Sbarca
in Italia Le Chat du Rabbin (Il Gatto del Rabbino), pellicola
d'animazione tratta dall'omonima miniserie a fumetti del geniale
disegnatore francese Joann Sfar. Il film, in lingua originale e con
sottotitoli, sarà proiettato questa sera in anteprima nazionale allo
Spazio Oberdan a Milano. Nell'opera si racconta la storia di un gatto
dotato del dono della parola e innamorato della figlia di un rabbino.
L'uomo cercherà di insegnare al felino tutti gli atteggiamenti che
dovrebbe tenere ogni buon ebreo, ma con scarsi risultati.
“È
uno dei miei problemi: io scrivo molto più velocemente di quanto
disegni. Ho una specie di angoscia nevrotica che mi spinge a scrivere
sempre”! È Joann Sfar che lo dice, con il suo sorriso, con il suo
sguardo profondo, ci racconta di come la sua mano fatata corre sempre
sulle pagine di qualche taccuino. Scrive, scrive, scrive, ma anche
disegna, disegna ,disegna. Pagine di diario quotidiano, che diventano
cahier de voyage, manuale di filosofia o saggio sull’arte, a seconda
dell’estro, della situazione, e che vengono meticolosamente raccolte e
pubblicate in volumoni ponderosi che ricordano i fiumi proustiani.
Tutto diventa libro e tutto di una qualità e profondità inusuale di
questi tempi. Ancora più inusuale se si pensa che si tratta per lo più
di fumetto. L’arte più popolare e anche quella meno valutata in
assoluto. Sfar ha da poco compiuto quarant’anni, ha due figli, una vita
complessa come tutti, ma una capacità creativa inusuale, compulsiva che
lo ha portato a produrre una quantità strabiliante di pubblicazioni.
Una lista così lunga di libri, album a fumetti, graphic novel,
sceneggiature, diari e cataloghi di mostre da riempire svariate
schermate sulla voce a lui dedicata su Wikipedia. Ci si chiede dove
trovi il tempo per fare tutto, e non solo pubblicazioni cartacee, ma
anche cartoni animati e film come Gainsbourg, vie héroique, dove da
regista rivisita in modo immaginifico e surreale la biografia di Serge
Gainsbourg. Il
celebre cantautore e poeta di origine russoebraica non è la sola vita
illustre di cui si è occupato. Il pittore montparnos Jules Pascin, Marc
Chagall, Antoine de Saint Exupery, Georges Brassens sono tutti
accomunati da una recitazione che si allontana a poco a poco dalla loro
vera essenza per giungere ad una sorta di metamorfosi in Sfar stesso. È
questa la sua più grande capacità: approfittare di ogni spunto per poi
portarci dove più gli piace, anche molto lontano da dove si era
partiti. Joann Sfar è nizzardo di nascita, ma stabilmente parigino da
almeno vent’anni. È nella capitale che ha cominciato la sua carriera ed
è lì che la curiosità inestinguibile per tutto gli stimola un appetito
pantagruelico che gli permette di spaziare dalla tradizione ebraica
all’heroic fantasy, dal romanzo gotico alla filosofia greca. È a Parigi
che lavora e dove si è sposato, ma le sue radici sono piantate nel
cuore degli ebraismi europei, sefardita e ashkenazita. I nonni
nordafricani da un lato e quelli polacchi dall’altro a sostenere i
pilastri della sua poetica. Come
mai la cultura ebraica trova nella Bande dessinée (il fumetto francese)
un’espressione particolarmente ricca e fortunata e dove, secondo lui ne
possiamo trovare la ragione. Non saprei - dice Sfar - per
ragioni religiose non ci sono stati grandi pittori ebrei prima
dell’inizio del ventesimo secolo (o almeno ce ne sono stati
pochissimi). Nei primi anni del secolo scorso si è sviluppata in Russia
una corrente artistica alla quale appartiene anche Chagall. Questa, per
ispirarsi, ha attinto sia al mondo onirico degli ebrei, che al
quotidiano della loro vita rurale in quel paese. Questi disegnatori,
grafomani e pittori hanno scelto di esprimersi attraverso disegni
“umili”, disegni che raccontano, illustrazioni, attraverso la creazione
di caratteri tipografici, attraverso i disegni umoristici e il fumetto.
Penso che ci sia stato, all’inizio del ventesimo secolo, il tentativo
di creare un’arte ebraica europea. Mi piacerebbe ripercorrere quella
strada, ripartire da quel solco tracciato. Io mi sento molto vicino ad
autori come Will Eisner o Jack Kirby. Ma si tratta solo di giudaismo?
Io amo altrettanto Segar (l’autore di braccio di ferro n.d.r.) o i
Peanuts. Quello che amo di loro è che utilizzano questa “arte povera”
(lo dice in italiano) che è il fumetto per raccontare delle storie
ambiziose. La sua dichiarazione
d’appartenenza all’ebraismo è totale, cominciando dal suo nome
pseudonimo (Sfar- Sofer), così evocativo, a un orecchio ebraico, di
colui che perpetua la memoria con l’atto di scrivere. Il fumetto per
lei è anche una forma di calligrafia? In ogni modo io
scrivo per scrivere. Fidandomi delle parole, e non fidandomi troppo
della seduzione pagana delle immagini. Quindi, i miei fumetti sono una
contraddizione continua. È anche un dialogo costante con degli amici
che non ho mai incontrato, come Hugo Pratt, come Milton Canniff. Ma
effettivamente, credo che mi piacerebbe che il mio lavoro dialogasse
con gli scritti di Phillip Roth o di Jonathan Safran Foer, o di Michael
Chabon. Mi sento anche molto vicino a Haim Potok. Amo ogni tipo di
ebreo, tanto quello religioso che il miscredente. Amo l’erranza
ebraica, la amo soprattutto quando sembra totalmente assurda e
disperata. Il suo disegno, che
sintetizza molto bene la rapidità del tratto e una profonda conoscenza
della storia dell’arte, soprattutto del ventesimo secolo, come è stato
percepito dal pubblico, in genere molto conservatore, soprattutto nei
primi tempi della sua carriera? Quando frequentavo
l’Accademia di Belle arti, pensavo che i corsi di disegno fossero più
importanti delle lezioni di storia dell’arte, oggi non ne sono più
sicuro. Questa dimensione di dialogo, di gioco, è essenziale. Anche
Pratt faceva in questo modo, spargere tra i suoi disegni parole d’amore
per i pittori del passato, rinviando i lettori a una lunga catena di
artisti. Non per insegnare! Piuttosto per aprire un cammino misterioso.
Il fumetto è un’espressione e un linguaggio molto accessibile, ma se lo
esploriamo con attenzione, possiamo trovarci dei codici, delle cose
molto elevate. Esiste un esoterismo del disegno, delle linee che
afferriamo solo quando conosciamo effettivamente il disegno e che
possiamo trasmettere a nostra volta. È una confraternita, quella dei
disegnatori. Io mi sento nello stesso monastero di Quentin Blake o di
William Steig, e anche se non conosco personalmente Bonnard o Loutrec,
intrattengo con loro un dialogo molto intimo. Insieme
ad altri autori (David B., Marjanne Satrapi, solo per citare qualche
esempio) avete compiuto una rivoluzione copernicana nel mondo dal
fumetto, che sbocca ad una espressività originale, spogliata delle
inibizioni, lontana mille anni dal “cinéma de papier”, ossia da quel
fumetto che scimmiotta il cinema, ne segue i temi e gli stili. Come è
cominciato tutto questo? Nessuno voleva pubblicarci,
quindi ci siamo messi a lavorare tutti assieme e così è nata
l’Association. Non penso comunque che siamo stati dei rivoluzionari,
visto che ciascuno di noi ha vecchi maestri che rispetta molto. Ma noi
abbiamo per il fumetto un ambizione letteraria. Il fumetto non è un
romanzo meno bello, è un romanzo più complesso. Ma bisogna accettare di
creare un disegno che non doni tutto, che faccia lavorare il lettore,
che doni del mistero. E infine bisogna avere delle cose da raccontare. Tornando
al mondo ebraico, nelle sue storie troviamo tanto l’identità sefardita
quanto quello ashkenazita, raccontate in tutti i loro molteplici
aspetti. Ma nella sua scrittura, la diaspora nordafricana e gli sthetl
vivono a stretto contatto con mondi fantastici a volte gotici, a volte
“fantasy”. Tolkien e Torah possono essere effettivamente così vicini? No.
Tolkien è molto cristiano, ma anche molto sudafricano. Io voglio fare
della “chassidic fantasy”! Mi viene in mente una frase di Chagall che
diceva “Sapete, gli angeli, non sono di mia immaginazione, sono quello
che mi è stato trasmesso e sono molto concreti, tanto reali quanto le
case del villaggio”. L’immaginario, è un materiale tanto concreto
quanto le pietre. È quello che abbiamo, quello sul quale lavoriamo. Il
mestiere di scrittore è un gioco, è basato sulle associazioni d’idee.
Scrivere e disegnare è accettare di andare costantemente avanti e
indietro tra un mondo infantile e una lettura del mondo molto complessa.
Giorgio Albertini, Pagine Ebraiche, novembre 2011
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Nevo traccia la simmetria della vera amicizia
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Nato
allo scopo di diffondere la conoscenza della cultura ebraica e della
sua produzione letteraria, il Premio letterario Adei-Wizo Adelina Della
Pergola celebra quest'anno l'undicesima edizione. Appuntamento
all'Accademia Navale di Livorno lunedì 13 novembre a partire dalle 17.
Cinque i libri finalisti selezionati dalla giuria: per la categoria
principale, oltre all'opera vincitrice “La simmetria dei desideri” di
Eshkol Nevo, anche “Fratture” di Irit Amlel e “È andata così” di Meir
Shalev. Per il premio narrativa ragazzi “Il quinto servitore” di
Kenneth Wishnia, vincitore di categoria, e “La caccia di Salomon Klein”
di Massimo Lomonaco. Una menzione speciale è andata a Claude Lanzman
per il suo “La lepre in Patagonia”.
“La Simmetria dei
desideri è il titolo più bello tra tutte le edizioni del mio libro
uscite nel mondo. ‘Desideri’ e ‘simmetria’ sono parole così evocative.
Trasmettono perfettamente ciò che volevo raccontare”. È soddisfatto
Eschkol Nevo del trattamento che il suo secondo romanzo, edito da Neri
Pozza, ha ricevuto in Italia. E non solo per la scelta del titolo, che
coglie la dimensione poetica del racconto come non può certo l’inglese
World cup wishes. Il pubblico italiano ha dimostrato ancora una
volta il suo apprezzamento per la letteratura israeliana. Il
conferimento del Premio letterario Adei-Wizo Adelina Della Pergola è
un’ulteriore soddisfazione per Nevo, oltre che un valido motivo per
tornare in Italia, paese che ama particolarmente. “Ho una grande
passione per la letteratura italiana, soprattutto per quella
contemporanea. Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Italo Calvino con il suo
‘Se una notte d’inverno un viaggiatore’: sono autori verso cui provo un
legame speciale - racconta lo scrittore - Il fatto è che la letteratura
italiana, a mio parere, presenta una forte affinità con quella
israeliana. Una vicinanza e una somiglianza che invece non trovo in
altre realtà letterarie, come per esempio leggendo i romanzi
scandinavi”. Forse potrebbe essere questa la ragione per cui
anche il pubblico italiano è tra i principali estimatori degli
scrittori israeliani. Anche se, a parere di Nevo, è tempo che approdi
nel Belpaese in modo definitivo anche la produzione della nuova
generazione di autori dello Stato ebraico, dopo i mostri sacri di Amos
Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua (“che però rimangono maestri che
ammiro profondamente” precisa). Figlio di due professori universitari e
nipote di Levi Eshkol, primo ministro dello Stato d’Israele tra il 1963
e il 1969, Eshkol Nevo è nato a Gerusalemme nel 1971. Dopo un’infanzia
trascorsa trasferendosi continuamente da una località all’altra
d’Israele (oltre che per un anno negli Stati Uniti), ha studiato
pubblicità alla Tirza Granot School e poi psicologia alla Tel Aviv
University ed è attualmente docente di scrittura e pensiero creativo in
vari atenei israeliani. Il suo primo romanzo, Nostalgia, pubblicato nel
2004, racconta l’Israele in tumulto dopo la morte del Primo Ministro
Yitzhak Rabin nel 1995, attraverso le vicende di sei abitanti di un
piccolo villaggio alle porte di Gerusalemme, Maoz Zion, in un
indistricabile intreccio tra le loro storie e la Storia con la S
maiuscola. Il libro ha raccolto l’apprezzamento sia della critica che
del pubblico, rimanendo per 60 settimane nella Israeli best-seller list
e vincendo diversi premi, al punto da essere addirittura inserito nel
curriculum scolastico dei licei israeliani. Ma se in Nostalgia è forte
l’influenza del conflitto, della politica, dei problemi che
rappresentano una presenza eterna e incombente nella vita israeliana,
ne La simmetria dei desideri l’approccio è completamente diverso. Il
punto di partenza è molto semplice: quattro amici, legati sin dai tempi
della scuola, si ritrovano a guardare insieme i Mondiali di calcio di
Francia 1998 e decidono di mettere nero su bianco i propri desideri più
profondi per i successivi quattro anni. Nel 2002 durante la Coppa del
Mondo in Giappone e Corea del Sud arriverà il tempo di trarre i bilanci
e verificare cosa nella loro vita si è realizzato. “Fino a questo
punto, la storia è vera - sottolinea Nevo, spiegando la valenza della
componente autobiografica ne La simmetria dei desideri - Questo momento
rappresenta un episodio che si è verificato nella mia vita. Poi tutto
diventa racconto, anche se questo non rende il libro meno reale. È un
romanzo con cui ho un legame particolare perché racconta un sentimento
intimo, quello dell’amicizia, che è il vero tema portante dell’opera”.
La Coppa del mondo che compare nel titolo in inglese infatti non deve
trarre in inganno: il calcio è solo un pretesto, il rintocco
dell’orologio che scandisce il tempo della vita dei quattro
protagonisti. Anche se Nevo non riesce a trattenere una battura di
spirito: “L’interesse per i Mondiali di calcio in Israele è quasi
un’ossessione, ogni quattro anni desideriamo ardentemente che la nostra
nazionale si qualifichi per disputarli, e ogni volta rimaniamo delusi.
Ma insomma, mica bisogna avere una squadra da tifare per appassionarsi
di calcio!”). I quattro giovani sono Ofir, il pubblicitario che
sorprende tutti con il suo desiderio di pubblicare un libro di
racconti, Amichai, che lavora nelle televendite e desidera aprire una
clinica per la terapia alternativa, il determinato Churchill, avvocato,
che non aspetta altro che di mettere le mani su un caso davvero
importante e infine Yuval, la voce narrante, che vuole sposare la donna
dei suoi sogni e avere dei bambini. Hanno trent’anni in Israele e
pensano alla vita che hanno e a quella che vogliono costruire. Senza
però riuscire a superare la sensazione di precarietà che li circonda,
di camminare su un velo che in ogni momento può essere lacerato
dall’irrompere dei problemi della società. Nel dipanarsi del racconto
una domanda rimane sullo sfondo: se l’amicizia, e in particolare quella
profonda e stretta che caratterizza un gruppo di giovani uomini, è
capace di farti crescere, o al contrario ti tiene fermo.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, novembre 2011
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Yitzhak Rabin, un
ricordo
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Credo che sia opportuno e
quasi doveroso ricordare l'assassinio di Yitzhak Rabin, di cui corre in
questi giorni il sedicesimo anniversario.
Mi ricordo l'estate e l'autunno del 1995 come un periodo ricco di
emozioni in Israele, un periodo intenso, nel quale il dibattito
politico sui rapporti d'Israele con i palestinesi aveva raggiunto toni
estremi a tutti i livelli, non si parlava d'altro. Era un periodo di
intensi colloqui con la leadership palestinese guidata da Arafat, si
era riusciti a stabilire a fatica in entrambi i campi un clima di
fiducia crescente, clima che stava cominciando a dare i suoi frutti:
non solo si andava stabilendo una collaborazione efficiente fra Tzahal
e le forze dell'ordine palestinesi, sì che furono sventati ed evitati
molti atti terroristici di Hamas, ma si parlava già di collaborazione
economica e tecnologica e di progetti che avrebbero migliorato di
diversi ordini di grandezza le infrastrutture nei territori abitati dai
palestinesi con il conseguente miglioramento del loro livello di vita.
C'era un'atmosfera di ottimismo dilagante, si sapeva che tutto questo
avrebbe portato a lunga scadenza un periodo di maggior tranquillità per
tutti.
Tre anni prima questa maggioranza ottimista e fiduciosa aveva votato
per Yitzhak Rabin. Ma in quello stesso periodo, ogni volta che si
assisteva a un passo in avanti nei rapporti con i palestinesi, i nemici
della pace si adoperavano alacremente per riportare le cose indietro
e Hamas faceva saltare in aria un autobus o una pizzeria, gli
attentati terroristici erano sempre più gravi quanto più sembrava
avvicinarsi un accordo con Arafat. Conviene qui ricordare che in quel
periodo Arafat era in netto contrasto con Hamas e non era ancora il
mandante degli attentati della seconda Intifada, che ebbe inizio più
tardi nel 2000 in seguito al fallimento dell'incontro di Camp David con
l'allora primo ministro Barak. In quell'estate autunno del 1995 c'erano
anche in campo israeliano molti che non volevano saperne di accordi di
pace con i palestinesi, perché sapevano benissimo che tali accordi
avrebbero inevitabilmente portato alla spartizione del territorio. In
quel periodo si infittirono le manifestazioni della destra nelle quali
Rabin veniva raffigurato con i baffetti e la svastica, mentre si
moltiplicavano i decreti di alcuni rabbini, esponenti dell'estrema
destra, che dichiaravano traditori Rabin e i suoi ministri, in un'opera
capillare di delegittimazione del governo che era stato eletto
democraticamente. E dal momento che la pena adatta al traditore è la
pena di morte, era solo questione di tempo finché saltasse fuori una
persona che prendesse in mano l'iniziativa di risolvere la cosa. E
così venne la sera del cinque novembre. Quella sera faditica si ebbe
la dimostrazione che "gli estremi si toccano" ... e si aiutano, e che
Hamas e gli ambienti che hanno cresciuto ed educato Igal Amir sono
alleati.
Nei giorni successivi Israele sembrava in uno stato traumatico di
trance, per le strade e nei posti di lavoro c'era un silenzio pesante,
un'aria di rabbia e di frustrazione, e di rassegnazione. Quei tre colpi
di pistola avevano ammazzato le speranze che si andavano facendo strada
nel cuore di molti, sicuramente della maggioranza, nonostante gli
attentati tremendi e la violenza verbale di chi cercava ad ogni costo
di silurare gli sforzi di pace e di cambiare con la forza il corso
della storia. Io avevo la netta sensazione che mi stesse venendo meno
il terreno sotto i piedi. Quella sera nella piazza del Municipio a Tel
Aviv (chiamata poi Piazza Rabin) c'erano centomila persone, ma altri
milioni erano nelle case in tutta Israele e seguivano con entusiasmo
quei canti di speranza che salivano dal podio. Ma nonostante ciò la
violenza e la sopraffazione avevano vinto, e la maggioranza degli
israeliani, che fino allora aveva creduto nella democrazia e nei suoi
metodi, si sentì dare un pugno nello stomaco.
L'assassinio di Rabin, Primo ministro di un governo eletto
democraticamente, fu un evento traumatico, una vera rivoluzione nella
ancora breve storia dello stato d'Israele, una crisi che sta gettando
ancora ombre pesanti nel rapporto fra cittadini e classe di governo
israeliana.
Oggi alcuni degli esponenti d'opposizione di allora (Netanyahu, Sharon
e altri) che assistevano e incitavano la folla in quelle manifestazioni
violente, nelle quali si chiedeva la testa di Rabin, sono oggi al
governo, e il processo di pace è bloccato per volontà di entrambe le
parti. Ma Israele ha bisogno urgente di un leader dotato di un passato
simile a quello di Rabin (l'architetto della vittoria del '67) e di una
visione del futuro simile alla sua. Possibile che non ci sia? Se c'è,
che si faccia avanti, Israele lo aspetta.
Daniel
Haviv, alchimista
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La Lega, quando piove
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Il
deputato della Lega Davide Cavallotto ha dichiarato testualmente: «Ora
che la pioggia è riuscita nell’impresa in cui aveva fallito il sindaco
Piero Fassino, ossia lo sgombero del campo nomadi abusivo sul Lungo
Stura Lazio, mi auguro che il Comune provveda all’identificazione di
tutti gli irregolari che vivevano in quel campo». E così, in spregio a
ogni elementare solidarietà umana, il nostro tronfio parlamentare ha
pensato bene di accampare la sua bella bandierina sui detriti lasciati
dall’alluvione. Ancora una volta ci troviamo a parlare di questi temi.
Ma nelle parole del Cavallotto c’è un salto di qualità: normalmente le
più trucide dichiarazioni xenofobe dei vari politici e amministratori
leghisti mostrano una trama concettuale che è stata definita
«torvo-buonista». Un’ipocrisia vergognosa per cui le impronte digitali
ai bambini rom servirebbero a consentire loro un’adeguata istruzione,
mentre i respingimenti in mare avrebbero impedito il traffico degli
scafisti. In questo caso, invece, gli argini sono definitivamente
saltati. Non si finge neanche, magari con una perifrasi ardita, una
preoccupazione per quei «clandestini» che rischiavano di morire sotto
la piena, né si afferma che il campo vada sgombrato per tutelare
l’incolumità dei suoi abitanti. Si va direttamente al sodo: procediamo
con identificazione e rimpatri. Rimpatrio con il k-way, sia ben chiaro. «Viene
da chiedersi» aggiunge il consigliere leghista Fabrizio Ricca «se sia
giusto, visto che l'occupazione del suolo pubblico è abusiva e visto
che i clandestini che la compiono sono perfettamente consapevoli della
pericolosità e dell'illegalità del loro stanziamento, che in momenti di
emergenza le risorse cittadine debbano essere mobilitate per loro e non
per le famiglie italiane che corrono altrettanti rischi». Evvai!
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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notizie
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rassegna
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Iran - Barak smentisce attacco
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Smentite
questa mattina dal ministro della Difesa israeliano Ehud Barak le voci
secondo cui Israele sarebbe in procinto di attaccare gli impianti
nucleari iraniani. "La guerra non è una passeggiata” ha detto Barak
alla radio nazionale negando la veridicità della notizia, diffusa negli
scorsi giorni dai media internazionali, di un attacco ormai prossimo.
In settimana è intanto atteso il rapporto dell'Agenzia internazionale
per l'energia atomica dell'Onu (Aiea) sull'attività nucleare di Teheran.
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Il
rapporto dell'Agenzia atomica sul nucleare iraniano ha rimesso in primo
piano il rischio dell'arma atomica in mano agli ayatollah (Randjbar su Europa, redazione del Foglio,
che usa la metafora della "pistola fumante" per mettere in dubbio la
fondatezza del rapporto) e il dibattito su cosa fare (Picasso su Liberal).
Ugo
Volli
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italiano |
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Dafdaf
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