se non
visualizzi correttamente questo messaggio, fai click qui
|
25 novembre 2011 - 28 Cheshwan 5772 |
|
|
|
|
|
Alfonso
Arbib,
rabbino capo
di Milano
|
Nella
parashà di Toledòt è scritto che Yitzchàk amava Esàv perché la caccia
era nella sua bocca. Secondo un midràsh riportato da Rashì, questa
frase si riferisce alla capacità di Esàv di ingannare con le parole. Il
riferimento del midràsh non è solo al personaggio Esàv ma alla civiltà
che secondo i Chakhamìm da lui discende. Quella civiltà è la civiltà in
cui noi viviamo. Nella cultura occidentale le parole sono fondamentali
e a volte vengono usate in modo manipolatorio. Ieri, in risposta
all'intervento di Rav Riccardo Di Segni, Guido Vitale ha detto che le
parole di un giornalista non hanno il potere di cambiare la realtà. Può
darsi che non abbiano questo potere ma hanno sicuramente il potere di
orientare la nostra percezione della realtà.
|
|
Laura
Quercioli Mincer, slavista
|
|
Il 23 marzo del 1923, quattro
anni dopo la nascita della Seconda Repubblica Polacca, usciva a
Varsavia il primo numero del quotidiano “Nasz Przegląd”, “La nostra
Rassegna”, una delle numerosissime pubblicazioni periodiche ebraiche
che, in yiddish, in ebraico e anzitutto in polacco, apparvero in questo
paese nel ventennio fra le due guerre. “Questo giornale – si leggeva
nel primo numero – un giornale ebraico in lingua polacca, per alcuni
costituirà, speriamo, una strada verso il ritorno, un gradino per
riaccostarsi al proprio popolo. Per altri sarà una fonte di conoscenza
dei pensieri, delle speranze e delle ambizioni dell’ebraismo polacco.
Alla società polacca desideriamo rendere comprensibile la nostra
coscienza nazionale, le sue leggi, i suoi ideali.”
“Noi cittadini della Repubblica – così terminava l’articolo – vogliamo
una Polonia forte e sicura, una Polonia libera e che diffonda le
libertà, che tragga il suo benessere della collaborazione armonica di
tutti i suoi abitanti, a prescindere da confessione religiosa,
nazionalità, convinzioni politiche. È questa, noi crediamo, la maggiore
garanzia del progresso e della dignità del nostro paese”. “Nasz
Przegląd” uscì ininterrottamente dal marzo 1923 al 20 settembre del
1939. Fra i suoi collaboratori si trovavano alcuni dei massimi
intellettuali del periodo, come il pedagogo Janusz Korczak, il poeta
Władysław Szlengel, il romanziere Opatoszu. La sua tiratura, che
arrivava alle 50mila copie, superò spesso quella dei quotidiani diretti
ai lettori polacchi.
|
|
torna su ˄
|
|
rav Roberto Della Rocca: “L'ansia del controllo ci porta lontani dalla sostanza del dibattito”
|
L'aleftav
di ieri del rav Riccardo Di Segni e il contorno di commenti sulle
vicende di questi ultimi giorni mi hanno suscitato alcune riflessioni.
Mi sono chiesto se non sarebbe più opportuno concentrarsi sulla
sostanza dei complessi dibattiti che stanno animando la vita
dell'ebraismo italiano, anziché angosciarsi a verificare le credenziali
dell'interlocutore. La professoressa Eveline Goodman-Thau non ha
bisogno di presentare certificati di buona condotta, e, per la sua
rispettabile biografia, non credo sia neppure interessata a dare
giustificazione della sua storia e della propria attività. Ricade su di
noi invece il dovere di tutelare i nostri ospiti, non causare loro
imbarazzi e umiliazioni. O ci dimostriamo all'altezza della situazione
o è inevitabile sprofondare nell'isolamento e nel provincialismo. Il
dipartimento Educazione e cultura dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane ha invitato l'autorevole studiosa a Trieste, come
intellettuale, a un corso di formazione per leader a parlare di temi
come il ruolo dell'ebraismo europeo. Successivamente, la professoressa
ha partecipato a un dibattito a Milano sulla figura della donna nel
mondo ebraico assieme ad altre quattro donne di diversa estrazione
culturale e religiosa. Entrambe le tematiche esulano dai compiti e dai
ruoli istituzionali. Del resto, la cultura e il sano dibattito che
Eveline Goodman-Thau ha stimolato non possono essere soffocati da una
lettura parziale della sua storia e del suo percorso. La professoressa
Goodman-Thau, oltre a essere docente di filosofia ebraica, è una
eclettica intellettuale, che, nel 2000, ha conseguito a Gerusalemme una
Teudat Horaha (autorizzazione all'insegnamento della Torah) con il rav
Chipman, rabbino ortodosso e allievo del celebre rav Jehuda Ghershuni.
Ha in effetti esercitato per breve tempo il ruolo di ministro di culto
in una sinagoga liberal di Vienna, e per questo dice pubblicamente di
aver fatto Teshuvah. Ma non è nostro compito giudicare i suoi percorsi
personali. Comprendo e rispetto le preoccupazioni di molti, rabbini e
non, nelle nostre Comunità su questi temi. Credo tuttavia che se
continuassimo a eludere questo confronto correremmo il rischio di
essere marginalizzati e di non far comprendere appieno le nostre
ragioni. Quando non si ha nulla da nascondere e si vive la propria
identità in modo solido e sereno ci si può confrontare con chiunque
senza timori. Non si possono giudicare le persone solo per sentito dire
o per quanto si legge su un sito internet. Rav Di Segni richiama
giustamente al dovere di comportarsi in conformità alle regole
condivise. E tuttavia, non basta il controllo dei titoli rabbinici,
talvolta millantati anche nel nostro mondo ortodosso. Si dovrebbero
anche controllare i formatori, gli insegnanti delle scuole, i
controllori della kashrut, così come molti dei nostri rappresentanti
politici, la cui nomina è sottoposta al vaglio dei rabbini capo.
Sarebbe pretestuoso chiedersi quanti di questi protagonisti del passato
e del presente abbiano la “riforma” nel loro animo? E, magari, nella
loro stessa prassi quotidiana? E tutti questi si sono creati dal nulla
o li ha prodotti una istituzione riconosciuta? E come, e perché? Si
dovrebbero poi controllare anche i risultati dei vari percorsi di ghiùr
seguiti e riconosciuti, per vedere, a distanza di tempo, quale ne sia
l'effettiva e reale rispondenza ai requisiti iniziali. Ci si aspetta
d'altro canto da coloro che conducono le nostre Comunità un controllo
più vigile su quelli che, per scopi non chiarissimi, cercano di
delegittimare con la diffamazione le istituzioni e chi per esse lavora
allo scopo di farle uscire dalla desolazione culturale e dal puro
formalismo religioso. Perché queste persone non si dichiarano sui
giornali, perché non si confrontano a viso aperto nelle tante occasioni
nazionali a cui l'Ucei dà vita? Perché nascondersi dietro figure e
paraventi istituzionali, diffondendo disinformazione e calunnie? Il
primo controllo, come insegna la nostra tradizione, dovrebbe essere
quello che esercitiamo su noi stessi. E il monito, è superfluo dirlo,
dovrebbe essere accolto soprattutto dagli stessi controllori.
rav Roberto Della Rocca direttore del dipartimento Educazione e cultura Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
|
|
Qui
Roma - La stampa ebraica fra tradizione e futuro
|
La stampa ebraica in Europa, un
intrigante percorso di parole e pensieri che fanno dibattito, un
microcosmo vivace che guarda alla ricchezza della sua plurimillenaria
tradizione ma che è allo stesso tempo attento alla contemporaneità e
proiettato alla sfida del domani senza dimenticare il prezioso ausilio
delle moderne tecnologie. Si snoderà lungo questo tema il convegno
“Dalle rotative all’Ipad: tradizione e futuro nella stampa ebraica” in
programma domenica pomeriggio a partire dalle 15 al Centro
Bibliografico UCEI di Roma. Tra gli ospiti chiamati a portare un
contributo, una rappresentanza delle testate nazionali e comunitarie
dell'ebraismo italiano oltre che del mondo culturale, accademico e
istituzionale e la saggista polacca Bella Szwarcman-Czarnota di cui
pubblichiamo, nella versione italiana a cura di Laura Mincer, un
recente scritto apparso a Varsavia sulla rivista Midrasz.
“Ecco i nomi dei figli di Israele...”. “Se stai per scegliere il nome
del tuo bambino devi decidere fra molti fattori importanti. Il nome del
bambino deve essere anzitutto armonico con la sua data di nascita, e
con il cognome di famiglia. La cosa più importante è che comprenda le
qualità legate al tuo cognome. Telefonici prima di decidere, oppure
clicca qui”. Così ci informa info@kabalarians. com. Si può anche
telefonare a un numero di Vancouver.
Non so quale “fattore” si colleghi al nome Psachia, portato con
orgoglio del padre della poetessa Anna Frajlich, che ne scrive nel
racconto Il nome del padre. Per una buffa coincidenza questo nome mi
era noto fin dall’infanzia. “Psachie fun Regensburg” era un eroe le cui
prodigiose avventure amavo ascoltare da bambina. Solo molto più tardi
venni a sapere che Psachie fun Regensburg non è altro che la pronuncia
yiddish di Petachia di Ratisbona, e che non si trattava affatto di una
figura mitica, ma di un viaggiatore medievale. Le sue peregrinazioni
vennero descritte nel libro Sibuv, pubblicato a Praga nel XVI secolo, e
quindi tradotte in numerose lingue.
Petachia di Ratisbona veniva da una famiglia di illustri tosafisti
(commentatori); invece di star chinato sui libri come i suoi antenati
decise di mettersi in viaggio. Il suo cammino lo condusse dalla Polonia
in Russia, in Crimea, nella terra dei Chazari, in Armenia, in
Kurdistan, a Babilonia, in Siria, fino alla terra d’Israele. Sembra che
il suo scopo principale fosse appunto poter giungere in pellegrinaggio
in Eretz Israel e pregare sulle tombe dei santi rabbini. Lungo la
strada però gli capitò di imbattersi in svariate figure interessanti e
in molti fatti stravaganti, che descrisse in maniera dettagliata. In
Eretz Israel Petachia fece delle scoperte meravigliose; più di tutto lo
stupì il pozzo che, completamente secco di sabato, gli altri giorni era
colmo d’acqua. Lungo la strada pare si imbattesse anche nell’albero
sotto cui riposarono i tre angeli diretti verso la tenda di Abramo.
Questa pianta aveva la peculiarità di gettare la sua ombra sugli uomini
pii, ma, se vi cercavano riparo dall’arsura gli idolatri, le sue fronde
si alzavano e non davano ombra (Bereshit Rabbà 517- 518). Avvenne “nel
caldo del giorno”. Abramo sedeva “all’ingresso della sua tenda [...].
Alzati gli occhi, guardò ed ecco, tre uomini erano in piedi davanti a
lui. Appena li ebbe veduti, corse loro incontro dall’ingresso della
tenda e si prostrò a terra”. (Genesi 18; 1-2). Abramo accolse
generosamente i viaggiatori e ne venne premiato: Sara gli diede un
figlio, Isacco. Anche Lot, il cugino di Abramo, si mostrò ospitale nei
confronti degli angeli (stavolta erano due), e mise persino in pericolo
la sua famiglia per assicurar loro un soggiorno tranquillo sotto al suo
tetto. Ma il comportamento di Lot non venne altrettanto ricompensato.
Perché? Il grande zaddik Levi Itskhok di Berdyczew così lo spiegava ai
fedeli che venivano da lui a farsi benedire: “Sapete in cosa consiste
la differenza fra il padre nostro Abramo, pace all’anima sua, e Lot?
Perché amiamo tanto rammentare che Abramo offrì agli angeli focacce,
giuncata e un vitello tenero e buono? Anche Lot fece preparare focacce
e imbandì la tavola. Ma perché consideriamo un merito solamente
l’ospitalità di Abramo? Anche Lot fu altrettanto ospitale. La questione
si può spiegare nel modo seguente: nel caso di Lot si dice che ‘Due
angeli arrivarono a Sodoma’ [Genesi 19;1]; ma Abramo vide tre uomini.
Lot vide gli angeli, Abramo dei viandanti esausti, desiderosi di riposo
e di cibo” (ce lo racconta Buber nelle storie dei chassidim).
Lo Zohar riferisce che Abramo era in grado di riconoscere il tipo di
persona con cui aveva a che fare dalla reazione dell’albero sotto cui
sedeva; se si accorgeva che sotto l’albero sedeva un pagano cominciava
gli si avvicinava dicendo che “non si sarebbe allontanato finché non
avesse riconosciuto il Santo, benedetto Egli sia”.
Non ci deve stupire dunque che Abramo venga definito nostro padre
(Giosuè 24; 3), progenitore, patriarca, mentre di Lot si dice solamente
che “camminava insieme ad Abramo”. Il nome Abraham (Padre di molti
popoli) venne attribuito ad Abramo dall’Eterno quando strinse con lui
il patto. La promessa della terra e il patto con Dio sono i motivi per
cui Abraham- Abramo è veramente il padre del popolo ebraico. Il suo
nome è una sorta di simbolo dell’ebraismo.
Per me Abram era al tempo stesso il certificato di nascita e una sorta
di scudo. In tempi ormai abbastanza remoti, quando alla gente
cosiddetta per bene non sembrava fine far sfoggio di antisemitismo, il
nome di mio padre tappava la bocca a molti amanti delle barzellette
“ebraiche”. “Come si chiama tuo padre?”. “Abram”. Un’occhiata veloce, a
volte imbarazzata, e tutto rientrava nella norma.
Ma c’era anche chi trovava questo nome chiaramente irritante. Dalla più
remota infanzia ricordo le visite di tetri funzionari comunisti che
cercavano di convincere mio padre a cambiar il nome, se non addirittura
il cognome. “La preghiamo di riflettere. Questa modifica Le risparmierà
molti problemi, specialmente nel posto di lavoro”. “E cosa mi
proponete?”, chiedeva mio padre. I signori forse non avvertivano lo
scherno nella sua voce, che pure era percepibile persino da una bambina
quale io ero. “Forse Adam Czarnecki?” (nel cognome Szwarcman così come
in Czarnecki la radice è la parola “nero”). “Forse un cognome nobiliare
come Czarnecki neanche me lo merito, e anche Adam un nome biblico”.
Citare la Bibbia ai tempi non andava di moda, i signori infine
gettarono il guanto e scomparvero dalla nostra vita. D’altronde più
tempo passava dal periodo in cui erano in molti gli uomini che in
Polonia portavano il nome di Abram, e tanto più spesso capitava che
esso suscitasse esclusivamente stupore. “Ma che nome originale!”,
esclamò una volta la bibliotecaria della cittadina di villeggiatura
dove andava mio padre.
“È un nome ebraico, si trova
nella Bibbia”, era l’informazione che mio padre dava alla signorina e
agli altri, che lo volessero ascoltare o meno. Un giorno, sull’autobus,
i boccoli biondi della mia sorellina suscitarono una vera e propria
esplosione di entusiasmo da parte di un passeggero: “Ecco una vera
bambina slava!”. “Peccato solo che sia figlia di ebrei”, gli rispose
imperturbabile mio padre. L’evidente ostilità con cui mio padre
guardava a possibile cambiamento di nome si lega certamente alla
tradizione ebraica.
Nella Bibbia queste trasformazioni avvengono per volontà divina e
solamente in momenti di passaggio: Sarai riceve il nome di Sara dopo
che Abramo si è circonciso, Giacobbe dopo aver combattuto con l’angelo:
“Non ti chiamerei più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con
Dio e con gli uomini” (Genesi 32, 29). Per gli ebrei il nome è parte
integrale del bagaglio spirituale dell’uomo, e ciò non soltanto durante
la vita, ma anche dopo la morte. Gli ebrei ashkenaziti non danno mai al
figlio il nome di un parente ancora in vita: il Malach ha-mavet,
l’angelo della morte, potrebbe per sbaglio portar via il bambino al
posto del più adulto omonimo. I sefarditi scelgono con impegno ancora
maggiore il nome dei propri figli, evitando con cura quelli che
potrebbero essere portatori di sventura. In entrambe le tradizioni il
nome si cambia estremamente di rado.
Nella maggior parte dei casi si tratta di un cambiamento temporaneo, ad
esempio nell’evento di una malattia grave o di un’altra minaccia alla
sopravvivenza. Il cambio di nome avviene insieme al rituale destinato a
confondere l’angelo della morte riguardo l’identità del moribondo. Se
diamo invece al bambino il nome di un parente defunto speriamo che ne
erediti le qualità e ne moltiplichi le buone azioni. Ricordiamoci però
che, come si legge nel prospetto della Yahrzeit Organization, “dare al
proprio figlio un nome ebraico non basta a farne un ebreo, significa
solamente che abbiamo dato un nome ebraico a un bimbo ebreo”.
Bella
Szwarcman-Czarnota, Pagine Ebraiche, dicembre 2011
|
|
torna su ˄
|
|
Libertà
di obiettivi
|
Che si chiamino piani di
lavoro, programmazioni o altro, in questo periodo dell’anno dominano i
pensieri degli insegnanti che li devono consegnare. Non basta elencare
i contenuti, cioè gli argomenti che si intende trattare: bisogna
ragionare per obiettivi didattici, spiegare quali competenze e capacità
gli allievi dovranno raggiungere. Girano le e-mail, tutti chiedono
consiglio a tutti: questa sarà una competenza o un’abilità? Questo
andrà bene come obiettivo minimo o sarà troppo difficile? E in fondo
noi insegnanti di lettere abbiamo la convinzione che, se mai qualcuno
davvero leggerà il nostro piano di lavoro, andrà a vedere quali autori
e opere intendiamo trattare e non baderà al resto. È un modo di pensare antiquato?
Autoritario? In effetti c’è chi pensa che la scuola non debba imporre
nozioni ma far acquisire un metodo di lavoro.
Mi viene in mente però l’Haggadah di Pesach: quattro tipi di figli e
quattro modi di raccontare l’uscita dall’Egitto e di spiegare le regole
del seder. E gli obiettivi didattici? Cosa ci aspettiamo dai figli? Che
rafforzino la loro identità ebraica? Che siano in grado di organizzare
un seder a loro volta quando saranno adulti? Che conoscano la storia?
Che trascorrano una festa piacevole? Che riflettano? Che diventino più
liberi? Sicuramente tutto questo e molto altro, ma l’Haggadah non lo
dice esplicitamente (si suppone che “digrignare i denti” non sia da
considerarsi un obiettivo didattico, ma casomai un prerequisito per
poter raggiungere altri obiettivi); in questo modo sono lasciate ai
figli la libertà e la responsabilità di decidere cosa fare di quello
che è stato loro trasmesso.
A cosa serve studiare la letteratura italiana? Qualcuno si divertirà a
recitare Dante a memoria, qualcuno sentirà rafforzata la propria
identità, qualcuno rifletterà sugli insegnamenti contenuti nei testi,
qualcuno migliorerà le proprie capacità di lettura e scrittura.
Sicuramente è importante che la scuola non trasmetta solo informazioni
ma insegni anche a pensare con la propria testa; d’altra parte, però, è
anche giusto che ciascuno faccia della propria testa l’uso che
preferisce.
Anna
Segre, insegnante
|
notizieflash |
|
rassegna
stampa |
Le scuse di Sarkozy al Crif
|
|
Leggi la rassegna |
Dopo la gaffe al vertice del G20 a Cannes, il presidente francese
Nicolas Sarkozy ha parlato di un "malinteso" riferendosi al fuorionda
nel quale definiva Benjamin Netanyahu un bugiardo. In un
incontro con alcuni leader ebraici del CRIF (l’organizzazione che
riunisce le comunità ebraiche francesi), Sarkozy ha spiegato che le
sue parole sono state tolte dal contesto. “Il presidente ha
riaffermato la sua amicizia e il supporto per lo Stato di Israele fin
dall'inizio della nostra conversazione – hanno riferito alla stampa
alcuni esponenti del Crif - Voleva ricordarci che nel corso della sua
carriera politica ha sempre dimostrato un profondo attaccamento a
Israele”.
|
|
|
|
|
torna su ˄
|
è il giornale dell'ebraismo
italiano |
|
|
|
Dafdaf
è il giornale ebraico
per bambini |
|
L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono
rivolgersi all'indirizzo mailto:mailto:desk@ucei.it
Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: mailto:mailto:desk@ucei.it
indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. © UCEI -
Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo
aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione
informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale
di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.
|
|
|