se non visualizzi correttamente questo messaggio, fai  click qui

27 Novembre 2011 - 1 Kislev 5772
linea
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
 
alef/tav
linea
Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

Molti commentatori, anche sulla base dell'amore che Isacco aveva per lui, ritengono che Esaù fosse potenzialmente un grande uomo; il Chidà, addirittura, ritiene che fosse mille volte più grande di Giacobbe. Quando studiava Torah insieme a suo fratello, però, il suo pensiero era sempre rivolto ai campi e alla caccia. Questo lieve confine, dice rabbi Yerucham di Mir, rappresenta la abissale differenza tra i due gemelli.


David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Un gruppo umano se ha al proprio interno conflitti culturali, che non necessariamente coincidono con conflitti per il potere, allora ha più di qualche chance per pensare di avere un futuro. Di solito è un indicatore da non disprezzare. Non è solo il numero a consentire o meno che si apra quel confronto. Anche la curiosità, ci deve mettere del suo. Penso di sapere, senza presunzione, quale sia una possibile obiezione: senza mantenere, innovare rischia di essere solo un’operazione distruttiva. C’è del vero anche in questo. Ma negli ultimi cinquanta anni molte cose sono cambiate nel mondo ebraico italiano (a voler essere precisi si potrebbe dire almeno negli ultimi cento anni, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo). Non era anche quella un’operazione condotta in nome della necessità di una rottura? Ovvero della necessità che diverse e nuove forme della riflessione entrassero nel sapere diffuso? Ed era un’operazione di potere o nasceva prima di tutto dal percepire che un ciclo culturale mostrava i segni di usura e occorreva innovare? Credo che la seconda caratteristica fosse vera, o almeno prevalente.  E innovare in quel caso significava immettere nuovi testi, far circolare nuove voci, creare nuove opportunità di scambio e di confronto. In breve allargare e costruire reti e luoghi. Dietro, ogni volta c’erano anche l’affanno e l’ansia per il domani. Ma c’era anche la consapevolezza che solo andando oltre si poteva provare a essere nel mondo. Non è solo un problema degli ebrei, e non è solo un problema che riguarda le minoranze.

torna su ˄
davar
Mosè il partigiano, una grande storia di Resistenza 
Anna FoaIl manoscritto che viene alla luce — nel libro Mosè Di Segni medico partigiano. Memorie di un protagonista della Guerra di Liberazione (1943-1944), a cura di Luca Maria Cristini (San Severino Marche, Edizioni della Riserva naturale regionale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito, 2011 ) — accompagnato dai contributi di studiosi e famigliari, dopo essere rimasto sepolto per decenni negli archivi di famiglia, è il diario di dieci mesi di guerra partigiana condotta dal Battaglione Mario, appartenente alle Brigate Garibaldi, nella zona di San Severino Marche. Il suo autore, Mosè Di Segni, è un medico ebreo romano, rifugiatosi con la famiglia a Serripola, una frazione di San Severino Marche, in una casa del farmacista del posto, Giulio Strampelli, e subito arruolatosi nella brigata partigiana che operava nella zona, una brigata garibaldina guidata da Mario Depangher.
Il testo è quindi un documento importante non solo per ricostruire le vicende di quel frammento di guerra partigiana, ma anche per ricostruire la storia della partecipazione ebraica alla Resistenza, una storia ancora poco conosciuta e che solo recentemente comincia a diventare oggetto di ricerche e riflessioni da parte degli storici. Mosè Di Segni aveva all’epoca due figli bambini, Frida ed Elio. Un terzo nascerà dopo la guerra, Riccardo, l’attuale rabbino capo di Roma. Ai tre figli di Mosè, Elio, che fa il cardiologo in Israele, Frida, scrittrice, e appunto Riccardo, il Comune di San Severino Marche ha voluto recentemente conferire la cittadinanza onoraria.
Perché la storia di Mosè Di Segni, che ha trovato protezione e salvezza a San Severino ma ha anche dato in cambio la sua preziosa opera di medico e quella di combattente per la libertà, è in realtà quella di un intenso scambio reciproco fra i rifugiati ebrei e gli abitanti di Serripola.
Mosè Di Segni, nato a Roma nel 1903 e morto precocemente nel 1969, era una figura certo non banale. Durante i suoi studi di medicina a Roma, per mantenersi lavorò come cronista giudiziario per «Il Giornale d’Italia». Frequentò da giovane a Roma il circolo sionista Avodà, creato da Enzo Sereni. A Firenze, dove si specializzò in pediatria, frequentò i gruppi sionisti fiorentini, fondati dal rabbino Margulies all’insegna della rinascita di un ebraismo integrale. Qui conobbe colei che sarebbe divenuta sua moglie, e che vi studiava farmacia, Pina Dascali Roth, figlia del rabbino capo ashkenazita di Russe, in Bulgaria, un centro importante della cultura ebraica orientale, città di nascita di Elias Canetti.
Mosè Di Segni fu anche molto legato a David Prato, rabbino capo di Roma dal 1936 al 1938, poi cacciato come sionista e antifascista. Sionista e antifascista egli stesso, era quindi visto con sospetto dal regime, tanto che fu messo sotto sorveglianza dalla polizia segreta fascista. Nel 1936, da coscritto e non da volontario, fu inviato in Spagna come medico militare, ma nel 1938 in seguito alle leggi razziste fu radiato dall’esercito, oltre ad essere licenziato dall’Ospedale Spallanzani dove prestava la sua opera. Consigliere della Comunità romana, fu nel settembre 1943 fra quanti si adoperarono a convincere la Comunità della necessità di spingere gli ebrei romani a nascondersi.
Alla fine di settembre, avvisato da un amico che il suo nome era nella lista degli ostaggi destinati alla deportazione, si rifugiò con la famiglia a Serripola. Erano partiti precipitosamente, senza nulla, tanto che sua moglie tornò il 15 ottobre a Roma a prendere qualcosa dalla loro casa. «Capì — scrive il figlio Elio nel volume — il pericolo incombente», e non si fermò quindi a dormire a casa in quella notte tra il 15 e il 16 ottobre in cui si sarebbe svolta la razzia nazista.
A Serripola, il capofamiglia entrò subito nella colonna partigiana appena formata a svolgervi la sua attività di medico ma anche, in alcune emergenze, di combattente (e per una di queste occasioni sarà insignito nel 1948 di medaglia d’argento al valor militare). Una scelta anomala, direi, da parte di un uomo già maturo, con una famiglia da proteggere in una situazione di grande precarietà e rischio.
A Serripola, la famiglia Di Segni fu protetta e aiutata. Una rete di complicità consentì loro di sfuggire ai rastrellamenti fascisti e nazisti, nascondendosi ora dall’uno ora dall’altro quando il pericolo si faceva imminente. Fin dall’inizio, la loro accoglienza era stata facilitata dall’opera del parroco del luogo, che dal pulpito aveva esortato i fedeli ad accogliere questi rifugiati senza far domande, senza chieder loro perché non frequentavano la chiesa. A sua volta, Di Segni si impegnò intensamente a curare, oltre ai partigiani, anche gli abitanti di Serripola, che lo ripagarono di affetto e riconoscenza, sentimenti di cui resta tuttora memoria. Lo ricorda l’attuale arcivescovo di Ancona e Osimo, Edoardo Menichelli, allora uno dei bambini con cui i piccoli Di Segni giocavano.
Leggendo il memoriale scritto da Mosè Di Segni, si resta colpiti dalla sua forte identificazione con la Patria italiana, per cui il battaglione combatte. È un diario di guerra, in cui non c’è nulla che possa far comprendere che a scriverlo era un perseguitato razziale, un ebreo. Nulla nemmeno sulle motivazioni che lo hanno spinto a entrare nella Resistenza armata, quasi si trattasse di una scelta naturale, inevitabile. Sionista, perseguitato come ebreo, Di Segni non ha alcun dubbio sul fatto di essere sempre e comunque un italiano che si batte per liberare la sua patria, l’Italia, dall’occupazione nazista. Ed è anche questo un tassello significativo di questa storia della partecipazione ebraica alla Resistenza, ancora in gran parte da scrivere.

Anna Foa – (l'Osservatore romano – 27 novembre 2011)

torna su ˄
pilpul
Davar acher - L'unico vero problema
Ugo VolliLo "tsunami diplomatico" su Israele, preconizzato da molti per l'autunno, si è risolto per il momento in poca cosa. Lo status palestinese all'Onu non è stato elevato, soprattutto per l'insipienza o piuttosto l'estremismo diplomatico dell'Autorità Palestinese, che ha presunto troppo delle proprie forze e ha scommesso sul tutto-o-niente chiedendo il pieno riconoscimento come Stato sovrano membro e rifiutando qualunque soluzione di compromesso. L'ammissione all'Unesco si è rivelata una vittoria di Pirro per l'organizzazione e in fondo anche per l'Anp, che ha scontentato ancora una volta quella che si presumeva poter essere la sua grande protettrice, l'amministrazione Obama. Le numerose minacce turche sono rimaste per ora sulla carta. I rapporti con l'Egitto sono gelidi (o se si vuole incandescenti, visto che il gasdotto, il principale legame economico fra i due paesi è stato fatto saltare in aria da terroristi otto volte quest'anno), ma non sono degenerati in scontro aperto. Grazie alla gestione oculata e lucida di Netanyahu Israele sembra essere uscito per ora senza danni dall'anno del grande trambusto in Medio Oriente.
Certo però la minaccia iraniana è sempre più attuale e la comunità internazionale non può e in buona parte non vuole farvi fronte. E il calderone dei paesi arabi continua a ribollire, ambiguamente alimentato dall'Occidente, anche se è sempre più chiaro che ciò che vi si cuoce è un integralismo islamico che di moderato ha solo il nome. Per l'Occidente la minaccia è globale, ma sembra lontana; per Israele è chiaro invece che il fronte dell'odio militante sta conquistando uno per uno anche paesi che ne erano rimasti abbastanza al riparo, come Tunisia e Marocco, ed erodendo tutte le possibilità di mediazione politica. L'aspetto più preoccupante è il riemergere dell'anima revanscista della politica palestinese, la stessa che portò alle convulsioni suicide e omicide chiamate "intifade", cioè letteralmente "scrolloni": accessi di odio e di intolleranza quasi animale, come denuncia anche il nome. In tutto il mondo islamico le politiche e i sondaggi dicono lo stesso: che, costi quel che costi, non vi è la minima disponibilità ad accettare uno Stato del popolo ebraico. Le tattiche sono diverse e possono includere anche dei momenti di trattativa, o piuttosto la loro simulazione o negazione, ma la "soluzione finale" è la stessa, l'eliminazione degli "ebrei" (la distinzione fra israeliani ed ebrei, coltivata dalla pubblicistica occidentale anche di parte ebraica, è sostanzialmente ignorata nel mondo islamico).
E' una situazione che richiede una guida abile e lucida, come quella dell'attuale governo israeliano, ma che impone anche una riflessione anche a tutto il mondo ebraico. Le illusioni di Oslo vanno lasciate cadere, non esiste, fuori dal mondo dei puri desideri, la possibilità di una pace nel breve ma anche nel medio periodo. E' possibile che presto scoppi una guerra, per mano di Hezbollah, di Hamas, per via del nucleare iraniano o per altre ragioni; è anche possibile che le cose vadano avanti come ora, con una situazione che bisogna definire guerra d'attrito. E' un conflitto continuo a bassa intensità che si svolge su molti fronti: il terrorismo dei razzi da Gaza, delle infiltrazioni, degli attentati "locali" in Giudea, Samaria e a Gerusalemme, come ce ne sono stati tanti e poco considerati negli ultimi mesi; la guerra diplomatica, quella dei media, quella delle occasioni artificiali di scontro mediatico come "flottiglie" e marce; le minacce continue di potenze islamiche come Iran e Turchia, eccetera. Quel che oggi non appare proprio possibile è un allentarsi della tensione, quel franco riconoscimento del diritto all'esistenza di Israele come Stato del popolo ebraico che è la premessa necessaria della pace.
Guerra o mezza guerra, insomma, per tutto il tempo che possiamo umanamente prevedere o calcolare. La pace non è oggi nell'ordine delle possibilità reale, è una parola che ha solo referenza propagandistica. Quel che accade e che si può prevedere è la continuazione di un braccio di ferro in cui l'elemento decisivo è la capacità di resistere di fronte a una potenza soverchiante, sul piano dei numeri, se non ancora dell'armamento, ma anche dell'opinione pubblica e della comunicazione. Questi ultimi fronti toccano direttamente anche noi, ebrei della diaspora: siamo e saremo capaci di reggere questa situazione, di fare la nostra parte per scongiurare la distruzione del nostro Stato e di buona parte del nostro popolo? E prima di tutto: siamo abbastanza lucidi da renderci conto che questo è il problema, l'unico grande vero problema della nostra generazione ebraica?

Ugo Volli

torna su ˄
notizieflash   rassegna stampa
Governo Netanyahu: "Rinconciliazione tra Anp e Hamas allontana la pace"   Leggi la rassegna
"Ogni avvicinamento fra l'Anp di Abu Mazen e Hamas allontana ulteriormente la pace con Israele”. Questa la linea del governo israeliano affermata al termine di una consultazione ministeriale svoltasi nella notte e convocata a seguito dell’incontro al Cairo tra il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen il leader politico di Hamas Khaled Meshaal.
 
















 
linee
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it  Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. © UCEI - Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.