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22 gennaio 2012 - 27 Tevet 5772
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Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

 "Le parole che escono dal cuore entrano nel cuore. Anche nel cuore dal quale le parole sono uscite. Perché il silenzio è la cosa più bella che c'è nelle voci".
(Rebbe di Kotzk)


David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Il primo Giorno della Memoria (27 gennaio 2001) non può essere uguale al prossimo (il dodicesimo) Giorno della Memoria. Il problema non è se ora ne sappiamo più di allora o se si è esaurita una fase creativa o riepilogativa. Il Giorno della Memoria è un “termometro del presente” ovvero è una scadenza in cui siamo chiamati a riflettere sul tempo trascorso, su ciò che differenzia quel giorno da quello dell’anno precedente. Non tanto perché il tempo della Shoah si allontana, ma soprattutto perché in questo nostro tempo altre emergenze ne fanno riscrivere la sensibilità, obbligano a pensare le forme in cui la memoria si organizza, i linguaggi in cui essa si esprime;  e i percorsi simbolici e iconici attraverso i quali essa si fa rappresentare oggi. Nel “Giorno della Memoria” non c’è un tempo sospeso che guarda indietro. Ci siamo noi, qui e ora, con i conflitti di oggi, le parole che usiamo, le tensioni che viviamo, il presente che ci interroga. Non sul passato, ma su noi qui e ora.

davar
Qui Mantova - Colorni raccoglie il testimone
e sale alla presidenza della Comunità ebraica
Emanuele ColorniLa scomparsa di Fabio Norsa z.l ha lasciato un vuoto profondo in tutta Mantova, nelle istituzioni e nella cittadinanza, nei tanti amici che in questi anni hanno avuto modo di apprezzarne le doti di combattente per i diritti civili contro ogni forma di pregiudizio e intolleranza. A prendere il suo posto alla guida della Comunità ebraica, incarico che ha ricoperto negli ultimi 15 anni, è ora chiamato l'ex vicepresidente Emanuele Colorni (nella foto mentre stringe la mano a Aldo Norsa, figlio di Fabio e neo presidente dell'Istituto Franchetti). "E' un'eredità molto difficile da raccogliere - spiega Colorni - perché Fabio è sempre stato all'altezza. All'interno della Comunità così come nei rapporti cordiali e proficui con il mondo esterno. Cercherò quindi di agire nel solco delle tante cose buone che ha fatto in questi anni sviluppando le occasioni di incontro e tutelando il nostro piccolo ma vivace Talmud Torah". Saranno due donne ad affiancare il neo presidente nelle attività di Consiglio: Miriam Jarè, già operativa da alcuni mesi, e la new entry Lea Platero, primo nome tra i candidati non eletti in occasione del voto per il rinnovo del Consiglio comunitario espresso dagli ebrei mantovani in estate. Sempre una tra Jarè e Platero prenderà inoltre il posto di Norsa nel Consiglio di Articolo 3, l'Osservatorio sulle discriminazioni realizzato dalla Comunità ebraica con il contributo di molti enti locali e realtà minoritarie in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, mentre è Aldo Norsa a subentrare al padre alla guida della fondazione benefica Istituto Giuseppe Franchetti (con Colorni confermato alla vicepresidenza).

La logica folle di chi nega la Shoah
Donatella Di Cesare"Ci sono state le camere a gas e i forni crematori. C’è stato lo sterminio degli ebrei in Europa. La Shoah ha avuto luogo. Questo luogo non è in questione. Piuttosto in questione deve essere il luogo di chi lo nega. Perché un mondo in cui venga negata l’esistenza delle camere a gas è un mondo che già consente la politica del crimine, la politica come crimine”. Così scrive Donatella Di Cesare (nella foto), filosofa e docente universitaria nella prefazione del suo nuovo libro Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (pp.125, il melangolo). Un’analisi delle modalità con cui operano e purtroppo prolificano le tesi negazioniste volte a cancellare in blocco la storia di un genocidio. Con un colpo di spugna spazzano via la Shoah, a nulla valgono le documentazioni inoppugnabili e le testimonianze dei sopravvissuti. Per i negazionisti Hitler e i nazisti con la collaborazione fascista non hanno mandato a morte milioni di persone. La soluzione finale degli ebrei è un’invenzione ebraica per costringere il mondo a permettere la creazione di Israele come affermerà il tristemente celebre Robert Faurisson (professore all’Università di Lione 2 e cui idee ebbero in modo sconcertante spazio su un giornale autorevole come Le Monde). Secondo lui, ricorda la professoressa Di Cesare, la Shoah è stata “una gigantesca truffa politica-finanziaria” di cui unico beneficiario sarebbe il “sionismo internazionale” e le vittime “i palestinesi e i tedeschi”.
Più in generale, scrive la Di Cesare sui negazionisti: “quando dicono “non è”, vogliono dire “non esiste”; il non-essere nega l’essere, lo annienta e lo nullifica. Il loro negare emerge dal nulla e affonda nel nulla. Si tratta dunque di una negazione che oltrepassa l’uso legittimo del discorso e, nella sua assolutezza, si erge a sistema, a negazione sistematica e nullificante. È una negazione nichilistica in stretta continuità con l’annientamento”.
Perché il negazionismo è la continuazione di fatto dello sterminio. Si cancella la memoria della Shoah così come il nazismo eliminava gli ebrei; uno dei fondamenti, come ricorda la storica Deborah Lipstadt, è l’antisemitismo, senza secoli di pregiudizio non sarebbe stato possibile mettere in moto la macchina nazista; senza secoli di pregiudizio non sarebbe ora possibile negare.
Non c’è storiografia che tenga, non c’è metodologia, non servono prove perché il negazionista falsifica la realtà, ci gioca e rende di fatto tutto plausibile. Se si dichiara che uno dei genocidi più documentati della storia non esiste, allora quale può essere il punto di contatto. Quale spiegazione si può addurre per poter dimostrare a chi propugna queste tesi assurde e odiose che tutto questo è accaduto, che il Giorno della Memoria non è una montatura, che Auschwitz, Buchenwald, Bergen-Belsen, Treblinka, Dachau non sono frutto dell’immaginazione collettiva. Nel processo citato in queste pagine tra Deborah Lipstadt e il negazionista inglese David Irving, la storica americana spiega che lei e i suoi avvocati evitarono accuratamente di portare i sopravvissuti a testimoniare. “Non volevamo che il giudice dovesse entrare nel merito dei fatti – spiega Lipstadt – non volevamo che si arrivasse alla domanda Auschwitz è realmente esistito?”. Perché la verità storica della Shoah è fuori discussione. Non è questo il piano per controbattere le tesi negazioniste, come afferma Donatella Di Cesare: “È sul come della negazione che è caduto l’accento. In che modo nega, chi nega? Questa impostazione, che ha fornito contributi decisivi, rischia però di essere riduttiva e fuorviante”. In quanto alla domanda che bisogna porsi, sottolinea la filosofa, non è come ma perché, “Ci si deve dunque chiedere: perché nega, chi nega?”.
Da dove nasce la necessità apologetica di difendere il nazismo, di discolpare Hitler e mistificarne le azioni? Dalla volontà di continuarne la politica. Il negazionismo è una prosecuzione dell’antisemitismo e dell’odio fomentato durante la Seconda Guerra Mondiale dai nazisti contro gli ebrei. In entrambi, come detto, è radicato il decalogo del pregiudizio antiebraico: il giudeo bugiardo, ladro, approfittatore, scaltro, che tesse le sue tele per dominare il mondo e altre scempiaggini.
Un fanatismo paranoico che è ben lungi dall’essere sconfitto, la riprova le agghiaccianti affermazioni del professore torinese che propina su Facebook il complotto demo-pluto-giudaico-massonico o le liste di proscrizione pubblicate su noti siti antisemiti e negazionisti di personaggi legati al mondo ebraico, in cui peraltro compariva anche la professoressa Di Cesare.
“Lo sterminio degli ebrei d’Europa – si legge in Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo - è stato il risultato estremo di una politica del crimine, quella del nazismo, che non è passata e superata, ma ha al contrario un rapporto di collusione con le politiche criminali. l’hitlerismo intellettuale, in tutte le sue forme, non è stato sconfitto. È per questo che nella Shoah devono essere scrutate le possibilità occulte e inquietanti che la modernità sarebbe ancora in grado di riservare”.
Una responsabilità ancora più stringente in virtù della progressiva e ineluttabile scomparsa delle voci dei testimoni. Un'attenzione e una presa di coscienza ancor più doverosa nei confronti di chi la Shoah l'ha vissuta, di chi dello sterminio e della deportazione è stato vittima.
Il negazionismo vuole defraudarli della dignità della memoria; ne vuole cancellare le tracce così come fecero i nazisti con le uccisioni di massa, con la macchina concentrazionaria, con una progettualità velenosamente razionale.
Queste tesi sono spazzatura ma proliferano e trovano nuovi adepti, rimanere indifferenti non può essere un’opzione.

Pagine Ebraiche febbraio 2012

"Se Auschwitz è nulla - Contro il negazionismo" (Il Melangolo edizioni, pp 125, euro 8), sarà presentato a Roma martedì 24 gennaio alle 20.15 nell'aula dei Gruppi parlamentari in via di Campo Marzio 78 in un incontro moderato da Sandro Di Castro. Dopo il saluto del presidente della Camera Gianfranco Fini, con l'autrice interverranno Andrea Riccardi, Angelino Alfano, Giovanni Maria Flick, Roberto De Vita, Paolo Mieli, Riccardo Pacifici e Piero Terracina.

pilpul
Memoria - Chi sacralizza, chi confonde
Mi dispiace che Valentina Pisanty nel suo ultimo libro, di cui “Il fatto quotidiano” ha pubblicato uno stralcio venerdì, prenda spunto dalla mia noterella apparsa su questo portale l’8 febbraio 2011 per svolgere alcune riflessioni critiche contro quello che io avevo ritenuto “un sacrilegio” e cioè l’uso del titolo di Primo Levi “Se non ora quando” per le manifestazioni femministe e antiberlusconiane dell’anno scorso. Mi dispiace soprattutto che nell’anticipazione giornalistica questo portale venga messo innanzi a tutto il resto, a sottolineare l’increscioso vezzo ebraico di “sacralizzare la Shoah” (Chi sacralizza la Shoah, è questo il titolo scelto per l’anticipazione). Conoscendo la serietà di Pisanty avrei preferito che scegliesse come bersaglio polemico l’articolo nella sua veste più completa, apparsa prima su “L’indice dei libri del mese”, aprile 2011, pp. 8-9 poi, con titolo Difetto di fantasia, in “Lo Straniero”, XV, 130, aprile 2011, pp. 53-54. Se Pisanty avesse letto con spirito meno malizioso avrebbe capito che se di sacrilegio si deve parlare è nei confronti di Levi scrittore, non della Shoah.
Ignoro quali siano gli autori prediletti da Pisanty, credo che anche lei si irriterebbe se vedesse i titoli di Virginia Woolf storpiati o banalizzati o peggio ancora urlati su una piazza. Le manifestazioni del febbraio scorso avrebbero potuto avere come slogan “Se questo è un premier”: data la carenza di fantasia degli organizzatori la cosa non mi avrebbe per nulla stupito. Senza dire poi che il romanzo di Levi non tratta, come è noto, la Shoah, ma il riscatto di alcuni ebrei partigiani sopravvissuti ad essa. Che sia un sacrilegio accostare le figure femminili di quel romanzo a Ruby rubacuori, non è chi non veda.

Alberto Cavaglion


Davar acher - Il paradigma della vittima
Ugo VolliIl dibattito sul senso e gli effetti del Giorno della Memoria merita certamente di essere proseguito. Non c'è dubbio che il Giorno della Memoria non sia in sé un appuntamento ebraico, non riguardi specificamente la memoria ebraica. E' una ricorrenza civile, istituita per legge dagli Stati europei che ha per obiettivo non il modo in cui il nostro popolo perpetuerà la strage più tremenda di cui sia stato fatto oggetto nella sua storia millenaria, ma il ricordo pedagogico, da parte dei popoli europei del più terribile episodio di violenza contro gli inermi della sua storia. Il problema è come si configuri questo ricordo. Scorrendo i giornali in questi giorni è evidente che i due assi principali sono la pietà verso le vittime e l'onore verso i giusti che cercarono di salvarle. Dell'ideologia che motivò la strage e della sua continuità storica con un antisemitismo millenario si parla poco. La Shoah viene isolata come un fenomeno unico e senza precedenti, o al contrario immersa nella spaventosa massa di violenze che costellano la storia dell'umanità; diventa l'azione di un "pazzo" cui un popolo intero (i tedeschi, perché difficilmente si parla di italiani, lituani, ungheresi, polacchi, estoni ecc. ecc.)  obbedì per "banalità del male", oppure un esempio fra i tanti di razzismo, imperialismo, nazionalismo omicida.
Si tratta in entrambi dei casi di un allontanamento. Chi spera che il ricordo pedagogico produca automaticamente vergogna dei colpevoli e dei loro eredi si illude; perché numerosi studi sulla comunicazione mostrano come essa in generale sia sempre ricevuta selettivamente e selettivamente compresa e ricordata, in maniera da evitare la "dissonanza cognitiva" e soprattutto quella emotiva ed etica. A livello di massa nessuno ricorda qualcosa per vergognarsi, semmai lo dimentica o lo legge in maniera da giustificarsi. Il gesto del farmacista di Roma che ha rimosso la pietre di inciampo è assolutamente esemplare: è possibile compiangere le vittime sentendosi buoni, purché siano lontani da casa nostra, non la trasformino "in un cimitero", non facciano sentire complici degli assassini. Ho sentito più di una volta di sopravvissuti alla Shoah accolti malissimo al loro rientro a casa da parte di vicini e compagni di lavoro che avevano ignorato la loro scomparsa e magari ne avevano approfittato in vari modi. L'odissea degli ebrei espulsi da scuole e università per riavere il loro posto è nota. In molti stati dell'Est la memoria dela complicità collettiva con la Shoah è soffocata dal ricordo, certamente fondato ma non pertinente, dell'oppressione russa o sovietica: un tipico esempio di uso di copertura della memoria.
Il risultato di questi modi di coltivare il ricordo, cioè dell'universalismo del ricordo vittimario oppure del suo eccezionalismo, è però molto negativo. Vi è un "paradigma della vittima" che investe come una forma di obbligo il popolo ebraico, magari con un sottotesto teologico: la Shoah è dipinta come un "Olocausto", cioè un sacrificio voluto dalla divinità (naturalmente dipinta come assente, mentre gli uomini erano ben presenti); o addirittura come "il moderno Calvario". Gli ebrei sono da amare in quanto vittime, devono restare vittime e non difendersi dalla violenza altrui, tutte le vittime sono buone, tutte uguali, la violenza è cattiva comunque motivata, anche se avviene per autodifesa. Se non sono vittime, gli ebrei sono "Savi di Sion", dominatori del mondo da smascherare e da distruggere. La normalità di un popolo con i suoi buoni e i suoi cattivi, i suoi meriti e le sue colpe, non è contemplata. In quanto oggetto mitico - vittima o dominante segreto - l'"ebreo" è comunque a rischio.
Il risultato finale di questa deriva è quel rovesciamento per cui si parla insistentemente da parte degli antisemiti di "Israele come i nazisti" nei confronti degli arabi: un paragone, bisogna ammettere, che si è diffuso moltissimo negli ultimi anni, da quando il Giorno della Memoria è stato istituito. Non vi è un nesso causale, naturalmente, ma è chiaro che il rovesciare sulle vittime una colpa analoga a quella che era stata da loro inferta è un sollievo, in particolare per chi nutre elementi antisemiti: sì, vi hanno sterminati, ma anche voi fate lo stesso, la storia è un tessuto di violenza, homo homini lupus, quindi non facciamo troppe storie, celebriamo il ricordo di tutti i morti, dai Celti agli Indiani d'America, voltiamo pagina e occupiamoci d'altro, magari del "peccato originale" di Israele.
La risposta a queste reazioni, che sono assai diversamente articolate e volute, per lo più quasi incoscienti ma molto generali, talvolta lucide e offensivamente determinate, non può che andare nel senso di ritrovare e spiegare la specificità della  Shoah rispetto ad altre forme di genocidio che pur vi sono state come quello armeno, da ricercarsi non nel modo in cui il crimine è stato compiuto e progettato (certamente in maniera più "tecnica" e progettuale, ma non è questo il punto, anzi, questo è un argomento ambiguo, che è stato sollevato da filonazisti come Heidegger), ma nelle sue motivazioni, nella sua continuità con l'antisemitismo e l'antigiudaismo, nella dimensione teologica e nella ricorrenza delle persecuzioni e delle stragi, cioè nella specificità della storia ebraica. La Shoah non va isolata dai pogrom europei ma anche islamici, dall'azione dell'Inquisizione, dalle espulsioni, dalle conversioni forzate (al Cristianesimo ma anche all'Islam), dalle persecuzioni antiche in Egitto e in Persia. Non per trasformare gli ebrei nelle vittime eterne, che è proprio il ruolo metafisico dell'Ewige Jude che non vogliamo, ma per indicare il problema vero, cioè l'insofferenza millenaria nei confronti dei valori ebraici, della libertà e della "ostinata" persistenza di un popolo che non ha rinunciato a conservare il suo messaggio e a conservare se stesso, la sua differenza. Insomma il ricordo del Giorno della Memoria può diventare pedagogico davvero solo se illuminato dalla memoria che il nostro popolo ha di se stesso, della sua identità profonda e della sua presenza nella Storia, se quindi diventa anche nell'attuale in primo luogo difesa dello Stato di Israele. Non si tratta semplicemente di ricordare le vittime e di onorare i giusti in quanto tali, né di prescrivere il rifiuto delle stragi, ma di spiegare che cos'è il popolo ebraico, qual è in esso il nesso fra identità e valori religiosi. Perché è in nome di questo nesso che sono state inferte e sopportate le persecuzioni, la Shoah e oggi il nuovo tentativo di distruggere Israele, che mobilita in maniera più o meno consapevole una buona parte del mondo.

Ugo Volli


notizieflash   rassegna stampa
Qui Torino - Quel pregiudizio
che è difficile sradicare
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"Italiani: ancora brava gente? Pregiudizio e antisemitismo nell’Italia di oggi". Sarà dedicato a una densa riflessione sull'esistenza o meno di solidi anticorpi al germe del razzismo nella società italiana, anche alla luce di alcuni recenti spiacevoli fatti di cronaca, il convegno di studi organizzato per questo pomeriggio dalla Comunità ebraica di Torino e dal gruppo Anavim al Museo Regionale di Scienze Naturali(...)
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