Un
periodo di studi all’estero, per darsi una preparazione adeguata alle
sfide del mondo contemporaneo e confrontarsi con gli stimoli che
vengono dal vivere in una cultura e in una società diverse dalla
nostra, un argomento importante cui il numero di Pagine Ebraiche di
gennaio, attualmente in distribuzione, dedica un ampio
dossier realizzato da Daniela Gross e Daniel Reichel. Un viaggio
che attraverso il racconto dell’esperienza di chi ha vissuto in
prima persona, in qualità di docente o di studente, uno o più anni di
studio all’estero aiuta a capire un’esperienza complessa e talvolta
difficile che segna però sempre una pietra miliare nel proprio percorso
di vita. La scelta di puntare su un’università straniera (se non
per conseguire la laurea per seguire un corso o un ciclo di
approfondimento) è sempre stata una tradizione piuttosto diffusa nel
mondo ebraico italiano, i cui figli spesso parlano fin dall’infanzia
più di una lingua. E il desiderio di fare i conti con le radici
identitarie, di realizzare un’idealità sionista e di vivere una vita
pienamente ebraica ha di frequente indirizzato i ragazzi verso Israele
o, in Europa e negli Stati Uniti, verso realtà capaci di coniugare un
buon livello accademico all’ebraismo. Oggi, alla luce della crisi
economica che percorre l’Occidente, un progetto di studi di caratura
internazionale appare uno strumento quanto mai prezioso per costruire
il proprio futuro. “Da qui – spiega Claudia De Benedetti,
vicepresidente dell’Unione delle Comunità ebraiche Italiane - la
decisione dell’UCEI di dare vita a un portale, on line da metà gennaio,
che proponga tutte le possibili informazioni e i contatti delle
università israeliane così da facilitare i ragazzi che intendono fare
questo passo”. In parallelo, lo sviluppo di ulteriori attività
strategiche per rendere percorribili, anche dal punto di vista
burocratico, gli studi in Israele. Senza perciò trascurare i contatti e
le collaborazioni tra gli atenei italiani e quelli israeliani.
Il mio sogno Usa
Puoi
combattere per i tuoi sogni. Puoi fare pressione, puoi pregare, puoi
dare il massimo. Ma puoi solo immaginare cosa significhi vederli
avverarsi, dopo tanti anni di lotte, così, davanti ai tuoi occhi. È in
questo modo che mi sono sentito nell’istante in cui ho messo piede
fuori dal Logan Airport di Boston, Massachusetts; avevo programmato
quel momento per giorni, settimane, mesi. Me l’ero figurato in tutti i
modi, ma – mentre spingevo il mio carrello con le valigie e respiravo
l’aria fresca dopo un lungo volo – riuscì comunque a sorprendermi. Vengo
da Torino, dove per anni mi sono ostinato a mettere colori su una tela
che non era in grado di assorbirli, così ad un certo punto mi sono
arreso e ho deciso di spiccare il volo. Ed eccomi a un passo da una
nuova vita, Boston, negli Stati Uniti – il sogno che condivido con
innumerevoli altri coetanei italiani. Io e il mio carrello. Pieno
di eccitazione, impaziente di andare avanti e non guardarmi più
indietro, ma allo stesso tempo esitante, delicato; meglio non bere
tutto insieme, meglio sorseggiare. Inutile dire che mi è stato
impossibile: una volta prese le mie enormi valigie e lasciato lì il
carrello – che per qualche minuto mi aveva tenuto stretto al limbo che
rappresentano gli aeroporti – mi sono tuffato in un turbinio tutto
nuovo di colori, voci, risate. Un turbinio di vita. Ad
aspettarmi, in questa grande avventura, c’era la Maimonides School, una
delle più prestigiose istituzioni scolastiche classificate Modern
Orthodox nel Massachusetts, fondata nel 1937 dal rav dott.
Soloveitchik, z.l. Qui le lezioni di chol (studi secolari) e kodesh
(studi religiosi) si susseguono sparse nell’orario settimanale, non c’è
una vera e propria distinzione: sono solo diverse facce dello stesso
stile di vita. Inoltre, ragazze e ragazzi frequentano i corsi insieme e
non esiste nessun tipo di studio o materia ai quali le prime non siano
ammesse. Si legge Shakespeare, si approfondisce la storia
americana ma anche quella ebraica; si studiano matematica e fisica, ci
s’immerge nelle discussioni talmudiche e nei commenti al Tanakh; si
seguono corsi sui profeti, sulle tradizioni e i significati che
impregnano le tefilloth, e soprattutto si impara l’ebraico moderno. La
tipica mentalità americana, così frenetica e competitiva, si amalgama
con quella ebraica, più pacifica e propensa ad avere come obiettivo
l’imparare e non il vincere, per un risultato eccezionalmente
variegato. Gli studenti italiani, che danno ormai da cinque anni un
tocco internazionale alla scuola, sono trattati come beniamini con cui
scoprire una nuova cultura e allo stesso tempo dare sfoggio della
propria: la Maimonides ha finora ospitato soprattutto studenti da Roma,
ma anche da Milano e Torino. Quest’anno, inoltre, sono almeno cinque i
giovani iscritti a Comunità ebraiche italiane che stanno trascorrendo
un anno, o solo qualche mese, in licei americani: tra questi, oltre la
Maimonides di Boston, ci sono la S.A.R. di Riverdale (New York),
celebre per essere una scuola “senza muri” e la Northwest Yeshiva High
School di Seattle. Io vivo a Newton, a venti minuti di macchina dalla
scuola. Qui la vita sociale è attivissima e ruota intorno alla comunità
ebraica Shaarei Tefillà, che si mostra accogliente e dinamica in tutti
i suoi aspetti – a partire dall’architettura della sinagoga, per non
parlare delle numerose attività che si svolgono durante la settimana.
Tra nascite, bar mitzvah e matrimoni, quasi ogni Shabbat la tefillah
della mattina viene trasformata in una grande festa. Dietro l’angolo,
si trova l’ufficio dell’NCSY, la storica organizzazione dell’Orthodox
Union dedicata ai giovani. Attraversata la strada, c’è Beth El, l’altro
tempio più frequentato, che offre il Teen Minyan, la funzione del
sabato gestita interamente dai ragazzi. E questo è solo un assaggio: il
piatto forte arriva con Brookline e la sua Harvard Street, l’area
ebraica con librerie, gelaterie, ristoranti, centri sociali e
macellerie. Mi sono trovato nel giro di poche settimane a far parte di
un mondo completamente diverso. Un mondo in cui l’ebraismo non è la
religione che selezioniamo sul nostro profilo di Facebook, bensì uno
stile di vita in costante movimento. Entri nei negozi e
condividi la tua storia, pronto ad ascoltare quella degli altri: c’è
chi viene dalla Russia, chi dal Messico, chi da Israele alla ricerca di
una realtà più “occidentale”. Tutti conservano con gelosia il loro
passato, ma allo stesso tempo sarebbero pronti a tirare fuori le unghie
per difendere questo nuovo mondo che, in parte, si sono costruiti pure
loro con le loro mani, rafforzate dalla potenza della loro stessa
volontà. Poi, inevitabile, lo scontro con una società
completamente diversa, alla quale sai già in partenza di dover cedere.
Io, abituato alla mentalità italiana, la filosofia del “c’è tempo, c’è
tempo”, sono rimasto piuttosto stupito dagli studenti americani, che a
sedici anni danno gli esami SAT – i quali disegnano l’intera carriera
universitaria e professionale di una vita; a diciassette si iscrivono
ai college che vorrebbero frequentare; a diciotto si diplomano e
partono per un anno in Israele, durante il quale alcuni studiano in
Yeshivah, altri svolgono servizio civile, altri ancora si iscrivono a
corsi universitari; e infine, a diciannove, si lasciano alle spalle la
casa di mamma e papà e la teenage- hood che ha segnato gli anni del
liceo alla volta dell’università. Io certo non mi sono lasciato
intimidire. Nel giro di poche settimane sono entrato nella redazione
del giornale d’istituto Spectrum, sono diventato parte dei
collaboratori del dietro le quinte nello spettacolo di fine anno, ma
soprattutto ho dato vita al nuovo programma di JewBox, la web radio dei
giovani ebrei milanesi. Il mio spazio è intitolato Boston Tea Party ed
è una sorta di diario radiofonico condito dalla musica pop tipicamente
yankee. Le cicatrici restano, i dubbi pure, le domande sul futuro:
restare o non restare? Eppure, sarò sincero, non c’è il tempo per
crearsi troppi problemi. Il mio carrello è probabilmente ancora lì,
nell’aeroporto, ma sono fiero di poter dire che l’ho lasciato a nuove
mani, nuove storie. Nella mia nuova vita non c'è spazio per
l'esitazione. Ora che sono il vero protagonista non lascerei il posto a
nessun altro; il palco è mio e lo gestisco a modo mio – lanciandomi.
Simone Somekh, Pagine Ebraiche, gennaio 2011
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David
Cassuto, il nostro nonno, e Gnora Luna
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La
commediola La Gnora Luna, andata in scena recetemente a Firenze e di
cui si riferiva negli scorsi giorni su l'Unione informa, è
stata
scritta dai figli di Moshe David Cassuto (Bene` Kedem). Con l'aiuto del
loro padre, l'insigne Maestro Umberto Moshe David Cassuto. Questa
notizia è sicurissima perche ci fu raccontata dal "Maestro" stesso
nostro nonno a noi nipoti quando eravamo piccoli.
Cassuto era un
notissimo storico dell'ebraismo Italiano e in piu un dotatissimo
filologo sia della lingua italiana che della lingua ebraica e ancor
piu` del dialetto Bagitto usato dagli ebrei toscani.
Nostro nonno
probabilmente temeva che la memoria della realtà del Ghetto vissuta e
sofferta da generazioni di ebrei fiorentini per secoli dovesse
scomparire.
Proprio per questo il nonno Umberto incitò I
figli: Milka, Nathan, Lea e Hulda a scrivere o meglio ricreare
questa commediola (che già esisteva nella memoria popolare fiorentina
come testo antisemita) mirata a risvegliare l'interesse degli ebrei
fiorentini alla loro storia al loro passato e al loro gergo che
rischiava di sparire.
Susanna e
David Cassuto
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L'appetito c'è
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La
stampa riferisce di ricorrenti episodi israeliani di integralismo
religioso nei confronti di abbigliamenti femminili ritenuti poco
decenti, o di abitudini considerate assimilate. Ci si meraviglia che
una testata politicamente schierata a sinistra assimili tali
comportamenti intolleranti a quelli dei talebani, che per fare un
esempio in Afganistan aprirono il fuoco sulle statue di Buddha e le
distrussero in quanto estranee alla fede islamica. È vero che esiste un
pregiudizio anti-ebraico di natura anti-israeliana, ma per quanto il
fanatismo sia estraneo al pensiero e allo spirito ebraico, è difficile
esser certi che in Israele non esista una società religiosa capace di
intolleranza. Alcuni decenni fa, a Gerusalemme erano quasi una
tradizione le sassaiole contro le ambulanze che passavano di Shabbat, e
bisognerà ammetterlo senza far finta che i hassidim siano tutti
violinisti sui tetti. Posto che ebraismo e islamismo più che divisi tra
loro sono tra loro remoti, oggi ci sono fatti espliciti che rendono
assimilabili certi comportamenti di due remote società, dato che fra
gli uomini l'intolleranza è una tragica parentela. Nell'Occidente
permeato di anallfabetismo di ritorno, le religioni non sanno
approfittare dell'assenza di una visione laica e intellettuale di come
stare al mondo - al contrario le religioni sono spesso motori di
divisione tra emisfero ed emisfero, popolo e popolo, quartiere e
quartiere, caseggiato e caseggiato - Persona e Persona. Pare che a
unire il mondo sia rimasta la paura e la certezza che Dio sia solo il
proprio dio, e il dio degli altri un penoso errore. Se le religioni
smarriranno la domanda universale che le ha generate e le rigenera a
ogni generazione, il fatto di vedere l'umanità come progenie, famiglia
di famiglie, segno della moltepèlicità divina e di un progetto
misterioso che ci interroga - se questo svanirà, rimarrà il
cannibalismo. Buon appetito.
Il
Tizio della Sera
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notizieflash |
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rassegna
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Israele
- Memorial day
per il genocidio armeno
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Seguendo la linea francese, il parlamento israeliano, sta avanzando una
proposta di legge per l'istituzione di una giornata in memoria del
genocidio degli armeni da parte dell'Impero Ottomano, durante la Prima
Guerra Mondiale. Il dibattito è stato promosso da due deputati
dell'opposizione. Il Parlamento di Tel Aviv aveva già bocciato una
proposta simile nel 2007, quando i rapporti di amicizia con la Turchia
erano molto stretti.
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L'Unione
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