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8 novembre 2011 - 11 Cheshvan 5772
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Roberto Della Rocca
Roberto
Della Rocca,
rabbino

Dopo le sette leggi date a tutta l'umanità discendente da Noach, la Milah è di fatto l'ottava mitzwah ricevuta da Avraham. Il primo precetto per ogni ebreo con il quale, all'ottavo giorno, si entra nel mondo delle mitzwòt. Curiosa questa coincidenza del numero otto: all'ottavo giorno, l'ottava mitzwah. Secondo le teorie della scienza solo dopo sette giorni di vita si formano in una creatura i fattori coagulativi del sangue. Eseguire la Milah prima dell'ottavo giorno potrebbe comportare rischi di letali emorragie. Per il Maharal di Praga la ricorrenza del numero otto nel precetto della Milah è riconducibile invece al significato sovrannaturale dell'ingresso nel mondo della mitzwah. Se il mondo della natura è stato creato in sette giorni e se ogni uomo, per sua natura, nasce incirconciso, il superamento delle barriere della natura, "tagliare", non può che realizzarsi nella dimensione del sette più (+) uno... Quello che i filosofi definiscono la "metafisica". 

Dario
 Calimani,
 anglista


Dario Calimani

Ogni tanto, quando non si trova la strada e il mondo sembra girare a rovescio, fa bene accomodarsi in poltrona, abbassare le luci, e ascoltare un po' di Ernest Bloch: Suite Hebraique, Schelomo, Baal Shem, Concerti Grossi 1 e 2.
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davar
Joann Sfar: “Così disegno le inquietudini dell’anima”
Joann SfarSbarca in Italia Le Chat du Rabbin (Il Gatto del Rabbino), pellicola d'animazione tratta dall'omonima miniserie a fumetti del geniale disegnatore francese Joann Sfar. Il film, in lingua originale e con sottotitoli, sarà proiettato questa sera in anteprima nazionale allo Spazio Oberdan a Milano. Nell'opera si racconta la storia di un gatto dotato del dono della parola e innamorato della figlia di un rabbino. L'uomo cercherà di insegnare al felino tutti gli atteggiamenti che dovrebbe tenere ogni buon ebreo, ma con scarsi risultati.

“È uno dei miei problemi: io scrivo molto più velocemente di quanto disegni. Ho una specie di angoscia nevrotica che mi spinge a scrivere sempre”! È Joann Sfar che lo dice, con il suo sorriso, con il suo sguardo profondo, ci racconta di come la sua mano fatata corre sempre sulle pagine di qualche taccuino. Scrive, scrive, scrive, ma anche disegna, disegna ,disegna. Pagine di diario quotidiano, che diventano cahier de voyage, manuale di filosofia o saggio sull’arte, a seconda dell’estro, della situazione, e che vengono meticolosamente raccolte e pubblicate in volumoni ponderosi che ricordano i fiumi proustiani. Tutto diventa libro e tutto di una qualità e profondità inusuale di questi tempi. Ancora più inusuale se si pensa che si tratta per lo più di fumetto. L’arte più popolare e anche quella meno valutata in assoluto. Sfar ha da poco compiuto quarant’anni, ha due figli, una vita complessa come tutti, ma una capacità creativa inusuale, compulsiva che lo ha portato a produrre una quantità strabiliante di pubblicazioni. Una lista così lunga di libri, album a fumetti, graphic novel, sceneggiature, diari e cataloghi di mostre da riempire svariate schermate sulla voce a lui dedicata su Wikipedia. Ci si chiede dove trovi il tempo per fare tutto, e non solo pubblicazioni cartacee, ma anche cartoni animati e film come Gainsbourg, vie héroique, dove da regista rivisita in modo immaginifico e surreale la biografia di Serge Gainsbourg.
il gatto e il rabbinoIl celebre cantautore e poeta di origine russoebraica non è la sola vita illustre di cui si è occupato. Il pittore montparnos Jules Pascin, Marc Chagall, Antoine de Saint Exupery, Georges Brassens sono tutti accomunati da una recitazione che si allontana a poco a poco dalla loro vera essenza per giungere ad una sorta di metamorfosi in Sfar stesso. È questa la sua più grande capacità: approfittare di ogni spunto per poi portarci dove più gli piace, anche molto lontano da dove si era partiti. Joann Sfar è nizzardo di nascita, ma stabilmente parigino da almeno vent’anni. È nella capitale che ha cominciato la sua carriera ed è lì che la curiosità inestinguibile per tutto gli stimola un appetito pantagruelico che gli permette di spaziare dalla tradizione ebraica all’heroic fantasy, dal romanzo gotico alla filosofia greca. È a Parigi che lavora e dove si è sposato, ma le sue radici sono piantate nel cuore degli ebraismi europei, sefardita e ashkenazita. I nonni nordafricani da un lato e quelli polacchi dall’altro a sostenere i pilastri della sua poetica.
Come mai la cultura ebraica trova nella Bande dessinée (il fumetto francese) un’espressione particolarmente ricca e fortunata e dove, secondo lui ne possiamo trovare la ragione.
Non saprei - dice Sfar - per ragioni religiose non ci sono stati grandi pittori ebrei prima dell’inizio del ventesimo secolo (o almeno ce ne sono stati pochissimi). Nei primi anni del secolo scorso si è sviluppata in Russia una corrente artistica alla quale appartiene anche Chagall. Questa, per ispirarsi, ha attinto sia al mondo onirico degli ebrei, che al quotidiano della loro vita rurale in quel paese. Questi disegnatori, grafomani e pittori hanno scelto di esprimersi attraverso disegni “umili”, disegni che raccontano, illustrazioni, attraverso la creazione di caratteri tipografici, attraverso i disegni umoristici e il fumetto. Penso che ci sia stato, all’inizio del ventesimo secolo, il tentativo di creare un’arte ebraica europea. Mi piacerebbe ripercorrere quella strada, ripartire da quel solco tracciato. Io mi sento molto vicino ad autori come Will Eisner o Jack Kirby. Ma si tratta solo di giudaismo? Io amo altrettanto Segar (l’autore di braccio di ferro n.d.r.) o i Peanuts. Quello che amo di loro è che utilizzano questa “arte povera” (lo dice in italiano) che è il fumetto per raccontare delle storie ambiziose.
La sua dichiarazione d’appartenenza all’ebraismo è totale, cominciando dal suo nome pseudonimo (Sfar- Sofer), così evocativo, a un orecchio ebraico, di colui che perpetua la memoria con l’atto di scrivere. Il fumetto per lei è anche una forma di calligrafia?
In ogni modo io scrivo per scrivere. Fidandomi delle parole, e non fidandomi troppo della seduzione pagana delle immagini. Quindi, i miei fumetti sono una contraddizione continua. È anche un dialogo costante con degli amici che non ho mai incontrato, come Hugo Pratt, come Milton Canniff. Ma effettivamente, credo che mi piacerebbe che il mio lavoro dialogasse con gli scritti di Phillip Roth o di Jonathan Safran Foer, o di Michael Chabon. Mi sento anche molto vicino a Haim Potok. Amo ogni tipo di ebreo, tanto quello religioso che il miscredente. Amo l’erranza ebraica, la amo soprattutto quando sembra totalmente assurda e disperata.
Il suo disegno, che sintetizza molto bene la rapidità del tratto e una profonda conoscenza della storia dell’arte, soprattutto del ventesimo secolo, come è stato percepito dal pubblico, in genere molto conservatore, soprattutto nei primi tempi della sua carriera?
Quando frequentavo l’Accademia di Belle arti, pensavo che i corsi di disegno fossero più importanti delle lezioni di storia dell’arte, oggi non ne sono più sicuro. Questa dimensione di dialogo, di gioco, è essenziale. Anche Pratt faceva in questo modo, spargere tra i suoi disegni parole d’amore per i pittori del passato, rinviando i lettori a una lunga catena di artisti. Non per insegnare! Piuttosto per aprire un cammino misterioso. Il fumetto è un’espressione e un linguaggio molto accessibile, ma se lo esploriamo con attenzione, possiamo trovarci dei codici, delle cose molto elevate. Esiste un esoterismo del disegno, delle linee che afferriamo solo quando conosciamo effettivamente il disegno e che possiamo trasmettere a nostra volta. È una confraternita, quella dei disegnatori. Io mi sento nello stesso monastero di Quentin Blake o di William Steig, e anche se non conosco personalmente Bonnard o Loutrec, intrattengo con loro un dialogo molto intimo. Insieme ad altri autori (David B., Marjanne Satrapi, solo per citare qualche esempio) avete compiuto una rivoluzione copernicana nel mondo dal fumetto, che sbocca ad una espressività originale, spogliata delle inibizioni, lontana mille anni dal “cinéma de papier”, ossia da quel fumetto che scimmiotta il cinema, ne segue i temi e gli stili. Come è cominciato tutto questo?
Nessuno voleva pubblicarci, quindi ci siamo messi a lavorare tutti assieme e così è nata l’Association. Non penso comunque che siamo stati dei rivoluzionari, visto che ciascuno di noi ha vecchi maestri che rispetta molto. Ma noi abbiamo per il fumetto un ambizione letteraria. Il fumetto non è un romanzo meno bello, è un romanzo più complesso. Ma bisogna accettare di creare un disegno che non doni tutto, che faccia lavorare il lettore, che doni del mistero. E infine bisogna avere delle cose da raccontare.
Tornando al mondo ebraico, nelle sue storie troviamo tanto l’identità sefardita quanto quello ashkenazita, raccontate in tutti i loro molteplici aspetti. Ma nella sua scrittura, la diaspora nordafricana e gli sthetl vivono a stretto contatto con mondi fantastici a volte gotici, a volte “fantasy”. Tolkien e Torah possono essere effettivamente così vicini?
No. Tolkien è molto cristiano, ma anche molto sudafricano. Io voglio fare della “chassidic fantasy”! Mi viene in mente una frase di Chagall che diceva “Sapete, gli angeli, non sono di mia immaginazione, sono quello che mi è stato trasmesso e sono molto concreti, tanto reali quanto le case del villaggio”. L’immaginario, è un materiale tanto concreto quanto le pietre. È quello che abbiamo, quello sul quale lavoriamo. Il mestiere di scrittore è un gioco, è basato sulle associazioni d’idee. Scrivere e disegnare è accettare di andare costantemente avanti e indietro tra un mondo infantile e una lettura del mondo molto complessa
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Giorgio Albertini, Pagine Ebraiche, novembre 2011

Nevo traccia la simmetria della vera amicizia
nevoNato allo scopo di diffondere la conoscenza della cultura ebraica e della sua produzione letteraria, il Premio letterario Adei-Wizo Adelina Della Pergola celebra quest'anno l'undicesima edizione. Appuntamento all'Accademia Navale di Livorno lunedì 13 novembre a partire dalle 17. Cinque i libri finalisti selezionati dalla giuria: per la categoria principale, oltre all'opera vincitrice “La simmetria dei desideri” di Eshkol Nevo, anche “Fratture” di Irit Amlel e “È andata così” di Meir Shalev. Per il premio narrativa ragazzi “Il quinto servitore” di Kenneth Wishnia, vincitore di categoria, e “La caccia di Salomon Klein” di Massimo Lomonaco. Una menzione speciale è andata a Claude Lanzman per il suo “La lepre in Patagonia”.

“La Simmetria dei desideri è il titolo più bello tra tutte le edizioni del mio libro uscite nel mondo. ‘Desideri’ e ‘simmetria’ sono parole così evocative. Trasmettono perfettamente ciò che volevo raccontare”. È soddisfatto Eschkol Nevo del trattamento che il suo secondo romanzo, edito da Neri Pozza, ha ricevuto in Italia. E non solo per la scelta del titolo, che coglie la dimensione poetica del racconto come non può certo l’inglese World cup wishes.
Il pubblico italiano ha dimostrato ancora una volta il suo apprezzamento per la letteratura israeliana. Il conferimento del Premio letterario Adei-Wizo Adelina Della Pergola è un’ulteriore soddisfazione per Nevo, oltre che un valido motivo per tornare in Italia, paese che ama particolarmente.
“Ho una grande passione per la letteratura italiana, soprattutto per quella contemporanea. Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Italo Calvino con il suo ‘Se una notte d’inverno un viaggiatore’: sono autori verso cui provo un legame speciale - racconta lo scrittore - Il fatto è che la letteratura italiana, a mio parere, presenta una forte affinità con quella israeliana. Una vicinanza e una somiglianza che invece non trovo in altre realtà letterarie, come per esempio leggendo i romanzi scandinavi”.
Forse potrebbe essere questa la ragione per cui anche il pubblico italiano è tra i principali estimatori degli scrittori israeliani. Anche se, a parere di Nevo, è tempo che approdi nel Belpaese in modo definitivo anche la produzione della nuova generazione di autori dello Stato ebraico, dopo i mostri sacri di Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua (“che però rimangono maestri che ammiro profondamente” precisa). Figlio di due professori universitari e nipote di Levi Eshkol, primo ministro dello Stato d’Israele tra il 1963 e il 1969, Eshkol Nevo è nato a Gerusalemme nel 1971. Dopo un’infanzia trascorsa trasferendosi continuamente da una località all’altra d’Israele (oltre che per un anno negli Stati Uniti), ha studiato pubblicità alla Tirza Granot School e poi psicologia alla Tel Aviv University ed è attualmente docente di scrittura e pensiero creativo in vari atenei israeliani. Il suo primo romanzo, Nostalgia, pubblicato nel 2004, racconta l’Israele in tumulto dopo la morte del Primo Ministro Yitzhak Rabin nel 1995, attraverso le vicende di sei abitanti di un piccolo villaggio alle porte di Gerusalemme, Maoz Zion, in un indistricabile intreccio tra le loro storie e la Storia con la S maiuscola. Il libro ha raccolto l’apprezzamento sia della critica che del pubblico, rimanendo per 60 settimane nella Israeli best-seller list e vincendo diversi premi, al punto da essere addirittura inserito nel curriculum scolastico dei licei israeliani. Ma se in Nostalgia è forte l’influenza del conflitto, della politica, dei problemi che rappresentano una presenza eterna e incombente nella vita israeliana, ne La simmetria dei desideri l’approccio è completamente diverso.
Il punto di partenza è molto semplice: quattro amici, legati sin dai tempi della scuola, si ritrovano a guardare insieme i Mondiali di calcio di Francia 1998 e decidono di mettere nero su bianco i propri desideri più profondi per i successivi quattro anni. Nel 2002 durante la Coppa del Mondo in Giappone e Corea del Sud arriverà il tempo di trarre i bilanci e verificare cosa nella loro vita si è realizzato. “Fino a questo punto, la storia è vera - sottolinea Nevo, spiegando la valenza della componente autobiografica ne La simmetria dei desideri - Questo momento rappresenta un episodio che si è verificato nella mia vita. Poi tutto diventa racconto, anche se questo non rende il libro meno reale. È un romanzo con cui ho un legame particolare perché racconta un sentimento intimo, quello dell’amicizia, che è il vero tema portante dell’opera”. La Coppa del mondo che compare nel titolo in inglese infatti non deve trarre in inganno: il calcio è solo un pretesto, il rintocco dell’orologio che scandisce il tempo della vita dei quattro protagonisti. Anche se Nevo non riesce a trattenere una battura di spirito: “L’interesse per i Mondiali di calcio in Israele è quasi un’ossessione, ogni quattro anni desideriamo ardentemente che la nostra nazionale si qualifichi per disputarli, e ogni volta rimaniamo delusi. Ma insomma, mica bisogna avere una squadra da tifare per appassionarsi di calcio!”). I quattro giovani sono Ofir, il pubblicitario che sorprende tutti con il suo desiderio di pubblicare un libro di racconti, Amichai, che lavora nelle televendite e desidera aprire una clinica per la terapia alternativa, il determinato Churchill, avvocato, che non aspetta altro che di mettere le mani su un caso davvero importante e infine Yuval, la voce narrante, che vuole sposare la donna dei suoi sogni e avere dei bambini. Hanno trent’anni in Israele e pensano alla vita che hanno e a quella che vogliono costruire. Senza però riuscire a superare la sensazione di precarietà che li circonda, di camminare su un velo che in ogni momento può essere lacerato dall’irrompere dei problemi della società. Nel dipanarsi del racconto una domanda rimane sullo sfondo: se l’amicizia, e in particolare quella profonda e stretta che caratterizza un gruppo di giovani uomini, è capace di farti crescere, o al contrario ti tiene fermo.

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, novembre 2011

 
pilpul
Yitzhak Rabin, un ricordo
Credo che sia opportuno e quasi doveroso ricordare l'assassinio di Yitzhak Rabin, di cui corre in questi giorni il sedicesimo anniversario.
Mi ricordo l'estate e l'autunno del 1995 come un periodo ricco di emozioni in Israele, un periodo intenso, nel quale il dibattito politico sui rapporti d'Israele con i palestinesi aveva raggiunto toni estremi a tutti i livelli, non si parlava d'altro. Era un periodo di intensi colloqui con la leadership palestinese guidata da Arafat, si era riusciti a stabilire a fatica in entrambi i campi un clima di fiducia crescente, clima che stava cominciando a dare i suoi frutti: non solo si andava stabilendo una collaborazione efficiente fra Tzahal e le forze dell'ordine palestinesi, sì che furono sventati ed evitati molti atti terroristici di Hamas, ma si parlava già di collaborazione economica e tecnologica e di progetti che avrebbero migliorato di diversi ordini di grandezza le infrastrutture nei territori abitati dai palestinesi con il conseguente miglioramento del loro livello di vita. C'era un'atmosfera di ottimismo dilagante, si sapeva che tutto questo avrebbe portato a lunga scadenza un periodo di maggior tranquillità per tutti.
Tre anni prima questa maggioranza ottimista e fiduciosa aveva votato per Yitzhak Rabin. Ma in quello stesso periodo, ogni volta che si assisteva a un passo in avanti nei rapporti con i palestinesi, i nemici della pace si adoperavano alacremente per riportare le cose indietro e  Hamas faceva saltare in aria un autobus o una pizzeria, gli attentati terroristici erano sempre più gravi quanto più sembrava avvicinarsi un accordo con Arafat. Conviene qui ricordare che in quel periodo Arafat era in netto contrasto con Hamas e non era ancora il mandante degli attentati della seconda Intifada, che ebbe inizio più tardi nel 2000 in seguito al fallimento dell'incontro di Camp David con l'allora primo ministro Barak. In quell'estate autunno del 1995 c'erano anche in campo israeliano molti che non volevano saperne di accordi di pace con i palestinesi, perché sapevano benissimo che tali accordi avrebbero inevitabilmente portato alla spartizione del territorio. In quel periodo si infittirono le manifestazioni della destra nelle quali Rabin veniva raffigurato con i baffetti e la svastica, mentre si moltiplicavano i decreti di alcuni rabbini, esponenti dell'estrema destra, che dichiaravano traditori Rabin e i suoi ministri, in un'opera capillare di delegittimazione del governo che era stato eletto democraticamente. E dal momento che la pena adatta al traditore è la pena di morte, era solo questione di tempo finché saltasse fuori una persona che prendesse in mano l'iniziativa di risolvere la cosa. E così venne la sera del cinque novembre. Quella sera faditica si ebbe la dimostrazione che "gli estremi si toccano" ... e si aiutano, e che Hamas e gli ambienti che hanno cresciuto ed educato Igal Amir sono alleati.
Nei giorni successivi Israele sembrava in uno stato traumatico di trance, per le strade e nei posti di lavoro c'era un silenzio pesante, un'aria di rabbia e di frustrazione, e di rassegnazione. Quei tre colpi di pistola avevano ammazzato le speranze che si andavano facendo strada nel cuore di molti, sicuramente della maggioranza, nonostante gli attentati tremendi e la violenza verbale di chi cercava ad ogni costo di silurare gli sforzi di pace e di cambiare con la forza il corso della storia. Io avevo la netta sensazione che mi stesse venendo meno il terreno sotto i piedi. Quella sera nella piazza del Municipio a Tel Aviv (chiamata poi Piazza Rabin) c'erano centomila persone, ma altri milioni erano nelle case in tutta Israele e seguivano con entusiasmo quei canti di speranza che salivano dal podio. Ma nonostante ciò la violenza e la sopraffazione avevano vinto, e la maggioranza degli israeliani, che fino allora aveva creduto nella democrazia e nei suoi metodi, si sentì dare un pugno nello stomaco.
L'assassinio di Rabin, Primo ministro di un governo eletto democraticamente, fu un evento traumatico, una vera rivoluzione nella ancora breve storia dello stato d'Israele, una crisi che sta gettando ancora ombre pesanti nel rapporto fra cittadini e classe di governo israeliana.
Oggi alcuni degli esponenti d'opposizione di allora (Netanyahu, Sharon e altri) che assistevano e incitavano la folla in quelle manifestazioni violente, nelle quali si chiedeva la testa di Rabin, sono oggi al governo, e il processo di pace è bloccato per volontà di entrambe le parti. Ma Israele ha bisogno urgente di un leader dotato di un passato simile a quello di Rabin (l'architetto della vittoria del '67) e di una visione del futuro simile alla sua. Possibile che non ci sia? Se c'è, che si faccia avanti, Israele lo aspetta.

Daniel Haviv, alchimista

La Lega, quando piove
Il deputato della Lega Davide Cavallotto ha dichiarato testualmente: «Ora che la pioggia è riuscita nell’impresa in cui aveva fallito il sindaco Piero Fassino, ossia lo sgombero del campo nomadi abusivo sul Lungo Stura Lazio, mi auguro che il Comune provveda all’identificazione di tutti gli irregolari che vivevano in quel campo». E così, in spregio a ogni elementare solidarietà umana, il nostro tronfio parlamentare ha pensato bene di accampare la sua bella bandierina sui detriti lasciati dall’alluvione. Ancora una volta ci troviamo a parlare di questi temi. Ma nelle parole del Cavallotto c’è un salto di qualità: normalmente le più trucide dichiarazioni xenofobe dei vari politici e amministratori leghisti mostrano una trama concettuale che è stata definita «torvo-buonista». Un’ipocrisia vergognosa per cui le impronte digitali ai bambini rom servirebbero a consentire loro un’adeguata istruzione, mentre i respingimenti in mare avrebbero impedito il traffico degli scafisti. In questo caso, invece, gli argini sono definitivamente saltati. Non si finge neanche, magari con una perifrasi ardita, una preoccupazione per quei «clandestini» che rischiavano di morire sotto la piena, né si afferma che il campo vada sgombrato per tutelare l’incolumità dei suoi abitanti. Si va direttamente al sodo: procediamo con identificazione e rimpatri. Rimpatrio con il k-way, sia ben chiaro.
«Viene da chiedersi» aggiunge il consigliere leghista Fabrizio Ricca «se sia giusto, visto che l'occupazione del suolo pubblico è abusiva e visto che i clandestini che la compiono sono perfettamente consapevoli della pericolosità e dell'illegalità del loro stanziamento, che in momenti di emergenza le risorse cittadine debbano essere mobilitate per loro e non per le famiglie italiane che corrono altrettanti rischi». Evvai!

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas


notizie flash   rassegna stampa
Iran - Barak smentisce attacco
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Smentite questa mattina dal ministro della Difesa israeliano Ehud Barak le voci secondo cui Israele sarebbe in procinto di attaccare gli impianti nucleari iraniani. "La guerra non è una passeggiata” ha detto Barak alla radio nazionale negando la veridicità della notizia, diffusa negli scorsi giorni dai media internazionali, di un attacco ormai prossimo. In settimana è intanto atteso il rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica dell'Onu (Aiea) sull'attività nucleare di Teheran.

 

Il rapporto dell'Agenzia atomica sul nucleare iraniano ha rimesso in primo piano il rischio dell'arma atomica in mano agli ayatollah (Randjbar su Europa, redazione del Foglio, che usa la metafora della "pistola fumante" per mettere in dubbio la fondatezza del rapporto) e il dibattito su cosa fare (Picasso su Liberal).

Ugo Volli












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