato.

V.K.

Qui Roma - Il Festival del Film premia Eti Tsico
In occasione del Festival Internazionale del Film di Roma, grande rassegna internazionale che in questi giorni ha tenuto banco nella Capitale, sono stati premiati due cortometraggi girati dagli studenti di cinema dell'Università di Tel Aviv. Location il Maxxi, progettato per essere lo scrigno dei gioielli dell'arte contemporanea, che non si è fatto sfuggire questi piccoli sei capolavori che meritano di viaggiare ancora lontano. La giuria, composta da mostri sacri del cinema dal calibro di Roberto Faenza, Ettore Scola e della costumista da Oscar Milena Canonero (che ha vestito i protagonisti di Arancia Meccanica e Marie Antoniette), dopo essersi ritirata per deliberare, ha decretato il vincitore: è la giovane Eti Tsico che riceve il premio da Anna Fendi. Il suo cortometraggio Audition è l'audizione che una regista, interpretata dalla stessa Ety, fa ad un ragazzo arabo. Usando la lingua del cinema l'orizzonte si amplia: dal divano sul quale l'aspirante attore è seduto si passa a trattare con semplicità e delicatezza il rapporto tra israeliani e palestinesi. "Quella tra di noi non è paura, è esitazione" ed un languido bacio farà finire l'audizione per un film e iniziare l'audizione per la vita vera. Ma il prossimo aspirante è dietro la porta. Il corto fa parte di un progetto finanziato dall'Università di Tel Aviv chiamato "Coffee Between Reality and Imagination", una collaborazione israelo-palestinese. Gli spettatori chiamati ad effettuare una seconda votazione, entusiasti di poter essere almeno per una notte critici con il fascino da sciarpa di cachemire al collo, danno la loro preferenza a Second watch. Il corto, firmato da Udi Ben-Arie, è uno spaccato spassosissimo dell'esperienza dell'esercito. Berkowitz, di guardia al confine, stringe una insolita amicizia con il soldato della Giordania. Tra balli scatenati sulle note di Salma ya Salama, storpiato in Barbara ya Barbara, la pace sembra davvero possibile. Sarebbe un peccato non citare gli altri corti in concorso: del progetto israelo-palestinese fanno parte anche Tasnim, ambientato in un villaggio beduino, per il quale la regista Elite Zexer ha dovuto fare ricerche e sopralluoghi per sei mesi e Trip to Jaffa di Eitan Sarid (risate assicurate). Non si ride invece vedendo A bug with a helmet di Yona Rozenkier, tragico ritratto della guerra e della lotta che ne consegue per la sopravvivenza. Infine Pini Tavger ci delizia con Pinhas, 32 minuti che narrano la vicenda di un bambino di origine russa che decide di avvicinarsi alla religione. Quando gli viene chiesto quanto tempo ha impiegato a girare, Tavger risponde schiettamente: "Tutta la vita", con la consapevolezza del piccolo capolavoro che ha emozionato la sala. I titoli di coda terminano, le luci si accendono, i premi sono stati consegnati e ora non resta che sperare nel successo dei sei registi. Sentiremo ancora parlare di loro...

Rachel Silvera

Qui Torino - Vera e Norma, militanti della memoria
Grande intensità e partecipazione al Caffè Basaglia di Torino in occasione della conferenza Donde Estan? Desaparecidos - La Memoria di Plaza de Mayo che ha avuto come protagoniste Vera Vigevani Jarach, madre di una vittima dei “voli della morte” e Norma Berti, allora ventenne, sopravvissuta al sequestro e a tre anni di prigionia. Due donne che hanno vissuto la tragedia dell’Argentina, due vittime della dittatura militare che ha avuto inizio con il Golpe del generale Rafael Videla il 24 marzo 1976.
Vera Vigevani, nata a Milano nel 1928, dovette lasciare l'Italia, emigrando con la famiglia in Argentina a causa delle leggi razziste. Sposata successivamente con Giorgio Jarach, anch'egli fuggito dall'Italia fascista, ebbe una figlia Franca, sequestrata all’età di 18 anni il 25 giugno 1976, perché ritenuta un possibile oppositore politico. Da allora, insieme alle altre coraggiose ''madri e nonne di Plaza de Mayo'' ha animato la battaglia per avere verità e giustizia sugli scomparsi. Viene a conoscenza della terribile verità solo pochi anni fa, grazie alla testimonianza di una donna, Marta Álvarez, che aveva incontrato Franca in un campo di detenzione clandestino dell’ESMA (Escuela Superior de Mecanica de la Armada): poche settimane dopo l'arresto Franca viene barbaramente uccisa. Insieme ad altri, per liberare spazio nel centro di detenzione, viene caricata su uno dei consueti "voli della morte": dagli aerei, gli ufficiali della marina militare argentina gettavano in mezzo all'oceano o nel Rio de La Plata le persone da eliminare. I prigionieri venivano imbottiti di sedativi prima di venire prelevati e quando venivano fatti salire sull'aereo erano in uno stato di incoscienza.
Perché desaparecidos? Dovevano eliminare i dissidenti, ma senza ripetere gli “errori” compiuti da Pinochet nel Cile del 1973: una repressione troppo “visibile”. L'Argentina andava “ripulita”: «Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi.» (Jorge Rafael Videla). Il risultato fu un'intera generazione cancellata da un terrorismo di Stato che in sette anni si portò via nel nulla dalle 10 alle 30 mila persone.
La riflessione di Vera parte a ritroso e parla di due recenti vittorie: il fondamentale processo svoltosi pochi giorni fa in Argentina che si è concluso con le sentenze di ergastolo per molti carnefici dell’ESMA e la vittoria elettorale di Cristina Fernández de Kirchner, dal 2007 presidente d'Argentina. La speranza è che, finalmente, questo governo possa portare avanti gli ideali dei loro figli.
Ciò che colpisce di più è la forza con cui Vera ancora oggi racconta, come se fosse la prima volta, il suo dramma. Lo fa con una freschezza che si potrebbe quasi dire “infantile”, che prende l’ascoltatore e lo inchioda alla sedia: continua a lottare per la creazione di una memoria, affinché nessuno mai dimentichi. Il suo obiettivo è far sì che il ricordo diventi un’arma di battaglia per il presente, e che tutte quelle vite spezzate non siano state inutili.
Racconta del terribile e grande silenzio che ha paralizzato l’Argentina durante la dittatura. Da questo baratro si è potuti uscire grazie a diverse forme di resistenza: la nascita del movimento delle Madres de Plaza de Mayo. “Il movimento – dice Vera- è nato tra terrore e dolore, avevamo paura, ma l’unico modo per superarla era non immobilizzarsi, agire”. Altra forma fu il teatro argentino che, mosso dalla volontà di denuncia, ha rotto il silenzio, costituendo così il primo passo in avanti dell’intera società.
Norma Berti aveva 21 anni nel 1976, quando fu sequestrata e condotta in un centro clandestino di detenzione dove vennero inghiottite più di 2500 persone. Da lì fu trasferita al penitenziario di Cordoba e poi al carcere di Villa Devoto a Buenos Aires. Fu messa in libertà alla fine del 1979 dopo tre anni di prigionia e fu successivamente costretta a emigrare in Italia in seguito a minacce. Ciò che l’affligge di più, oltre al senso di colpa per essere una dei pochissimi sopravvissuti, è il senso di sconfitta che Norma definisce “totale, schiacciante”, il fallimento di ideali e di un’esperienza di militanza politica molto forte.
“Quando ero in carcere non ero sola, ero con le altre compagne dove campeggiava la parola resistenza, anche davanti alle richieste del nemico: non accettavamo la perquisizione corporale e non firmavamo atti di pentimento. Non volevamo pronunciare la parola sconfitta, c’è voluto molto tempo per interiorizzarla”.
Si sofferma sul termine genocidio, forse non così appropriato per definire ciò che è accaduto in quegli anni in Argentina: non erano in ballo motivi di odio razziale, etnico o religioso. È stata colpita un’intera generazione per motivi politici, forse il termine corretto sarebbe “politicidio”.
“Presenti ora e sempre”: questo è il compito dei testimoni. “La testimonianza - conclude Vera - di per sé ha dei limiti, avrà sempre delle lacune e non sarà mai del tutto oggettiva, tuttavia è fondamentale perché noi siamo testimoni diretti”. Solo grazie alla conoscenza del passato si possono riconoscere nel domani i “sintomi”, nella speranza questa volta di prevenire.

Alice Fubini

Qui Genova - Una fiaccolata per non dimenticare
Oltre un migliaio di cittadini ha sfilato ieri pomeriggio per le strade di Genova in occasione del 68esimo anniversario della deportazione degli ebrei del capoluogo ligure ad opera dei nazifascisti. 260 persone, uomini e donne, anziani e bambini, furono catturati e trasferiti nei campi della morte. Solo dieci fecero ritorno. In loro ricordo una lunga e partecipata fiaccolata con i nomi dei lager nazisti affissi su targhe, organizzata dalla Comunità ebraica di Genova, dalla Comunità di Sant'Egidio e dal Centro Culturale Primo Levi, ha attraverso la città da Galleria Mazzini, luogo in cui fu arrestato l'allora rabbino capo Riccardo Pacifici, alla sinagoga di via Bertora. In prima fila, dietro allo striscione 'Non c'è futuro senza Memoria', i gonfaloni della Regione Liguria, della Provincia e del Comune di Genova, rappresentanti delle istituzioni ebraiche nazionali e cittadine, il sindaco Marta Vincenzi, il responsabile locale della Comunità di Sant'Egidio Andrea Chiappori, il vescovo ausiliare Luigi Palletti e il portavoce della Comunità islamica Salah Hussein. Presenti inoltre il sindaco di Varsavia Hanna Gronkiewicz Waltz e i primi cittadini di numerose città europee, a Genova per presenziare alla concomitante assemblea Eurocities 2011. Più volte sottolineato nel corso degli interventi il valore imprescindibile della Memoria e il concetto di sacralità della vita. Nel suo discorso il rabbino capo Giuseppe Momigliano ha ricordato come l'ebraismo attribuisca da sempre grande importanza alla Memoria nella quotidianità e non solo in occasione di anniversari specifici. Il rav ha fatto riferimento ad alcuni tra gli eventi più traumatici vissuti dall'Am Israel nei secoli e alla loro rielaborazione. E per spiegare la devastazione dello sterminio nazifascista ha utilizzato una semplice quanto efficace metafora: “Come nessun Beth Haknesset può sostituire il Beth HaMiqdash così nessun evento potrà colmare il vuoto lasciato dalla Shoah”. Chiusura in ogni caso con un messaggio di speranza: “L'ebraismo ci insegna a guardare al domani con fiducia” ha affermato rav Momigliano. Una fiducia rinnovata ieri con la presenza di cittadini di ogni etnia, religione e appartenenza culturale. Uniti, stretti insieme per dire: Mai più. “La Torah – ha spiegato il presidente della Comunità ebraica Amnon Cohen – insegna che ogni vita ha un valore incommensurabile e nessun prezzo è troppo alto per salvarla. È stato dimostrato recentemente con il caso del caporale Gilad Shalit. Oggi, noi della Comunità ebraica, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, con le massime autorità della Chiesa e con il primo cittadino di Genova in qualità di rappresentante degli amministratori locali vogliamo ricordare questo periodo oscuro della nostra storia perché non accada mai più, né agli ebrei né a persone di altre etnie, credenze e religioni. Ricordare e non dimenticare per poter costruire un mondo migliore per i nostri figli”. Per Giulio Disegni, consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, “se a quasi 70 anni da Auschwitz si continua a scrivere e a commentare la tragedia è perché la nostra civiltà non ne ha accettato del tutto la responsabilità”. È ancora necessario, dice Disegni, opporsi alle riduzioni e alle negazioni, ai tentativi di rimozione, di negazione e falsificazione. “Non sono affermazioni, ma domande a cui è dovere non negare mai una risposta. Riconciliarsi con il passato significa riconoscerne l’attualità e la presenza. Per questo non si riesce a smettere di chiedersi come 'pensare Auschwitz, come 'insegnare Auschwitz'. Parlarne e scriverne è, con tutti i limiti e rischi, l’unica alternativa ai vari percorsi dell’oblio”. Nel corso della cerimonia sono intervenuti tra gli altri anche il presidente del Porto Antico Ariel Dello Strologo, che ha contestualizzato al folto pubblico alcuni dei passaggi più drammatici di quei giorni di deportazione, e Gilberto Salmoni, memoria storica della Comunità ebraica, sopravvissuto alla deportazione prima a Fossoli e poi nel lager di Buchenwald.

a.s.


Qui Torino - Amos Gitai e la "settima arte"
"Un film che parla di persone molto vicine a me, come i mei due figli, mia moglie e mia madre. È quindi un'opera molto intima, che si riferisce anche a eventi passati, remoti nel tempo. È un film che parla del rapporto che ho col mio paese, Israele, e del modo in cui concepisco il cinema". Questo dice il regista Amos Gitai prima che venga trasmesso, al Cinema Massimo di Torino, il suo film Carmel. Accanto a lui, il noto critico cinematografico di origine tunisina Serge Toubiana, direttore della Cinémathèque Francaise e autore del libro Il cinema di Amos Gitai – Frontiere e Territori ( Bruno Mondadori 2006 ). Ieri sera al Cinema Massimo a fare gli onori di casa è stato Alberto Barbera, direttore dal 2004 del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il Museo quest'hanno ha voluto dedicare un omaggio a Gitai, offrendogli di allestire una video installazione nei locali sotterranei della Mole Antonelliana, aperti al pubblico per la prima volta, e omaggiandolo con una monografia e una retrospettiva dei suoi film. Diciotto lungometraggi scelti dall'autore e da Toubiana, ex direttore dei Cahiers du cinéma, tra le riviste cinematografiche più prestigiose a mondo, verranno infatti trasmessi al Cinema Massimo fino al 18 novembre. La video installazione Architettura della Memoria, curata dal regista e architetto Amos Gitai, sarà invece accessibile al pubblico da oggi fino al prossimo otto gennaio. Questa, già presentata al pubblico tedesco e francese al Kunst-Werke di Berlino, nella base sottomarina di Bordeaux e al Palais de Tokyo di Parigi sarà una sintesi degli allestimenti precedenti, adattata però alla struttura della Mole Antonelliana e potrà quindi godere di una sua piena originaltà. Oggetto dell'opera di Gitai, ospitata nell'edificio che un tempo sarebbe dovuto diventare la sinagoga principale della città, un omaggio alla figura del padre Munio Weinraub, esponente della Bauhaus berlinese e al quale Gitai dedicherà il suo nuovo film Lullaby to My Father. "Mi colpisce sapere che la Mole inizialmente venne pensata per essere una sinagoga; la memoria dei luoghi conta molto per me" rivela il regista. Amos Gitai nasce a Haifa nel 1950, dove si laurea in architettura al prestigioso Technion. Consegue poi un dottorato alla University of California di Berkeley. Le prime esperienze con la telecamera arrivano quando è richiamato in patria per combattere nella guerra del Kippur. In quella occasione, durante le missioni in elicottero, effettua alcune riprese con la Superotto regalatagli dalla madre. La sua carriera vera e propria da regista inizierà però solo alla fine degli anni '70. I suoi film furono dal principio molto criticati a causa dell'atteggiamento che veniva fatto trasparire, secondo molti troppo filo-palestinese. Questo lo porterà a trasferirsi in Francia, dove rimarrà fino a quando Rabin non sarà eletto primo ministro, nel 1992. Forse proprio a causa di questo suo atteggiamento poco filogovernativo e a detta di alcuni semplificatore d'una realtà complessa come quella mediorientale, Gitai è stato più apprezzato all'estero che in patria. Con Free Zone, del 2005, riesce a far nominare il suo film per la Palma d'oro al festival di Cannes. In tale contesto l'attrice israeliana Hana Laszlo riesce ad ottenere il prestigioso alloro come miglior attrice. Il regista sarà presente al Cinema Massimo anche domani e dopodomani sera per introdurre i film Esther e Kadosh. A concludere l'incontro che si è svolto prima della proiezione di Carmel, alcune riflessioni sulla "settima arte": "Il cinema mi piace proprio perché non è una vera e propria arte. Adoro il suo lato impuro,quello che possiamo scorgere quando entriamo in un cinema e per prima cosa sentiamo l'odore di pop corn e bibite gasate; ma quando le luci si spengono e lo schermo trasmette le prime immagini...".
 
Tommaso De Pas

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pilpul
Senza casta
Anna SegreLa cultura ebraica sembra nutrire una sana diffidenza per i leader carismatici: Mosè, nonostante l’educazione faraonica, non era particolarmente abile nella comunicazione orale. Saul, primo re d’Israele, prima si schermisce (“Non sono forse un Beniaminita, di una delle più piccole tribù d’Israele, e la mia famiglia non è la più piccola tra le famiglie della tribù di Beniamino?”) e poi quando viene eletto re (a sorte) si nasconde addirittura tra i bagagli. Non mi vengono in mente grandi leader nella storia ebraica che avessero studiato da leader. Sarà per questo che i corsi di leadership suscitano in me un’istintiva diffidenza? Forse, ma c’è anche un altro motivo: come si fa a decidere oggi chi saranno i leader di domani? In un contesto democratico chiunque può diventare leader in qualunque momento, indipendentemente dalle competenze che possiede o dai corsi che ha frequentato. C’è chi è apprezzato per l’onestà, chi per la dedizione, c’è chi piace per le sue idee, chi ispira simpatia; nelle nostre Comunità può essere votato chi ha una buona cultura ebraica, chi è attivo a favore di Israele, chi ha tempo; può anche capitare che si elegga qualcuno semplicemente perché in quel momento non ci sono altre persone disponibili a ricoprire quella carica. Se il Talmud ci insegna che il diritto della maggioranza può zittire persino una voce divina, sicuramente chi è stato eletto ha il diritto e il dovere di sedere nei consigli delle comunità, dell’UCEI e delle istituzioni ebraiche indipendentemente dalle sue competenze.
Inoltre nelle nostre Comunità, soprattutto in quelle medie e piccole, i ruoli di responsabilità prima o poi toccano a tutti, purché siano disponibili, o magari un po’ meno indisponibili di altri: chiunque abbia voglia e tempo di dare una mano sarà un giorno il leader di qualcosa. Ho due genitori, una zia e uno zio che sono stati tutti consiglieri comunitari (tre di loro anche dell’UCEI), e non credo che la mia famiglia sia un caso raro tra gli ebrei italiani. Se tutti siamo leader, nessuno lo è più di altri. Ho sempre considerato una bellissima cosa, e un bellissimo insegnamento da portare anche fuori dal mondo ebraico, che nelle nostre Comunità, in cui le responsabilità toccano un po’ a tutti coloro che se le vogliono accollare, non esista una vera e propria casta. L’idea del leader carismatico formato alla scuola di partito per guidare le masse mi sembra molto lontana dalla nostra mentalità.
Con questo non voglio negare il valore e l’importanza del progetto di formazione promosso dal Dec; anzi, è auspicabile che coinvolga il maggior numero possibile di persone; ma non si potrebbe chiamarlo con qualche altro nome?

Anna Segre, insegnante

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Gaza - La miniflottiglia si avvicina
alla Striscia
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Si avvicina lentamente a destinazione la miniflottiglia filopalestinese partita negli scorsi giorni dal porto turco di Fethiye con destinazione Gaza. Gli attivisti a bordo delle due navi - l'irlandese Saoirse e la canadese Tahrir - hanno comunicato via Twitter di essere "a 70 miglia nautiche" dalle coste della Striscia anche se attendono di essere intercettati.



 
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