Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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In Israele non è stato
istituito il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, ma vi sono due date
in cui si ricorda la Shoah. Una è, appunto, il Giorno della Shoah, in
primavera una settimana prima della festa di Indipendenza (Yom
Ha'atzmaut). L'altra è il 10 del mese ebraico di Tevèt, che ricorre
oggi. Il 10 Tevèt dicono il Kaddísh (la preghiera per i defunti) le
persone i cui parenti sono morti nella Shoah in data ignota. Il 10
Tevèt è anche giorno di digiuno perché è la data in cui nell'anno 588
a.C. il re Nabuccodonosòr iniziò l'assedio a Gerusalemme che si sarebbe
concluso un anno e mezzo dopo con la distruzione della città e del
Primo Tempio, e con l'esilio in Babilonia degli abitanti del Regno di
Giudea. Questa settimana la Shoah ci è stata rammentata nell'immagine
di un bambino ebreo con un baschetto, la stella gialla sul petto con la
scritta Jude, le mani alzate, e gli occhi imploranti. La fotografia,
scattata in Israele, ne imita una più celebre della seconda guerra
mondiale. Nell'immagine originale, scattata a Varsavia, dietro al bimbo
si vedono dei soldati tedeschi con le arme spianate e decine di uomini
e donne che marciano speditamente verso il campo di sterminio. Nel
moderno rifacimento, dietro al bimbo impaurito, una decina di
giovinastri, alcuni dei quali con dei camicioni a righe a imitazione
degli abiti degli internati nei campi. Questi giovinastri,
presumibilmente studenti di accademie religiose, ridono. Ridono della
brillante idea che hanno avuto di equiparare lo Stato d'Israele e le
sue leggi civiche al regime nazista e alla Shoah. Davvero una
esilarante e raffinata parodia. Nella retorica politica corrente si usa
parlare della contrapposizione fra hiloním e haredím – i "laici" e gli
"ultra-religiosi". Nell'immagine di questa settimana la religione non
c'entra proprio. Lo spartiacque è fra chi studia la storia degli ebrei
e ne apprende le lezioni (fra cui quella dell'assedio e dell'esilio), e
chi nel proprio sistema educativo rifiuta di includere le cosiddette
materie di base, e in primo luogo la storia ebraica, oltre naturalmente
alla matematica e all'inglese. Fra chi impunemente vilipende la Shoah e
il popolo ebraico, e chi non lo fa. Fra chi aderisce al concetto di
mutua solidarietà di Clal Israel (la comunione di Israele), e chi lo
rigetta. Notiamo che i giovinastri ridanciani della foto della
settimana, se hanno votato alle ultime elezioni israeliane, lo hanno
fatto per partiti politici che oggi fanno parte della coalizione
governativa, non dell'opposizione.
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Il
presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna
e il presidente della Comunità ebraica di Torino Beppe Segre hanno
dichiarato congiuntamente:
La sfida quotidiana di
tramandare il senso più autentico della Memoria, di analizzare i
meccanismi dell'odio predisposti da uomini contro uomini affinché essi
non abbiano più a ripetersi, passa necessariamente dalle aule delle
nostre scuole. La formazione dei giovani, dei cittadini del domani, è
un punto essenziale in questo costante lavoro di decodificazione,
rielaborazione e costruzione di una società consapevole, inclusiva e
immune al morbo sempre strisciante del razzismo. Desta quindi molta
preoccupazione il fatto che un docente di un noto liceo classico
torinese utilizzi il mondo dei social network, nello specifico
Facebook, per pubblicare materiale fotografico di chiaro stampo
neonazista e indirizzare inequivocabili minacce verso ebrei,
omosessuali, disabili e immigrati. Il professor Renato Pallavidini, già
assurto al disonore delle cronache nazionali per alcune affermazioni
antisemite che nel 2007 gli valsero una sospensione di due settimane
dal proprio incarico, insegna storia e filosofia. Due materie centrali
nel percorso di apprendimento degli studenti, un compito delicatissimo
che risulta palesemente inadeguato in considerazione dai folli
propositi più volti espressi dal docente. Commentando su Facebook una
foto in cui Hitler e Mussolini si stringono la mano, Pallavidini
scrive: “Se mi togliete questa foto, vado con la mia pistola, alla
sinagoga vicinissima a casa mia e stendo un po' di parassiti ebrei che
la frequentano. Vi conviene stuzzicare il can che dorme?". Esprimere
con forza la condanna e il biasimo degli ebrei torinesi e italiani è
quasi pleonastico tanta è l'infamia, l'aggressività e la violenza
verbale vomitata nella rete da questo presunto “maestro di vita”.
L'auspicio è che d'ora in poi tale individuo, oltre a subire un
regolare processo che ne accerti le responsabilità, sia finalmente
messo in condizione di non poter più nuocere ai giovani, né all’interno
di una qualsiasi aula italiana né sulla rete.
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Il silenzio responsabile
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Per te il silenzio è lode (Sal. 65, 2) “Così
dice il S.. Una voce si ode a Ramà, un lamento, un pianto amaro. È
Rachel che piange per i suoi figli. Rifiuta di consolarsi per i suoi
figli che non sono più. Trattieni la tua voce dal pianto e i tuoi occhi
dalle lacrime, poiché c’è una ricompensa per la tua azione – dice il S.
– e torneranno dalla terra del nemico. E c’è una speranza per il tuo
avvenire – dice il S. – e i figli torneranno al loro territorio” (Ger.
31, 14-16). Era il 10 Tevet 588 a.e.v. Nabucodonosor cingeva
d’assedio Gerusalemme e si apprestava a deportarne gli abitanti in
Babilonia. Il Midrash racconta che in una tumultuosa seduta del
Tribunale Celeste i tre Patriarchi e le Matriarche tentarono, uno dopo
l’altro, di fermare il decreto Divino per la colpa di idolatria, ma
invano. Si levò a quel punto la voce della Matriarca Rachele dalla sua
tomba isolata, lungo la via dell’esilio. “È più grande la misericordia
di D. o quella dell’uomo? Ricorda la sera in cui fu celebrato il
matrimonio del mio promesso sposo Giacobbe con mia sorella Lea.
Giacobbe aveva lavorato per me sette anni. Sarei dovuta trovarmi io
sotto il baldacchino nuziale, ma preferii tacere. Non solo. Temendo gli
inganni di mio padre Labano, con Giacobbe avevo concordato una parola
d’ordine che egli mi avrebbe chiesto di pronunciare per accertare la
mia identità al momento opportuno e smascherare un eventuale trucco. Ma
all’ultimo momento pensai alla dignità di mia sorella: quale imbarazzo
le sarebbe venuto se alla richiesta di Giacobbe non avesse saputo cosa
rispondere? Così pochi istanti prima della cerimonia le confidai la
parola d’ordine ed essa si tutelò. Ora che io ho ammesso un’altra al
mio posto in silenzio, anche Tu taci e tollera in silenzio! (Radaq ad
loc.)”. La risposta Divina non si fece attendere: “Non piangere.
Questa tua eccezionale buona azione sarà ricompensata. L’esilio sarà
solo un fatto temporaneo: i tuoi figli non sono destinati a scomparire,
ma torneranno alla loro terra. Per merito del tuo silenzio e della tua
sensibilità il popolo ebraico avrà un futuro”. I nostri Maestri
affermano che “Rachele ha fatto del silenzio la sua professione”
(Rachel tafessah be-felekh shetiqah: cfr. R. Bachiè a Gen. 29,28; B.R.
71,5; Tanchumà Wayetzè 6; Meghillah 13b) e portano almeno tre episodi
analoghi relativi ai suoi discendenti. Suo figlio Beniamino
tacque al padre Giacobbe la vendita del fratello Giuseppe. Benché non
fosse presente all’atto, perché suo padre non lo mandava fuori casa
assieme agli altri, era certamente al corrente del fatto. Quando molto
più tardi in Egitto il “vicere” lo vide ormai cresciuto e padre a sua
volta di numerosi figli, domandò a Beniamino come si chiamassero.
Beniamino spiegò che aveva dato a ciascuno di loro un nome che gli
ricordasse il fratello venduto (Rashì a Gen. 43,30). Fu allora che,
preso dalla commozione, Giuseppe decise che si sarebbe rivelato ai suoi
fratelli. Ma Giacobbe non venne mai a sapere dell’accaduto. Se ciò si
fosse verificato, la condanna che avrebbe espresso nei confronti dei
figli sarebbe stata tale da impedire qualsiasi avvenire alla sua
discendenza (R. Bachiè a Gen. 37,33). Anche il silenzio di Beniamino fu
decisivo nel “rimediare” un rapporto contrastato fra fratelli e salvò
il popolo ebraico. Saul, della tribù di Beniamino, tacque della sua
nomina a re, finché non fu Samuele a renderla nota pubblicamente (1Sam.
10,16). Ester, infine, che di Saul era discendente, tenne a sua volta
nascosta la propria identità (2,20) e in questo modo salvò il popolo
ebraico dall’ennesima minaccia di sparizione all’epoca di Haman e
Assuero. In un mondo sempre più assordante e roboante, il
silenzio di Rachele suona sempre più solitario. Allorché pare dominarci
il frastuono delle parole, che sembrano essere decisive di tutto e su
tutto, ci viene da domandarci se non sia invece assai più
raccomandabile tenere un “profilo basso”. Del resto, è questa una
caratteristica del Santo Benedetto. È quanto Egli stesso rivelò al
Profeta Elia braccato da Izevel e per questo rifugiatosi nella grotta:
“Esci, fermati sul monte davanti al S.;... dopo il chiasso un fuoco, ma
non nel fuoco è il S. E dopo il fuoco una voce sottile, quasi silenzio”
(1Re 19, 11-12). La parola talvolta divide; il silenzio responsabile
(da non confondersi con l’ignavia, o con l’omertà) potrebbe essere un
prezioso strumento di fratellanza: presupposto indispensabile a sua
volta perché possiamo avere un futuro.
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche gennaio 2012
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