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10 gennaio 2012 - 15 Tevet 5772 |
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Roberto
Della Rocca,
rabbino
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La
formula con cui Yaaqòv benedice i suoi nipoti, Efraim e
Menashè, diviene il modello di berakhah con cui ogni ebreo
dovrà trasmettere ai suoi discendenti la Tradizione ricevuta dai nonni
(Bereshìt, 48, 20). Nonno Yaaqòv augura ai suoi nipoti di
“…moltiplicare nella terra come pesci…” (Bereshìt, 48; 16). I pesci
sono particolarmente prolifici e vivono al riparo dal malocchio perché
non esposti allo sguardo degli uomini in terra ferma. In
verità non risulta da nessuna parte che le tribù di Efraim e Menashè
fossero più numerose delle altre. Il Chatàm Sofèr interpreta questa
benedizione come la metafora della paradossale e soprannaturale
esistenza del popolo ebraico. Così come i pesci non potrebbero vivere “nella terra", fuori dall’acqua, riesce difficile pensare,
razionalmente, a una vita ebraica in condizioni
difficili e ostili dove si rischia di essere inghiottiti da pesci più
grossi o, in alternativa, di finire in bella mostra dentro a un
bell’acquario.
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Dario
Calimani,
anglista
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Israele
continua a porci di fronte a interrogativi disturbanti. Francesco
Lucrezi commenta una mia nota affermando che Israele ha molti
avversari, spesso per cause indipendenti dalla sua politica, e ha
quindi bisogno assoluto di essere difeso. E ha ragione. Devo dunque
chiudere gli occhi di fronte a quello che vedo e che sento? È questo il
modo migliore di difendere la causa di Israele? E su queste premesse è
possibile stabilire un dialogo? Capita a volte di sentirsi
'diversamente umani' solo perché si crede nella giustizia sociale,
nell'equità fiscale, nel dovere di ciascuno - individui e istituzioni,
senza distinzione -, di rispondere delle proprie azioni e delle proprie
menzogne, in Italia o in Israele. Talora, di fronte a certi dibattiti,
si è colti da un dubbio: se si contesta una politica di destra in
Italia, e magari anche in Israele, si è per questo ebrei meno sensibili
alla causa di Israele? E quale giudice potrà assolvere da questa
‘colpa’? E se i miei dubbi etici nei riguardi delle nostre
alleanze con la destra in Italia o nei riguardi del comportamento di
Israele vengono poi strumentalizzati dagli antisemiti e dai nemici
pregiudiziali di Israele, dovrò sentirmi colpevole per aver espresso
un’eccessiva sensibilità etica? Questa, naturalmente, non è una
risposta implicita all’interrogativo, come qualcuno sarà tentato di
intendere, è semplicemente un ulteriore interrogativo lacerante, che si
auspica nessuno sia tentato di strumentalizzare. Mi si dice che come
ebreo italiano ho il dovere di sostenere Israele a tutti i costi. Anche
le azioni dei coloni? Anche la discriminazione delle donne ad opera
degli integralisti religiosi? E intanto Sandro Di Castro, israeliano di
Haifa, si chiede su Moked perché il rabbinato italiano non dica la sua
su quanto sta accadendo in Israele.
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Qui Roma - 72 pietre
per ricordare
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Continua a Roma
l’installazione delle stolpersteine, le pietre d’inciampo ideate
dall’artista tedesco Gunter Demnig per essere poste nei luoghi dove
l’attraversamento di un portone significò, per decine di migliaia di
persone in tutta Europa (ad oggi si contano circa 33mila
stolpersteine), la deportazione verso i lager, l’assassinio a sangue
freddo, il plotone di esecuzione. È il terzo anno consecutivo che
questo innovativo e apprezzato lavoro sulla Memoria, coordinato dalla
storica dell’arte Adachiara Zevi, arriva sui marciapiedi della
Capitale. La terza edizione prevede la messa a dimora di 72
sampietrini. Il primo, ieri mattina, è stato posto di fronte
all’abitazione di don Pietro Pappagallo, sacerdote pugliese vittima
della repressione nazifascista alle Fosse Ardeatine il cui coraggio e
la cui disinteressata opera di nascondimento dei perseguitati “di ogni
fede e condizione”, come recita la targa che lo ricorda in via Urbana,
furono tra gli altri magnificamente resi da Aldo Fabrizi nel film Roma
città aperta.
(Nella foto la pietra
d'inciampo posta questa mattina in ricordo di Amadio Sabato Fatucci in
Lungotevere Sanzio. Alla cerimonia hanno partecipato tra gli altri la
responsabile del progetto Adachiara Zevi, il presidente dell'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, il vicepresidente
Anselmo Calò e il segretario generale Gloria Arbib)
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Wing - Quell'altoparlante che un po' mi manca
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Un gruppo di ragazzi, un
albergo tutto per loro, perso tra le montagne, per una settimana. Una
voce che all’altoparlante scandisce le giornate, segnalando le attività
in programma. La condivisione di molti momenti, cene, partite a carte,
feste. La nascita di nuove amicizie e, talvolta, anche di qualche
amore. No, non si tratta dell’ennesima edizione del Grande Fratello, ma
della Wing (Winter International Gathering), l’annuale vacanza
invernale organizzata da associazioni giovanili ebraiche di vari paesi
europei tra cui l'italiana Ugei. Quest’anno la Wing si è tenuta a San
Sicario, in una struttura nata per ospitare le squadre che hanno
partecipato all’Olimpiade di Torino 2006 e che è stata letteralmente
colonizzata da centinaia di ragazzi da tutto il mondo. Protagonisti
indiscussi racchette e sci, ma non è mancato l’intrattenimento anche
per i meno sportivi, frutto di una macchina organizzativa davvero
impeccabile.
Forse paragonare questo tipo di evento a un reality show può sembrare
un po’ azzardato, anche perché fortunatamente non si viene spiati da
nessuna telecamera, ma sicuramente ne condivide alcuni tratti. In
primis l’isolamento: per sette giorni tutto ruota solo e
soltanto intorno alle circa 250 persone che vi prendono parte. Si viene
risucchiati dal vortice di una nuova routine a dir poco frenetica
all’interno della quale non c’è spazio ma nemmeno bisogno di porsi la
domanda: “Adesso che cosa faccio?”. Partecipare alla Wing è come essere
catapultati in una dimensione parallela, in cui il mondo esterno e la
propria vita quotidiana non penetrano e vengono temporaneamente
dimenticati. C’è un’altra faccia della medaglia, però. Questo
momentaneo distaccamento non soltanto dalla propria realtà individuale,
ma anche in una certa misura dalla realtà nel senso stretto del
termine, genera una sorta di comunanza fra i partecipanti: annulla le
diversità e pone tutti sullo stesso livello. E allora l’età, il proprio
lavoro, i propri studi, non contano quasi più niente. E, se non si
considerano le eventuali difficoltà linguistiche, non conta
praticamente più nemmeno la propria provenienza: si genera quindi
quello che si può definire un piacevolissimo cosmopolitismo. Tutti
uniti semplicemente dal fatto di trovarsi in quella ben precisa
situazione e soprattutto di essere giovani. E anche ebrei,
naturalmente.
Ed è proprio questa la chiave del successo della Wing: la
concentrazione in uno spazio e in un tempo ridottissimi e con un ritmo
tanto intenso quanto regolato di esperienze che, a pensarci
bene, possono essere vissute in qualsiasi altro contesto.
Chiunque infatti può organizzarsi per andare a sciare con gli amici,
ballare per tutta la notte o passare il pomeriggio giocando calcio
balilla o a briscola. Ma queste stesse esperienze non soltanto non
saranno vissute in modo altrettanto intenso, ma soprattutto non saranno
il punto di partenza per la costituzione di un gruppo che trova la sua
identità proprio in esse.
È vero, al ritorno da una simile vacanza il senso di straniamento è
forte. E, complice in questo probabilmente anche la carenza di ore di
sonno, tornare alla normalità è difficile. Ci si sente ancora fluttuare
in quel vortice. Però quello che si ricorda della Wing, soprattutto
ripensandoci dopo aver lasciato passare qualche giorno, non è né
l’isolamento né la mancanza di autonomia nella scansione della propria
giornata. Ciò che resta sono il senso di appartenenza a un gruppo e
tanto da raccontare. E così, di quella vocina tanto molesta che, ad
ogni ora del giorno e della notte, invitava attraverso gli altoparlanti
i suoi “Dear WINGers” ad unirsi alle attività proposte, si sente quasi
la mancanza.
Francesca Matalon
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Storia e Memoria, la partecipazione degli ebrei alla Resistenza
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Sarà
una densa riflessione sulla partecipazione ebraica alla Resistenza ad
inaugurare la nuova stagione di incontri culturali al Centro
Bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L’appuntamento,
in agenda giovedì 19 gennaio a partire dalle 17.30, si aprirà con la
presentazione del volume Ebrei nella Resistenza in Piemonte 1943-1945 a
cura di Gloria Arbib e Giorgio Secchi (Ed. Zamorani). A seguire verrà
proiettato il film Emanuele Artom, il ragazzo di via Sacchi (alla
presenza tra gli altri del regista Francesco Momberti) e si svolgerà
una tavola rotonda dal titolo L’impegno politico ebraico e giovanile
nella Resistenza. Riflessioni, da ieri e oggi. Animeranno il confronto,
moderati dal consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Victor Magiar, il vicepresidente UCEI Anselmo Calò, Guri Schwarz e
Tullio Levi. L’evento, il primo di un fitto calendario di iniziative
dedicate all’identità ebraica, alla società israeliana e alle realtà
comunitarie in Italia, è realizzato in collaborazione con la Casa
editrice Zamorani e con il Centro di Documentazione Ebraica
Contemporanea.
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Un ricordo di Fabio
Norsa
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La notizia della dipartita
di Fabio Norsa mi ha dolorosamente colpito; giustamente è stata messa
in risalto la sua importante attività di Presidente della Comunità
ebraica di Mantova. Vi è da chiedersi chi mai abbia influito sulla
formazione di Fabio, chi lo abbia reso consapevole del suo ebraismo: la
prima persona fu sua madre, la signora Bruna Namias Norsa, mantovana
deportata ad Auschwitz come testimoniava anche il numero nero sul suo
braccio, e riuscita a ritornare a Mantova ove fu attiva nella vita
comunitaria, e in particolare di quella della Casa di riposo
ebraica di via Govi 11; l'altra persona che contribuì fu il
rabbino capo di Torino, il compianto Rav Dario Disegni, a cui tanto
deve l'Ebraismo italiano. Fabio studiò alle scuole ebraiche di Torino e
prese parte anche ad alcune lezioni al Collegio Rabbinico. La presenza
di un Maestro della levatura di Rav Disegni z"l, particolarmente
sensibile anche alla tragedia della Shoah, in cui morì anche sua
figlia, ha permesso di costruire la personalità peculiare di Fabio
Norsa, tanto apprezzata da tutti, specialmente nei suoi
aspetti ebraici e nel collegamento con la Shoah: sono impressioni che
risalgono agli inizi degli anni '60, che trovo confermate ora leggendo
i giornali ebraici e quelli mantovani, purtroppo solo dopo la sua
morte. Sia il suo ricordo in benedizione per la sua cara famiglia e per
la sua Comunità.
Alfredo Mordechai
Rabello, Jerushalaim
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Silenzio
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Questa
mattina, ascoltando la radio molto presto, sentivo un cronista parlare
dei contrasti che scuotono Israele, tra cittadini laici e cittadini
ortodossi. No, mi correggo: fra ebrei laici e non, e ebrei
ultraortodossi. La precisazione mi sembra necessaria, in quanto
già alcuni giorni orsono ne avevo letto sulla stampa ebraica, con firme
che non credo di poter definire strettamente laiche. Premetto che,
rispetto all’ebraismo, il termine “laico” non mi sembra appropriato e
chiedo scusa se al momento non ne trovo altro più idoneo. Fatto sta
che, al momento, sento la necessità di affrontare anche io la
questione, sia pure dal mio modestissimo punto di vista di ebrea
romana, che finora ha preferito tirarsi fuori dalla mischia. Ho
taciuto, infatti, a proposito della “questione ciambellette”, pensando
che maestri più esperti di me e di tutte le altre donne del volgo,
avessero miglior diritto di parlare. E ho fatto Pesach senza
ciambellette. Ho taciuto sulla separazione tra uomini e donne in
sinagoga, anche in occasione di conferenze e altri incontri non
rituali. Mi sono limitata a non partecipare. Adesso però, forte
dell’insegnamento rabbinico sulla importanza dell’interrogazione
continua, fra tutti e a tutti i livelli, vorrei chiedere ai nostri
rabbini come mai non affrontano l’argomento dei diktat ultraortodossi,
che oltre a scuotere Israele sta turbando l’intera diaspora al punto di
trovare spazio nei giornali-radio italiani. Conosco alcuni dei
nostri rabbini e li considero maestri anche per il rispetto, l’affetto
e l’ascolto che dedicano alle loro spose, per cui mi chiedo: come mai
non prendono la parola? Aspettano forse, nella forse ancora troppo
laica Roma, di andare a spasso con le loro spose, non tenendosele
accanto, ma sorridendo loro da un marciapiede all’altro della strada?
Giacoma Limentani, scrittrice
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Bottiglie
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Cielo terso, sole
splendente, aria fresca, neve dura ma non ghiacciata. La giornata
ideale dello sciatore. Dopo una pista bellissima, e dopo aver
fotografato un panorama mozzafiato, potevamo rinunciare al rifugio per
un pranzo come si deve? Cibi squisiti, birra abbondante, chiacchere
piacevoli. A un certo punto il discorso cade sulla Giornata della
Memoria incombente, sulle prossime iniziative e sul senso di questo
appuntamento. «Dai un’occhiata lì», mi dice uno dei commensali. Alzo lo
sguardo e scorgo, tra le molte bottiglie, due etichette particolari:
una con il volto di Mussolini e una con il volto di Hitler. Per poco
non mi strozzo. Chiamo la cameriera e le chiedo spiegazioni su
quell’arredo quantomeno insolito, cercando di rimanere tranquillo. Mi
risponde candidamente che è un vezzo di un loro amico produttore di
vini (pare che ne esistano anche serie con l’effige di Stalin) e che
non sono il primo avventore a non apprezzare. Palesemente non si rende
conto della questione che le pongo, e le chiedo di chiamarmi il
proprietario. Dopo un po’ si presenta la madre a cui rivolgo lo stesso
quesito. Uguale reazione di divertito stupore e di totale
inconsapevolezza, sostanzialmente - io credo - sincera. Mi scaldo un
po’ e le intimo di toglierle, che non è permesso esporre materiale
simile in un locale pubblico e che per molto meno potrebbero finire sui
giornali. La sua faccia è talmente stralunata che è inutile continuare
la discussione. A parte l’umore rovinato, due dubbi: come è possibile
che, in questo profluvio di celebrazioni della Memoria, vi siano ancora
sacche di ignoranza così diffuse e tanto abissali? Non stiamo parlando
di negazionisti o di estremisti politici, ma di onesti lavoratori di
montagna! E poi, che cosa conviene fare in casi come questi? Sollevare
il caso mediatico, con il rischio-paradosso di favorire un’involontaria
pubblicità, oppure sperare nei tempi lunghi e faticosi dell’educazione?
Tobia Zevi, Associazione Hans
Jonas
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notizie
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rassegna
stampa |
Energia - Israele prepara i contratti per i giacimenti di gas naturale
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Un
contratto del valore di cinque miliardi di dollari è stato firmato fra
i partner del giacimento Tamar (Noble Energy, Isramco, Avner, Delek) e
la compagnia israeliana Dalia Power Energy per la fornitura di 1,38
miliardi di metri cubi di gas per 17 anni. Il contratto prevede l'avvio
delle forniture nella seconda metà del 2014. Nelle prossime settimane
la partnership dovrebbe firmare un ulteriore contratto di fornitura gas
con le raffinerie di Haifa, Ashdod, Hadera Paper e Nesher Israel Cement
Enterprises.
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