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6 Novembre 2011 - 9 Cheshvan 5772
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l'Unione informa
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Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

Per salvare Sodoma erano necessari dieci giusti, mentre per distruggere il mondo e quanto contiene è sufficiente un solo stolto.
(Menachem Mendel di Kotzk)

David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
La storia di Re Saul ha dei risvolti interessanti a osservarla con attenzione. Certo si può dire che c’è un’idea della celebrazione della vittoria sul nemico su cui oggi avremmo molto da discutere. Ma il sugo della storia è tutto lì? Ne dubito. Insieme c’è il tema della revoca di fiducia e della continuità del potere a prescindere dalla persona che concretamente in quel momento esercita la funzione del potente. Ovvero di come si possa avere un futuro, senza che questo sia fatto coincidere con una sola persona. Oppure di come non si possa averlo, se invece il potere è identificato con la “insostituibilità” della propria persona.

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davar
Identità - "Costruiamo assieme uno Yom HaTorah"
Settimio PavoncelloGià assessore al culto della Comunità ebraica di Roma, il consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Settimio Pavoncello, tra i fondatori del Tempio dei Giovani, siede da alcuni giorni nella Giunta UCEI in sostituzione del dimissionario Sandro Di Castro. Il neo assessore ci racconta alcuni punti chiave del suo programma di lavoro che tocca, come stabilito al momento dell’attribuzione delle cariche consiliari nello scorso dicembre, aree quali Kasherut, Assemblea Rabbinica e Collegio Rabbinico.
Il Consiglio dell’Unione riunitosi a Milano l’ha scelta per integrare la Giunta. Come interpreta questa decisione?
È un grande onore. L’auspicio è quello di poter mettere a servizio della Giunta l’esperienza maturata nel corso degli anni nelle istituzioni ebraiche. Si tratta adesso di valutare a 360 gradi problematiche, sfide e aspettative dell’ebraismo italiano. Un forte stimolo intellettuale da una parte, ma anche una sentita preoccupazione per l’importanza delle decisioni che si è chiamati a prendere. Sono però convinto che potremo continuare lavorare bene vista la competenza delle tante anime, aree culturali e di pensiero che compongono il Consiglio e l’organo esecutivo dell’Unione.
Quale il suo bilancio finora di questa sua esperienza in Consiglio?
Sono stati mesi intensi e stimolanti. Per quanto riguarda le mie competenze vorrei segnalare alcuni fronti significativi che sono stati aperti. Presto inaugureremo infatti due classi del Collegio Rabbinico italiano in piazza Bologna così da facilitare ancora di più i molti ebrei che vivono in quella zona di Roma. Inoltre l’Unione ha erogato un sovvenzionamento per potenziare il CRI a Milano e un altro ancora per formare shochatim italiani. Inoltre stiamo pensando di far partire alcuni corsi nelle scuole ebraiche con obiettivo finale, tra gli altri, quello di creare posti di lavoro come Sofer o Mashgiach per i nostri giovani. Un altro capitolo delicato è quello della Kasherut. In questi mesi abbiamo sondato la possibilità di dar vita a una Shechitah nazionale. Finora gli esiti non sono stati positivi ma stiamo lavorando per smussare gli aspetti di maggiore criticità. Resta comunque il fatto che a breve la Giunta valuterà la proposta di istituire un ufficio centrale sulla Kasherut, passaggio che rappresenterebbe una svolta per l’ebraismo italiano. E ancora, sul fronte dei rapporti con le istituzioni, ci stiamo attivando per tutelare il nostro diritto alla macellazione rituale in ogni sede.
Altri obiettivi sui quali è al lavoro?
Ho un sogno che spero non rimarrà tale: istituire uno Yom HaTorah, un giorno dedicato allo riflessione e allo studio della Torah che coinvolga contemporaneamente tutta l’Italia ebraica sulla falsariga di quanto già accade per il Giorno della Memoria e per la Giornata della Cultura. Un evento tutto per noi, però. È infatti importante correggere un’errata percezione che si ha della Torah come di un testo appannaggio di soli specialisti e professionisti. È invece il nostro background, un grande capitale che può rinsaldare la nostra identità e allo stesso tempo rafforzare il contributo che gli ebrei possono dare alla società civile. Ho poi in mente un altro progetto che mi piacerebbe chiamare “One Shabbat Together”. L’idea è quella di spingere famiglie che già regolarmente frequentano le sinagoghe a farsi carico, almeno uno Shabbat l’anno, dei cosiddetti “ebrei invisibili” invitandoli in Tempio e a casa propria per i pasti così da far vivere loro pienamente l’atmosfera del Sabato ebraico. Quello degli “ebrei invisibili” è un tema di grande delicatezza sul quale è necessario agire. Sapere che migliaia di ebrei italiani non frequentano i Batè Hakenesset neanche di Kippur è fonte di dolore e preoccupazione per il futuro.
Il mandato di cui è stato investito l’attuale Consiglio UCEI volgerà al termine con l’arrivo della prossima estate. Crede che per quel momento sarà stato possibile realizzare tutte le proposte sopra elencate?
No, i margini di tempo sono troppo stretti. L’obiettivo deve essere quello di gettare delle basi, di contribuire a edificare qualcosa di cui un giorno, che mi auguro il più ravvicinato possibile, tutti potranno godere. Cito come esempio il Talmud (Taanit 23a) in cui si racconta di Chonì Hame’aghel che vide un uomo che stava piantando un carrubo e al quale chiese: “Quanti anni ci vogliono perché dia dei frutti?”. Sentendosi rispondere “settanta anni” Chonì Hame’aghel domandò: “Sei certo di vivere settant’anni, tanto da mangiarne i frutti?”. Al che l’uomo disse: “Io ho trovato il mondo con i carrubi: così come i miei padri hanno piantato per me, anche io pianterò per i miei figli”.

Adam Smulevich

Qui Viareggio - La notizia, l'esempio
BurlamaccaLa celebrazione di uno shabbat a Viareggio non dovrebbe essere una notizia (anche se era qualche anno che non si apriva la sinagoga viareggina per uno shabbat diverso dal kippur). Infatti, non è questa la notizia.
La notizia sta nella genesi di questa celebrazione: sette ragazzi romani che decidono di partire un venerdì per celebrare lo shabbat lontani da casa, in una sinagoga per sei di loro sconosciuta. Dei sette, infatti, soltanto Beny Bendaud frequenta da ben dieci anni il piccolo nucleo ebraico viareggino, da quando, appena quattordicenne, ha cominciato ad officiare tra Pisa e Viareggio, costruendo un saldo legame con le due città. Gli altri sei ragazzi (Hagas Badash, David Gerbi, Manuel Hassan, David Jonas, Simone Rubin, Roberto Sciunnach) si fanno trascinare con entusiasmo in questa piccola avventura. Tutti insieme, alternandosi nelle officiature e talora unendosi in cori festosi, hanno creato una magica atmosfera sabbatica nella piccola, graziosa, accogliente sinagoga viareggina. Una giornata ricca, intensa e calda, a dispetto delle condizioni atmosferiche, resa possibile da un gruppo di ragazzi che decidono di lasciare per un giorno la loro sinagoga, i loro familiari, i loro amici, per far vivere un'altra sinagoga, in una piccola città.
Questa è la vera notizia, che spero possa valere da esempio anche per altri giovani, per altri contesti, per altri piccoli nuclei ebraici. L'appuntamento a Viareggio è ora fissato per la prima sera di Chanukkà.
La speranza è che nasca una felice consuetudine, che consenta di aprire più spesso le porte della sinagoga viareggina. L'auspicio è che sempre più persone attraversino quelle porte e che altri gruppi di giovani dalle comunità più solide si organizzino per dare manforte ad altri piccoli nuclei ebraici sparsi per la penisola. Questo shabbat i sette ragazzi romani non hanno compiuto semplicemente una mitzvà: hanno offerto con gioia un concreto contributo per dare nuova linfa vitale ad un piccolo nucleo ebraico: sarebbe bello (oltre che dovuto) che gli sforzi volontaristici dei singoli trovassero sostegno e piena condivisione nelle istituzioni ebraiche a tutti i livelli.

Valerio Di Porto, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
 

Informazione - L'agenzia è distratta e l'odio va in rete
Sergio Della PergolaL'agenzia di stampa GRTV, diretta da Antonio Giardullo, diffusa tra gli italiani all'estero e ben nota alla Presidenza del Consiglio e al Ministero degli Esteri a Roma, ha pubblicato una nota intitolata: "Palestina, un appello del Comitato Palestina nel cuore – Nel settimo anniversario dell'assassinio del Presidente Arafat". Il titolo della notizia è un esempio di dove possa arrivare l'abbietta deformazione dell'informazione, considerando poi che Arafat nell'ultimo periodo della sua esistenza era notoriamente persona che non godeva di buona salute, anche a causa del suo stile di vita. A meno che non si voglia insinuare che Arafat sia stato assassinato dai suoi medici curanti all'ospedale di Parigi dove è deceduto, o forse dalla moglie e dagli alti funzionari palestinesi che circondavano l'infermo durante le sue ultime ore. Anche il prosieguo della notizia in cui si parla del "muro dell'apartheid, contro cui ogni giorno si scontrano i comitati popolari dei villaggi e delle città palestinesi" è un esempio di testo iperbolico e delirante prodotto da un passaggio di veline da parte di militanti politici (in questo caso palestinesi), inammissibile in un sistema di informazione documentata e democratica. L'espressione di idee politiche, serie o goliardiche, fa parte delle libertà civili fondamentali, ma la distorsione grottesca e unilaterale dei fatti e l'infiltrazione dell'odio propagandistico non hanno diritto di essere in un testo di agenzia, sia che si tratti di un organo ufficioso dello Stato oppure di un semplice bollettino privato.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

In risposta la direzione di GRTV ha pubblicato la nota che segue:

INIZIATIVA DI “PALESTINA NEL CUORE”,
ARAFAT MORTO E NON ASSASSINATO 7 ANNI FA
Le dovute precisazioni richieste dal Comites Israele
(GRTV) - La nostra agenzia ha pubblicato il 28 ottobre 2011 una nota del Comitato “Palestina nel cuore” che invitava a partecipare, il prossimo 11 novembre, ad una iniziativa nel Settimo anniversario della morte del presidente Arafat. Erroneamente, nel testo è stato utilizzato il termine “assassinio” invece di “morte di Arafat”, e ce ne scusiamo, abbiamo riportato le stesse parole del comunicato inviato dal “Comitato”, non utilizzando il virgolettato, così come sarebbe buona norma stato. Con la pubblicazione della nota, GRTV voleva semplicemente dare spazio ad un comunicato stampa così come fa con tanti altri, di certo non voleva suscitare l’indignazione del COMITES Israele o di tutti gli ebrei, per i quali nutriamo il massimo rispetto e che siamo sempre ben lieti di ospitare sulla nostra testata. Il COMITES Israele ha potuto sicuramente constatare nel passato come GRTV abbia sempre dato il giusto spazio e risalto a tutte le loro comunicazioni pervenute in redazione. Il nostro obbiettivo è cercare, per quanto errare humanum est, di  fornire un buon servizio ai tanti italiani all’estero e non certo di fare propaganda a certe idee piuttosto che ad altre. Il nostro punto di riferimento rimane comunque e sempre l’articolo 21 della nostra carta Costituzionale, norma fondamentale per i giornalisti. Se l'errore, anche se involontario e non voluto, ha urtato, giustamente, la sensibilità dei nostri amici del Comites israeliano ce ne sinceramente scusiamo. GRTV/Redazione

***

Prendo atto della rettifica da parte di GRTV in seguito alla protesta, ma faccio notare che chi pubblica una notizia se ne assume la piena responsabilità, a meno che non vi sia esplicita dichiarazione del contrario. Il problema non è mai stato la mancaza di rispetto nei confronti del Comites Israele, o peggio "nei confronti di tutti gli ebrei" (che nella fattispecie proprio non c'entrano nulla). La libertà di stampa e, d'altra parte il suo contrario, lo stravolgimento dell'informazione, non dovrebbero interessare solamente gli ebrei e gli israeliani. La mancanza di rispetto, semmai, è avvenuta nei confronti di tutti i lettori di GRTV, l'indignazione avrebbe dovuto essere condivisa da tutti loro, e a loro rivolte le scuse. (sdp)


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pilpul
Davar acher - Lavorare per la pace
Ugo VolliE' una di quelle notizie che la stampa italiana non valorizza, e che quindi pubblico e intellettuali ignorano; ma su cui merita di riflettere. Un paio di settimane fa l'organizzazione armata dei nazionalisti baschi ETA ha annunciato la decisione "irrevocabile" di rinunciare alla lotta armata. Lo stesso è accaduto qualche anno fa, in una forma più contrattata, per i terroristi nordirlandesi dell'Ira, ancora prima e per via prevalentemente diplomatica con quelli altoatesini. Non hanno rinunciato, ma sono stati più o meno sconfitti: i ceceni in lotta con i russi, i sarahui con il Marocco, i tibetani con i cinesi, i corsi coi francesi. Senza entrare nel merito di tutti questi casi di lotta di "liberazione nazionale" (non di guerra civile politica) la sconfitta è stata dovuta alla mancanza di appoggio internazionale. Giusta o sbagliata che fosse la loro causa, tutte queste guerriglie nazionali non sono riuscite a essere riconosciute dalla comunità internazionale, con la conseguenza di obbligare l'antagonista a venire a patti. Vive ancora, ma con grandi difficoltà, la guerriglia curda, perché è distribuita su tre o quattro paesi, e perché forse la metà della cosiddetta nazione turca ha radici etniche curde, il che assicura agli indipendentisti una base fortissima.
In mezzo a tutte queste "lotte di liberazione nazionale" e alle altre che si potrebbero citare (Kossovo, Darfur, Nigeria ecc.) il caso palestinese è certamente unico. L'appoggio internazionale ha dato alle organizzazioni che erano cresciute praticando il terrorismo (e ancora onorano quegli atti e non hanno per nulla rinunciato a rinnovarli) la dignità di un quasi Stato, un'"Autorità", incoraggiando con forza e cioè in sostanza obbligando Israele a venire a patti con essa e ora cercano con tutto il peso della loro influenza a trasformare ulteriormente questa situazione, puntando ad attribuire alle organizzazioni palestinesi una dimensione statuale, senza che essa sia più neppure il frutto di un accordo con Israele. Se avessero agito alla stessa maniera altrove, non vi sarebbero stati indipendenti in Nord Irlanda e nei Paesi baschi, in Tibet e in Kurdistan, ma essi sarebbero in guerra coi loro vicini perché resterebbero in piedi le loro rivendicazioni massime. Con la differenza che nel caso palestinese queste rivendicazioni massime non rinunciate, com'è scritto negli statuti di Hamas e Al Fatah, comportano la distruzione dello Stato di Israele. Come se i ceceni volessero tutta la Russia, o i tibetani il confine fino alla Mongolia, con l'espulsione o peggio di coloro che non sono della loro etnia.
Tutto questo è stato fatto in nome della pace. Ma in realtà gli appoggi ai palestinesi non vanno in direzione della pace, ma del prolungamento della guerra. Dato che sono gli arabi ad avere rivendicazioni su territori controllati da Israele – come obiettivo finale su tutti i territori che costituiscono Israele -, e non viceversa, ci sono solo due esiti finali per la guerra: la distruzione dello Stato di Israele, con un mezzo o con l'altro; oppure la rinuncia dei palestinesi alle loro illusioni, la fine della loro "lotta", l'ammissione dell'impossibilità dei loro obiettivi finali. Scartata la prima soluzione, la seconda è possibile solo con un'Israele indubitabilmente più forte dei suoi nemici (che non sono solo i palestinesi, ma tutti coloro che sono in guerra con Israele, Stati come la Siria e l'Iran, movimenti come Al Qaeda e i Fratelli Musulmani, la grande ondata islamista che percorre mezzo mondo).
Ogni accordo intermedio, ogni riconoscimento, ogni ritiro li porta di fatto più vicini al loro obiettivo finale, dà loro l'impressione di essere più forti e che il loro nemico sia più debole, li incoraggia in sostanza a continuare. Chiunque, fra le nazioni del mondo, gli intellettuali e i giornalisti e anche dentro il mondo ebraico, crede magari in buona fede di "lavorare per la pace" aiutando "il più debole" con flottiglie e manifestazioni e voti nelle istituzioni internazionali e pressioni diplomatiche e opinioni, in realtà sta prolungando la guerra e aumentando le sofferenze di entrambe le parti.

Ugo Volli


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notizieflash   rassegna stampa
Qui Napoli - Uno stadio in ricordo
dell'imprenditore Giorgio Ascarelli
  Leggi la rassegna
Attivo imprenditore del Meridione d’Italia più volte oltraggiato dalla furia antisemita del fascismo, Giorgio Ascarelli, tra i fondatori del Napoli Calcio a metà degli anni Venti del secolo scorso, sarà onorato dalla città partenopea, giovedì 17 novembre alle 10,
con l'intitolazione alla sua memoria dello stadio Ponticelli in via Argine. Questo il testo della targa che verrà affissa all’esterno della struttura(...)
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