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Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma
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Poche
sono state le voci critiche davanti al coro di cordoglio per la
scomparsa di Steve Jobs, il fondatore dell'Apple, e tra queste si è
segnalata quella di rav Jonathan Sacks, che ha denunciato il contributo
alla società consumistica dato da Jobs, "sceso giù dalla montagna con
due tavole (gioco di parole con l'inglese tablets), iPad one e iPad
two, con il risultato che noi abbiamo una cultura di iPod, iPhone,
iTune, i, i, i. Non vai molto bene se sei una cultura
individualista ed egocentrica e ti preoccupi solo dell'"i" " (al
minuscolo è l'iniziale dei prodotti Apple, al maiuscolo, con la stessa
pronuncia in inglese, significa "io"). Le polemiche per questo
intervento ("pubblicità per l'Apple", "perché prendersela solo con
lui","parla come un Imam" ecc.) hanno costretto rav Sacks a una
rettifica, nella quale ha dichiarato che lui stesso usa questi
prodotti. Ma la provocazione, forse estremistica, del rabbino inglese
serve a fermare un po' gli entusiasmi e a mettere sul tavolo una
riflessione sul senso di una civiltà in cui il progresso tecnologico si
accompagna alla creazione di pulsioni consumistiche di prodotti che
danno solo effimera felicità. Ma se la felicità è effimera, possono
essere utili: dipende da come vengono utilizzati. In uno degli "smart"
phone che ho a disposizione per lavoro, e non dico quale (ne ho di due
tipi, che non sono solo marche, ma sistemi e quasi religioni
differenti) ho caricato il calendario ebraico con gli orari delle
tefillot e dello Shabbat, la Torah con Rashì, l'intero Tanakh, l'intero
Talmud Babilonese con Rashì e lo Shulchan 'Arukh. Nel testo originale,
e ognuno con il suo bravo motore di ricerca, consultabili ovunque e in
qualsiasi momento. Non è felicità ma tecnologia - oserei dire
formidabile - al servizio della Torah.
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Si è partiti dai valori
comuni alle Comunità ebraiche, da quella costellazione di principi che,
fra tradizione e contemporaneità, sono la premessa e al tempo stesso
l’obiettivo dell’agire quotidiano e della pianificazione per il futuro.
Il programma d’incontri e seminari realizzato dal Centro studi e
formazione del Dec-Dipartimento educazione e cultura UCEI, dopo la
tappa di apertura a Milano, ha toccato in queste ore, nel suo secondo
appuntamento documentato da alcuni scatti di Giovanni Montenero, la
Comunità ebraica di Trieste. L’obiettivo dell'iniziativa, che prevede
nei prossimi mesi sessioni di lavoro a Napoli, Firenze e Torino, è
quello di costruire un network di leader e professionali comunitari
preparati e al passo con le sfide dei tempi, capaci di gestire le
Comunità secondo i modelli più aggiornati e di lavorare in costante
contatto con i colleghi delle altre realtà comunitarie e con l’Unione
della Comunità Ebraiche Italiane. Il tutto sempre tenendo presenti i
pilastri che devono ispirare e motivare l’azione ebraica.
“L'identità
ebraica e l'identità europea sono strettamente interconnesse. Ma la
cultura ebraica è la sola che oggi può combinare le diverse anime
culturali e religiose di un'Europa sempre più pluralista”. Filosofa,
docente fra Gerusalemme, Berlino e Vienna, straordinaria divulgatrice,
femminista religiosa e una delle rarissime donne al mondo ad aver
ottenuto da autorità rabbiniche ortodosse un'ordinazione di ordine
rabbinico al femminile, Eveline Goodman-Thau ha cominciato a Trieste,
ospite del corso di forrmazione, una sua missione nella realtà italiana
che la porterà domani sera a Milano per partecipare al dibattito sulla
condizione femminile organizzato dalla stessa Comunità. Innumerevoli
gli spunti offerti a un uditorio visibilmente interessato a spunti di
apertura sulla scena degli studi internazionali. La carenza di
strutture di studi avanzati in campo ebraico deprime gravemente la vita
ebraica in Italia, come ha osservato, sempre nell'ambito dello stesso
corso, lo storico Guri Schwartz in un proprio intervento. "Questa
situazione, ha affermato, corre il rischio di segnare un solco di
conoscenze e di stimoli lasciandoci indietro rispetto a realtà come la
Gran Bretagna, la Francia e la Germania dove molti atenei pubblici e
privati hanno consolidato corsi di studi universitari ebraici di alto
profilo".
Verso il cambiamento
Per tracciare un bilancio
complessivo si dovrà ancora attendere un po’. Ma il primo spezzone
d’attività, afferma rav Roberto Della Rocca, direttore del
Dec-Dipartimento educazione e cultura dell’UCEI, è stato molto positivo
sia sul fronte della partecipazione al corso sia nel coinvolgimento
dell’intera Comunità ai momenti culturali. E numerosi nonché
costruttivi sono stati gli spunti proposti, nel corso degli incontri,
dai docenti e dagli stessi iscritti.
A giudicare
da questi primi incontri l’esigenza formativa è stata centrata?
Direi che sono state poste le prime basi per la costruzione di un
cambiamento che passa inevitabilmente per un confronto ampio e la
comprensione dei nuovi bisogni e necessità. I temi proposti erano molto
ampi e sono stati trattati in modo molto soddisfacente. In parallelo è
emersa una forte esigenza da parte dei partecipanti di mettere sul
tavolo i problemi concreti e aprire un confronto tra politici e
professionali.
Un dialogo
non sempre facile.
Gli scambi, come previsto dalla struttura del corso, sono stati
facilitati dai docenti e si sono rivelati molto interessanti.
L’esperienza della prima fase ci ha mostrato, attraverso i feedback dei
partecipanti, che questo è ad esempio un aspetto che può ulteriormente
venire messo a punto.
In che modo?
L’interazione fra i vari gruppi di utenti a volte va fluidificata, vi
sono livelli di conflittualità anche concettuali anche tra le
diverse Comunità o tra i ruoli e le competenze. I facilitatori sono
necessari perché i diversi linguaggi riescano a capirsi reciprocamente
e a dialogare. A questo scopo nelle prossime fasi i docenti
perfezioneranno gli strumenti e proporranno percorsi specifici.
Ci sono
difficoltà da segnalare?
L’unica questione su cui richiamerei l’attenzione è che gli utenti
premono perché si diano delle ricette per risolvere i problemi. Questo
però non è possibile: i diversi temi vanno analizzati e si devono
verificare i bisogni. Solo così si possono proporre soluzioni efficaci.
Accanto agli
incontri per gli iscritti al corso, il progetto prevede dei momenti
aperti alla Comunità. Qual è stata finora la risposta?
Senz’altro ottima. Il momento comunitario ha coronato il lavoro di
formazione registrando una partecipazione notevole. Tanto che, dopo il
successo dell’incontro milanese, è stato organizzato a Trieste, accanto
ai momenti culturali già previsti, uno Shabbaton aperto alle famiglie
delle altre Comunità. Il tema fondamentale della formazione alla
leadership si è così coniugato all’opportunità di vivere insieme dei
momenti ebraici.
Perché scommettiamo sulla professionalità
Community management,
gestione delle risorse umane, motivazione del personale, comunicazione.
A contrassegnare il programma formativo per la leadership ebraica sono
tematiche ormai divenute pane quotidiano nel mondo aziendale. Ma
trasferirle in ambito ebraico significa sottoporle a un’accurata
revisione capace di adattarle alla realtà sfaccettata e assolutamente
particolare della vita comunitaria e d’interpretarle alla luce dei
valori ebraici. Una rilettura in chiave professionale delle Comunità
deve partire da questi aspetti, sottolinea Alfonso Sassun, segretario
generale della Comunità ebraica di Milano, alle spalle una lunga
esperienza nella formazione per la Olivetti e un’esperienza comunitaria
in veste di assessore, che ha collaborato al progetto del Dec ed è
intervenuto all’incontro triestino. “Il volontariato – sottolinea – è
caratterizzato da un forte senso di appartenenza, è orientato al fare
con disinteresse personale. Ma buona volontà, generosità e
disponibilità oggi non sono più sufficienti. Ci vogliono preparazione,
competenze, esperienza così da poter definire una programmazione e una
strategia efficaci sul breve, medio e lungo periodo. Altrimenti si
rischia di offrire servizi di qualità scadente e di perdere credibilità
tanto nei confronti degli iscritti che dei professionali”.
Riguardo a questi ultimi, sottolinea Sassun, i criteri di reclutamento
dovrebbero fondarsi sulle esigenze della Comunità e dunque sulle
competenze della persona più che, come talvolta può accadere, su un suo
stato di bisogno cui va provveduto in modo diverso. E i percorsi di
carriera vanno governati, in piena trasparenza. Magari aiutandosi con
una dose abbondante di buona comunicazione: perché non basta aprire la
bocca per riuscire davvero a far comprendere il proprio messaggio e il
fatto di conoscersi fin dall’infanzia non è affatto garanzia di mutua
comprensione o condivisione degli obiettivi. “Comunicare – precisa
Sassun – è una responsabilità diffusa che riguarda tutte le persone
dell’organizzazione e significa trasmettere messaggi, condividere
messaggi, consolidare l’unità sociale. Qualsiasi cosa si intenda per
comunicazione è un’attività vitale per ogni organizzazione”. La
comunicazione è anzi uno degli strumenti fondamentali per i leader, cui
è richiesto oggi di trasformare le Comunità in strutture efficienti,
trasparenti, attrattive, aperte all’innovazione, specialiste nel
coinvolgere i giovani anche attraverso iniziative che facilitano il
ricambio generazionale, capaci di rendicontare le dimensioni economiche
e sociali ed esperte di cooperazione interistituzionale.
Daniela Gross
(Pagine Ebraiche, dicembre 2011)
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Qui Roma - Razzismo e
luoghi della Memoria
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Escludere e
includere. I regimi totalitari, i movimenti razzisti e xenofobi, oggi
come nel passato hanno fatto largo uso di questa combinazione.
All'argomento è dedicato il convegno “Inclusione ed esclusione. Luoghi
della memoria, un percorso teoretico/storico”, apertosi questa mattina
al Centro Ebraico italiano Pitigliani di Roma. L'iniziativa, realizzata
in collaborazione con l’UCEI e la Fondazione Cdec, è rivolta in
particolare al mondo della formazione e dell’insegnamento. Due i filoni
di riferimento della giornata di studio: “l’elaborazione teorica
dell’esclusività”, tema della sessione mattutina, e la “esclusione ed
inclusione nei Luoghi della memoria” per quella pomeridiana. A
coordinare i lavori Michele Sarfatti, direttore del Cdec e Rita Gravina
della Federazione nazionale insegnanti del Lazio.
Razzismo e antisemitismo si fondano sul concetto di esclusione
dell’altro, percepito come un essere inferiore, su cui la “razza
dominante” può tiranneggiare sulla base di una presunta superiorità
morale, etnica o nazionale. Sull’impatto di queste ideologie nella
modernità, il cui risultato terribile fu la Shoah, si interrogano
alcuni dei relatori, fra cui Giovanni Ruocco, Gabriele Rigano e Stefano
Gatti. Uno sguardo invece geografico, sul significato dei luoghi della
memoria, tra cui Fossoli, il ghetto di Roma e Carpi, sarà al centro
degli interventi pomeridiani di Michele Sarfatti, Marzia Luppi e
Claudio Procaccia.
A concludere i lavori Margerita Donatelli, Luca Sabano e Livia Testa
sul significato, l’importanza e le modalità dell’organizzazione dei
viaggi di istruzione nei luoghi della Memoria.
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Dal posto delle donne |
Non è un segreto che i
riformati cerchino di cavalcare il disagio che le donne avvertono negli
ultimi anni. Nel loro spirito illuministico, nella loro euforia
riformatrice, credono e fanno credere che si tratti di cambiare qui e
là i testi, modificare mitzvòt, introdurre magari un nuovo minhag, per
risolvere la «questione femminile».
Anzitutto: che formula infelice e insieme sintomatica! Chi ha detto che
c’è una questione femminile? E che non ci sia invece una questione
maschile? Con le dovute distinzione la formula fa il paio con un’altra:
la «questione ebraica». E come ha detto Hannah Arendt: «la moderna
questione ebraica nasce nell’Illuminismo; è l’Illuminismo, cioè il
mondo non ebraico, che l’ha posta». In modo analogo si potrebbe dire
che sia la concezione illuministica di alcuni uomini, improntata a un
vuoto egualitarismo, a porre la «questione femminile». Come se, in una
supposta evoluzione, le donne si emancipassero facendo quello che fanno
gli uomini, occupando gli stessi spazi, svolgendo gli stessi ruoli.
Non è così. Si confondono in questo modo emancipazione e liberazione;
chi conosce il pensiero femminista sa tenerle distinte. Una donna può
essere emancipata, può guidare un autobus per le vie trafficate, può
essere magistrato e condannare i capimafia, può fare il professore
all’università, insegnare a scuola; ma non necessariamente sarà una
donna liberata, consapevole cioè, non solo della propria dignità, ma
anche della differenza del suo modo di essere, di pensare, di parlare,
di agire. Al punto da chiedersi: chi vuole essere come gli uomini?
Forse la cosiddetta evoluzione dovrebbe percorrere un cammino opposto:
non sono le donne a doversi avvicinare agli uomini, bensì gli uomini a
voler scoprire e apprezzare l’universo delle donne.
Perché mai pregare, ad esempio, sedute accanto agli uomini sarebbe
preferibile? In che cosa ne verrebbe aumentata l’autostima? E se invece
stare accanto ad altre donne non significasse assaporare qualche ora di
suggestiva intimità? Stare tra le donne non equivale ad essere relegate
o emarginate. Vuol dire semmai vedere la realtà dalla prospettiva
opposta a quella maschile, che non è l’unica.
Fuori dall’alternativa tra protagoniste e comparse, quello che le donne
desiderano è di poter partecipare, cioè essere coinvolte e coinvolgere
a loro volta. Anzitutto nello studio. Senza perdere tuttavia la propria
angolazione, senza abbandonare il proprio posto. La tradizione ebraica,
che insegna la differenza delle donne, è perciò in questo senso una
enorme risorsa. D’altronde negli Stati Uniti, in Israele, ma anche in
molti paesi europei, le comunità che si definiscono «modern orthodox»
chiedono alle donne un’intensa partecipazione.
Questo dovrebbe valere anche in Italia dove grande è il disorientamento
nel mondo femminile. Se è facile condannare il burqa e l’esclusione
delle donne nel mondo islamico, ben più difficile è denunciare il modo
in cui le donne sono state trattate nell’era berlusconiana. Si vorrebbe
parlare al passato, perché è dolorosa ancora la ferita. Fa vergogna
pensare ai modelli femminili imposti in questi ultimi anni: pantaloni e
scolature ammiccanti, pezzi di corpo maschilmente impiegati per le
voglie maschili, in vista di un fantomatico potere. Tra la
sfacciataggine del senza-faccia e il burqa, c’è una bellezza femminile
che è stata sommersa, che deve essere riscoperta.
Che dei suggerimenti non vengano proprio dal mondo ebraico? Lo
speriamo. D’altronde, in tante comunità, le donne hanno dimostrato di
avere idee, iniziative e desiderio di impegnarsi. Ma l’impegno non
dovrebbe ricadere nell’economia di scambio né attendere necessariamente
la ricompensa. Tanto meno quella di un ruolo istituzionale. In tal
senso non posso concordare con le scelte della mia amica Eveline
Goodman-Thau, pur comprendendole all’interno della sua biografia. Non è
necessario essere «rabbine» per insegnare, per imparare, per essere un
punto di riferimento in una comunità.
Donatella
Di Cesare, filosofa
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Nucleare:
Teheran minaccia Israele
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Leggi la rassegna |
“Mi auguro che Israele
commetta l’errore di attaccare così potremo finalmente mandare i nemici
dell’Islam nella pattumiera della Storia”. A rilasciare questa
scioccante dichiarazione il generale Amir-Ali Hadjizadeh, comandante
della forza aerospaziale dei Guardiani della rivoluzione in Iran.
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