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15 gennaio 2012 - 20 Tevet 5772 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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Per tentare
di capire il mondo haredi, di cui molto si è parlato nelle ultime
settimane, è necessaria quella che Guiccciardini chiama discrezione: la
capacità di distinguere le situazioni e di comprendere la complessità
delle realtà che analizziamo. Se come ebrei non vogliamo essere oggetto
di generalizzazioni, sempre semplificatrici e fuorvianti, non ci
possiamo permettere di esserne soggetto.
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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Chi pensa che il Giorno della
Memoria e tutto ciò che ad esso è collegato riguardi l’oblio e dunque
il problema sia spiegare o raccontare per “saperne di più”, secondo me
impiega una quantità spropositata di energie a partire da una premessa
sbagliata. La questione del Giorno della Memoria riguarda invece se si
prova vergogna oppure no. Perché nessuno, né tra i carnefici, né tra
gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente pensava o
che fosse un merito (e dunque l’ha tenuto bene a mente) o che non
valesse la pena preoccuparsi (e l’ha collocato tra le cose viste, ma di
secondaria importanza). E in relazione al proprio percorso interiore ha
costruito un’etica, una spiegazione del mondo, un modo di vivere,
oltreché un modo di agire, che non sono tanto giustificativi del
passato, quanto e soprattutto normativi del presente e prescrittivi per
il futuro. Il Giorno della Memoria non è un evento per far sì che
l’oblio si riduca, ma per suscitare il disagio della memoria. Ovvero
per suscitare vergogna e dunque proporsi per e predisporsi a un futuro
diverso.
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Qui Torino - Superare le crisi, costruire il futuro
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"Perché
Gerusalemme fu distrutta?”. Parte dall'analisi talmudica del momento di
difficoltà più profonda la riflessione sulla crisi nella tradizione
ebraica che apre il quarto modulo del corso del Centro studi e
formazione organizzato dal dipartimento Educazione e cultura
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Con questa domanda, rav
Roberto Della Rocca, direttore del dipartimento ha spinto alla
riflessione i leader ebraici italiani (molti presenti in sala, fra cui
il vicepresidente UCEI Anselmo Calò, rabbanìm e giovani arrivati a
Torino nella prima mattinata per avanzare lungo il percorso che li ha
già portati nelle Comunità di Milano, Trieste e Napoli. Ad accoglierli
il vicepresidente della Comunità di Torino David Sorani, che ha
sottolineato l’importanza di questi momenti di incontro per tutta la
realtà ebraica italiana, e il rabbino capo della comunità piemontese
Eliyahu Birnbaum. I rapporti interpersonali all’interno del popolo
ebraico e quelli con l’autorità sono al centro della pagina talmudica
che racconta le vicende di Kamtza e Barkamza, i due personaggi alla cui
diffidenza e inimicizia gratuite, secondo la tradizione, si deve la
distruzione del Beth HaMikdash compiuta per mano dei romani, su cui il
rav ha invitato i partecipanti a ragionare per capire quanto nei
momenti di crisi sia importante guardare alle proprie responsabilità. “Ma
qual è mai stato il periodo di non crisi delle Comunità ebraiche?” si è
domandato il professor David Meghnagi, professore di psicologia
all’Università di Roma Tre, sottolineando come l’ebraismo sia riuscito
a sopravvivere nei millenni proprio per la capacità di reagire alle
crisi attraverso lo scambio con le culture circostanti. L’appuntamento
torinese, concentrato sul tema della comunicazione con il pubblico e
con i mezzi di informazione, propone in parallelo il seminario per
insegnanti, con un focus sull’educazione ebraica prescolare, coordinato
da Odelia Liberanome del Centro pedagogico UCEI. La progettualità,
l’aggiornamento, la didattica di ebraismo e lingua ebraica, la
condivisione dei progetti saranno discussi dal gruppo di insegnanti
giunti dalle realtà scolastiche comunitarie. Densa di attività,
dunque, la giornata dei partecipanti ai vari percorsi, quello dedicato
ai leader, ai giovani, agli insegnanti. Che si fonderanno per la serata
su “Identità ebraiche, edot e rabbini: la storia di un melting pot
all’italiana”, introdotta da rav Della Rocca, in cui interverranno lo
storico Alberto Cavaglion, il rav Birnbaum e il professor Meghnagi,
dedicata a tutta la Comunità ebraica torinese.
Rossella Tercatin
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Qui Roma - Le fiaccole
della Memoria
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Arrivano
alla
spicciolata all’uscita dello Shabbat: ad attenderli un silenzio
surreale, il buio della notte squarciato da tante candele accese. Sono
i cittadini romani, alcune centinaia, ritrovatisi ieri sera in via
Santa Maria Monticelli al civico 67 di fronte a quel fazzoletto di
marciapiede dove giovedì pomeriggio alcuni balordi hanno divelto le
pietre d’inciampo poste appena poche ore prima in ricordo delle sorelle
Spizzichino. Un’offesa alla Memoria e a tutte le vittime della Shoah
che ha suscitato lo sdegno della Capitale e a cui la Comunità ebraica,
insieme a molti cittadini, a rappresentanti della società civile e
delle istituzioni – erano presenti tra gli altri il sindaco Gianni
Alemanno e il presidente della Provincia Nicola Zingaretti – ha deciso
di reagire con una fiaccolata intensa e partecipata. Al centro del
presidio, uno striscione sostenuto da ragazzi e ragazze dell’Hashomer
Hatzair con scritto “Ricordati di ricordare”. Nessun discorso
ufficiale, nessun
microfono: solo un commovente e composto silenzio. A chiederlo è
Adachiara Zevi, responsabile della terza edizione del progetto Pietre
d’Inciampo a Roma, che apre il sit-in con un intervento in cui
auspica la prossima individuazione dei responsabili di questo vile atto
di odio. Durissimo Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica
capitolina, che rivolto alla stampa dice: “La nostra pazienza è finita.
Non rimarremo inermi, non accetteremo più provocazioni di questo tipo e
risponderemo punto per punto”. Le luci si spengono, la folla si
disperde. C’è tristezza e rabbia, ma anche la consapevolezza di non
essere soli. a.s
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Davar acher - Fatti e
interpretazioni
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Per qualche anno è andato di
moda nelle università di mezzo mondo citare con approvazione l'aforisma
di Friedrich Nietzsche per cui "non ci sono fatti ma solo
interpretazioni". La smentita più spiritosa che ho sentito è quello di
Maurizio Ferraris, che la porta all'assurdo con un semplice cambio di
consonante: se è così, allora fra l'altro bisogna dire che "non ci sono
gatti ma solo interpretazioni". Comunque un bel pezzo dell'accademia si
è impegnato per anni a insegnarci quanto fosse ingenua l'idea della
verità: non esiste, hanno pontificato in tanti, non esiste un
giornalismo oggettivo, non esiste una storia vera o in generale una
scienza neutrale - solo interpretazioni. La storia la scrivono i
vincitori, la scienza dipende dagli interessi del capitale. Questa
variante del "pensiero debole" (che non a caso ha avuto fra i suoi
principali esponenti italiani quel Gianni Vattimo, così nemico di
Israele che un giorno disse in pubblico - per paradosso, è chiaro, solo
per paradosso - che stava arrivando a credere ai "Protocolli dei savi
di Sion") potrebbe essere archiviata fra le bizzarrie dell'accademia, e
infatti la moda infatti è già girata, se non avesse contagiato
politici, giornalisti, politologi. La versione tarda che costoro
adottano, probabilmente essendo stati formati in quel quadro teorico
molto fragile filosoficamente ma aggressivo sui media che è il
postmodernismo americano, si caratterizza con la bizzarra terminologia
delle "narrative". Non vi sarebbe una verità sull'insediamento ebraico
in Israele, per esempio, ma solo delle "narrative", in particolare
quella cattiva, sionista, e quella buona, "resistente" cioè
palestinese: scegliere fra loro sarebbe solo questione di gusti, o
meglio di schieramento. Se uno vuole stare dalla parte del prgresso e
della giustizia, accoglie la "narrativa" per cui non vi è mai stato un
tempio sul montre di Sion, gli ebrei attuali sono tutti più o meno
discendenti dei Kuzari e dunque turchi, e Ben Gurion ha progettato ed
eseguito la pulizia etnica della "Palestina", magari dopo aver incitato
i nazisti a perseguitare gli ebrei non sionisti per produrre
l'immigrazione "coloniale" in "Palestina" che voleva. E' una narrativa
un po' contrastante con testimonianze come la storia romana,
l'archeologia, la Bibbia, la documentazione storica, ma che importa:
sono tutte narrative. Chi proprio vuole essere reazionario, scelga pure
l'altra narrativa, pensi se osa che duemila anni fa a Gerusalemme ci
fossero farisei e sadducei, che Hitler ha progettato la soluzione
finale, che il movimento sionista abbia comprato le terre che dissodava
e via "narrando". Si accontenti delle sue prove, ma sappia che la
rivoluzione lo spazzerà via. Oltre che i giornalisti americani e gli
italiani che li imitano, la teoria delle narrative va alla grande anche
fra i negazionisti: scorrendo i commenti allucinanti che accompagnano
su Youtube il trailer della "Chiave
di Sara", colpisce l'idea che nel mondo sarebbe in corso uno "Shoah
show" allestito guarda un po' dai sionisti "dopo la guerra del '67"; e
la stessa idea è difesa in libri che parlano di "industria della Shoah"
o di "Israel lobby", senza fare troppo differenza fra le due cose.
Della teoria che non vi sia una verità, ma solo opinioni o
interpretazioni o narrative esistono naturalmente molte versioni, la
maggior parte delle quali non c'entrano affatto col negazionismo o con
la propaganda palestinese; ma io tendo a pensare che anche quelle al di
sopra di ogni contagio del genere siano intellettualmente rischiose,
perché esimono chi le sostiene dal portare prove razionali delle
proprie posizioni. Non è questo il luogo per discuterne adeguatamente
sul piano teorico. Vale la pena comunque di chiarire che naturalmente
nessuno crede che la verità sia là, già bell'e finita, pronta a essere
afferrata. Ci sono verità che si affermano per fede e noi come ebrei lo
sappiamo bene, dato che usiamo questo concetto come uno dei nomi divini
e a ogni lettura liturgica dello Shemà lo affermiamo. Parlando invece
di verità in senso meno forte, cioè empirico, per "dire che vi è quel
che vi è e che non vi è quel che non è", come la definiva Aristotele, è
chiaro che si tratta di un obiettivo regolativo, che nella maggior
parte dei casi può essere raggiunto solo parzialmente, o magari solo
per quel tanto che basta a escludere dal nostro orizzonte mentale le
falsità che emergono. E naturalmente vi sono molti argomenti in cui
effettivamente non vi sono fatti, ma opinioni, fedi, interessi, che
bisogna accettare come irrimediabilmente e magari positivamente plurali
e che si tratta di far convivere nella maniera meno rissosa e più
costruttiva possibile. Resta il fatto che in molti casi lo sforzo verso
la verità empirica va assunto come criterio deontologico fondamentale:
l'onestà intellettuale, che dovrebbe essere qualità comune di
scienziati e intellettuali e magari anche dei giornalisti, si misura
sulla capacità di riconoscere i fatti anche se smentiscono le nostre
teorie, e di essere perfino contenti per tali smentite, che ci
consentono di migliorare e correggere le nostre teorie. Da questo punto
di vista il peggior nemico della verità è l'ideologia, cioè
quell'atteggiamento che non consente a dei banali dettagli di fatto di
modificare le nostre splendide visioni. In fondo pensare che non ci
siano fatti (o gatti) ma solo interpretazioni, e che le verità siano in
realtà narrative o costruzioni propagandistiche, è la premessa per dire
che chi decide di ciò che è vero è il potere, cioè la politica. Non a
caso l'affermazione di Nietszche apparve in quei "frammenti postumi"
che furono intitolati "Volontà di potenza". Noi ebrei siamo stati
vittime nel corso di tutta la nostra storia, dal Faraone della Torah
fino a Hitler e Nasser e Arafat delle volontà di potenza che
intralciavamo, col semplice fatto di esistere. Per converso la nostra
vita intellettuale è stata sempre segnata da un'appassionata ricerca
della verità, secondo il metodo più limpido della discussione aperta di
opinioni divergenti che cercavano di falsificarsi a vicenda. E'
importante che non ci rassegniamo al nichilismo delle narrative.
Ugo
Volli
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rassegna
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Sorgente di Vita - Inciampi visivi |
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Il
progetto “Pietre d’inciampo” apre la puntata di Sorgente di vita di
domenica 15 gennaio. Abbiamo seguito l’artista tedesco Gunter Demnig
durante la posa delle piccole targhe di ottone sui sampietrini,
in ricordo di tante persone deportate nei campi di
sterminio o trucidate alle Fosse Ardeatine. Inciampi visivi, monito per
le giovani generazioni: ma appena due giorni dopo alcuni sampietrini
sono stati divelti da vandali(...) continua
>>
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