La scomparsa di
Fabio Norsa z.l ha lasciato un vuoto profondo in tutta Mantova, nelle
istituzioni e nella cittadinanza, nei tanti amici che in questi anni
hanno avuto modo di apprezzarne le doti di combattente per i diritti
civili contro ogni forma di pregiudizio e intolleranza. A prendere il
suo posto alla guida della Comunità ebraica, incarico che ha ricoperto
negli ultimi 15 anni, è ora chiamato l'ex vicepresidente Emanuele
Colorni (nella foto mentre stringe la mano a Aldo Norsa, figlio di
Fabio e neo presidente dell'Istituto Franchetti). "E' un'eredità molto
difficile da raccogliere - spiega Colorni - perché Fabio è sempre stato
all'altezza. All'interno della Comunità così come nei rapporti cordiali
e proficui con il mondo esterno. Cercherò quindi di agire nel solco
delle tante cose buone che ha fatto in questi anni sviluppando le
occasioni di incontro e tutelando il nostro piccolo ma vivace Talmud
Torah". Saranno due donne ad affiancare il neo presidente nelle
attività di Consiglio: Miriam Jarè, già operativa da alcuni mesi, e la
new entry Lea Platero, primo nome tra i candidati non eletti in
occasione del voto per il rinnovo del Consiglio comunitario espresso
dagli ebrei mantovani in estate. Sempre una tra Jarè e Platero prenderà
inoltre il posto di Norsa nel Consiglio di Articolo 3, l'Osservatorio
sulle discriminazioni realizzato dalla Comunità ebraica con il
contributo di molti enti locali e realtà minoritarie in collaborazione
con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, mentre è Aldo Norsa a
subentrare al padre alla guida della fondazione benefica Istituto
Giuseppe Franchetti (con Colorni confermato alla vicepresidenza).
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La logica folle di chi
nega la Shoah
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"Ci
sono state le camere a gas e i forni crematori. C’è stato lo sterminio
degli ebrei in Europa. La Shoah ha avuto luogo. Questo luogo non è in
questione. Piuttosto in questione deve essere il luogo di chi lo nega.
Perché un mondo in cui venga negata l’esistenza delle camere a gas è un
mondo che già consente la politica del crimine, la politica come
crimine”. Così scrive Donatella Di Cesare (nella foto), filosofa e
docente universitaria nella prefazione del suo nuovo libro Se Auschwitz
è nulla. Contro il negazionismo (pp.125, il melangolo). Un’analisi
delle modalità con cui operano e purtroppo prolificano le tesi
negazioniste volte a cancellare in blocco la storia di un genocidio.
Con un colpo di spugna spazzano via la Shoah, a nulla valgono le
documentazioni inoppugnabili e le testimonianze dei sopravvissuti. Per
i negazionisti Hitler e i nazisti con la collaborazione fascista non
hanno mandato a morte milioni di persone. La soluzione finale degli
ebrei è un’invenzione ebraica per costringere il mondo a permettere la
creazione di Israele come affermerà il tristemente celebre Robert
Faurisson (professore all’Università di Lione 2 e cui idee ebbero in
modo sconcertante spazio su un giornale autorevole come Le Monde).
Secondo lui, ricorda la professoressa Di Cesare, la Shoah è stata “una
gigantesca truffa politica-finanziaria” di cui unico beneficiario
sarebbe il “sionismo internazionale” e le vittime “i palestinesi e i
tedeschi”.
Più in generale, scrive la Di Cesare sui negazionisti:
“quando dicono “non è”, vogliono dire “non esiste”; il non-essere nega
l’essere, lo annienta e lo nullifica. Il loro negare emerge dal nulla e
affonda nel nulla. Si tratta dunque di una negazione che oltrepassa
l’uso legittimo del discorso e, nella sua assolutezza, si erge a
sistema, a negazione sistematica e nullificante. È una negazione
nichilistica in stretta continuità con l’annientamento”.
Perché il
negazionismo è la continuazione di fatto dello sterminio. Si cancella
la memoria della Shoah così come il nazismo eliminava gli ebrei; uno
dei fondamenti, come ricorda la storica Deborah Lipstadt, è
l’antisemitismo, senza secoli di pregiudizio non sarebbe stato
possibile mettere in moto la macchina nazista; senza secoli di
pregiudizio non sarebbe ora possibile negare.
Non c’è storiografia
che tenga, non c’è metodologia, non servono prove perché il
negazionista falsifica la realtà, ci gioca e rende di fatto tutto
plausibile. Se si dichiara che uno dei genocidi più documentati della
storia non esiste, allora quale può essere il punto di contatto. Quale
spiegazione si può addurre per poter dimostrare a chi propugna queste
tesi assurde e odiose che tutto questo è accaduto, che il Giorno della
Memoria non è una montatura, che Auschwitz, Buchenwald, Bergen-Belsen,
Treblinka, Dachau non sono frutto dell’immaginazione collettiva. Nel
processo citato in queste pagine tra Deborah Lipstadt e il negazionista
inglese David Irving, la storica americana spiega che lei e i suoi
avvocati evitarono accuratamente di portare i sopravvissuti a
testimoniare. “Non volevamo che il giudice dovesse entrare nel merito
dei fatti – spiega Lipstadt – non volevamo che si arrivasse alla
domanda Auschwitz è realmente esistito?”. Perché la verità storica
della Shoah è fuori discussione. Non è questo il piano per
controbattere le tesi negazioniste, come afferma Donatella Di Cesare:
“È sul come della negazione che è caduto l’accento. In che modo nega,
chi nega? Questa impostazione, che ha fornito contributi decisivi,
rischia però di essere riduttiva e fuorviante”. In quanto alla domanda
che bisogna porsi, sottolinea la filosofa, non è come ma perché, “Ci si
deve dunque chiedere: perché nega, chi nega?”.
Da dove nasce la
necessità apologetica di difendere il nazismo, di discolpare Hitler e
mistificarne le azioni? Dalla volontà di continuarne la politica. Il
negazionismo è una prosecuzione dell’antisemitismo e dell’odio
fomentato durante la Seconda Guerra Mondiale dai nazisti contro gli
ebrei. In entrambi, come detto, è radicato il decalogo del pregiudizio
antiebraico: il giudeo bugiardo, ladro, approfittatore, scaltro, che
tesse le sue tele per dominare il mondo e altre scempiaggini.
Un
fanatismo paranoico che è ben lungi dall’essere sconfitto, la riprova
le agghiaccianti affermazioni del professore torinese che propina su
Facebook il complotto demo-pluto-giudaico-massonico o le liste di
proscrizione pubblicate su noti siti antisemiti e negazionisti di
personaggi legati al mondo ebraico, in cui peraltro compariva anche la
professoressa Di Cesare.
“Lo sterminio degli ebrei d’Europa – si
legge in Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo - è stato il
risultato estremo di una politica del crimine, quella del nazismo, che
non è passata e superata, ma ha al contrario un rapporto di collusione
con le politiche criminali. l’hitlerismo intellettuale, in tutte le sue
forme, non è stato sconfitto. È per questo che nella Shoah devono
essere scrutate le possibilità occulte e inquietanti che la modernità
sarebbe ancora in grado di riservare”.
Una responsabilità ancora
più stringente in virtù della progressiva e ineluttabile scomparsa
delle voci dei testimoni. Un'attenzione e una presa di coscienza ancor
più doverosa nei confronti di chi la Shoah l'ha vissuta, di chi dello
sterminio e della deportazione è stato vittima.
Il negazionismo
vuole defraudarli della dignità della memoria; ne vuole cancellare le
tracce così come fecero i nazisti con le uccisioni di massa, con la
macchina concentrazionaria, con una progettualità velenosamente
razionale.
Queste tesi sono spazzatura ma proliferano e trovano nuovi adepti,
rimanere indifferenti non può essere un’opzione.
Pagine
Ebraiche febbraio 2012
"Se
Auschwitz è nulla - Contro il negazionismo" (Il Melangolo edizioni, pp
125, euro 8), sarà presentato a Roma martedì 24 gennaio alle 20.15
nell'aula dei Gruppi parlamentari in via di Campo Marzio 78 in un
incontro moderato da Sandro Di Castro. Dopo il saluto del presidente
della Camera Gianfranco Fini, con l'autrice interverranno Andrea
Riccardi, Angelino Alfano, Giovanni Maria Flick, Roberto De Vita, Paolo
Mieli, Riccardo Pacifici e Piero Terracina.
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Memoria - Chi sacralizza, chi
confonde
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Mi dispiace che Valentina
Pisanty nel suo ultimo libro, di cui “Il fatto quotidiano” ha
pubblicato uno stralcio venerdì, prenda spunto dalla mia noterella
apparsa su questo portale l’8 febbraio 2011 per svolgere alcune
riflessioni critiche contro quello che io avevo ritenuto “un
sacrilegio” e cioè l’uso del titolo di Primo Levi “Se non ora quando”
per le manifestazioni femministe e antiberlusconiane dell’anno scorso.
Mi dispiace soprattutto che nell’anticipazione giornalistica questo
portale venga messo innanzi a tutto il resto, a sottolineare
l’increscioso vezzo ebraico di “sacralizzare la Shoah” (Chi sacralizza
la Shoah, è questo il titolo scelto per l’anticipazione). Conoscendo la
serietà di Pisanty avrei preferito che scegliesse come bersaglio
polemico l’articolo nella sua veste più completa, apparsa prima su
“L’indice dei libri del mese”, aprile 2011, pp. 8-9 poi, con titolo
Difetto di fantasia, in “Lo Straniero”, XV, 130, aprile 2011, pp.
53-54. Se Pisanty avesse letto con spirito meno malizioso avrebbe
capito che se di sacrilegio si deve parlare è nei confronti di Levi
scrittore, non della Shoah.
Ignoro quali siano gli autori prediletti da Pisanty, credo che anche
lei si irriterebbe se vedesse i titoli di Virginia Woolf storpiati o
banalizzati o peggio ancora urlati su una piazza. Le manifestazioni del
febbraio scorso avrebbero potuto avere come slogan “Se questo è un
premier”: data la carenza di fantasia degli organizzatori la cosa non
mi avrebbe per nulla stupito. Senza dire poi che il romanzo di Levi non
tratta, come è noto, la Shoah, ma il riscatto di alcuni ebrei
partigiani sopravvissuti ad essa. Che sia un sacrilegio accostare le
figure femminili di quel romanzo a Ruby rubacuori, non è chi non veda.
Alberto
Cavaglion
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Davar acher - Il paradigma
della vittima
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Il
dibattito sul senso e gli effetti del Giorno della Memoria merita
certamente di essere proseguito. Non c'è dubbio che il Giorno della
Memoria non sia in sé un appuntamento ebraico, non riguardi
specificamente la memoria ebraica. E' una ricorrenza civile, istituita
per legge dagli Stati europei che ha per obiettivo non il modo in cui
il nostro popolo perpetuerà la strage più tremenda di cui sia stato
fatto oggetto nella sua storia millenaria, ma il ricordo pedagogico, da
parte dei popoli europei del più terribile episodio di violenza contro
gli inermi della sua storia. Il problema è come si configuri questo
ricordo. Scorrendo i giornali in questi giorni è evidente che i due
assi principali sono la pietà verso le vittime e l'onore verso i giusti
che cercarono di salvarle. Dell'ideologia che motivò la strage e della
sua continuità storica con un antisemitismo millenario si parla poco.
La Shoah viene isolata come un fenomeno unico e senza precedenti, o al
contrario immersa nella spaventosa massa di violenze che costellano la
storia dell'umanità; diventa l'azione di un "pazzo" cui un popolo
intero (i tedeschi, perché difficilmente si parla di italiani, lituani,
ungheresi, polacchi, estoni ecc. ecc.) obbedì per "banalità
del
male", oppure un esempio fra i tanti di razzismo, imperialismo,
nazionalismo omicida.
Si tratta in entrambi dei casi di un
allontanamento. Chi spera che il ricordo pedagogico produca
automaticamente vergogna dei colpevoli e dei loro eredi si illude;
perché numerosi studi sulla comunicazione mostrano come essa in
generale sia sempre ricevuta selettivamente e selettivamente compresa e
ricordata, in maniera da evitare la "dissonanza cognitiva" e
soprattutto quella emotiva ed etica. A livello di massa nessuno ricorda
qualcosa per vergognarsi, semmai lo dimentica o lo legge in maniera da
giustificarsi. Il gesto del farmacista di Roma che ha rimosso la pietre
di inciampo è assolutamente esemplare: è possibile compiangere le
vittime sentendosi buoni, purché siano lontani da casa nostra, non la
trasformino "in un cimitero", non facciano sentire complici degli
assassini. Ho sentito più di una volta di sopravvissuti alla Shoah
accolti malissimo al loro rientro a casa da parte di vicini e compagni
di lavoro che avevano ignorato la loro scomparsa e magari ne avevano
approfittato in vari modi. L'odissea degli ebrei espulsi da scuole e
università per riavere il loro posto è nota. In molti stati dell'Est la
memoria dela complicità collettiva con la Shoah è soffocata dal
ricordo, certamente fondato ma non pertinente, dell'oppressione russa o
sovietica: un tipico esempio di uso di copertura della memoria.
Il
risultato di questi modi di coltivare il ricordo, cioè
dell'universalismo del ricordo vittimario oppure del suo
eccezionalismo, è però molto negativo. Vi è un "paradigma della
vittima" che investe come una forma di obbligo il popolo ebraico,
magari con un sottotesto teologico: la Shoah è dipinta come un
"Olocausto", cioè un sacrificio voluto dalla divinità (naturalmente
dipinta come assente, mentre gli uomini erano ben presenti); o
addirittura come "il moderno Calvario". Gli ebrei sono da amare in
quanto vittime, devono restare vittime e non difendersi dalla violenza
altrui, tutte le vittime sono buone, tutte uguali, la violenza è
cattiva comunque motivata, anche se avviene per autodifesa. Se non sono
vittime, gli ebrei sono "Savi di Sion", dominatori del mondo da
smascherare e da distruggere. La normalità di un popolo con i suoi
buoni e i suoi cattivi, i suoi meriti e le sue colpe, non è
contemplata. In quanto oggetto mitico - vittima o dominante segreto -
l'"ebreo" è comunque a rischio.
Il risultato finale di questa
deriva è quel rovesciamento per cui si parla insistentemente da parte
degli antisemiti di "Israele come i nazisti" nei confronti degli arabi:
un paragone, bisogna ammettere, che si è diffuso moltissimo negli
ultimi anni, da quando il Giorno della Memoria è stato istituito. Non
vi è un nesso causale, naturalmente, ma è chiaro che il rovesciare
sulle vittime una colpa analoga a quella che era stata da loro inferta
è un sollievo, in particolare per chi nutre elementi antisemiti: sì, vi
hanno sterminati, ma anche voi fate lo stesso, la storia è un tessuto
di violenza, homo homini lupus, quindi non facciamo troppe storie,
celebriamo il ricordo di tutti i morti, dai Celti agli Indiani
d'America, voltiamo pagina e occupiamoci d'altro, magari del "peccato
originale" di Israele.
La risposta a queste reazioni, che sono
assai diversamente articolate e volute, per lo più quasi incoscienti ma
molto generali, talvolta lucide e offensivamente determinate, non può
che andare nel senso di ritrovare e spiegare la specificità
della
Shoah rispetto ad altre forme di genocidio che pur vi sono state come
quello armeno, da ricercarsi non nel modo in cui il crimine è stato
compiuto e progettato (certamente in maniera più "tecnica" e
progettuale, ma non è questo il punto, anzi, questo è un argomento
ambiguo, che è stato sollevato da filonazisti come Heidegger), ma nelle
sue motivazioni, nella sua continuità con l'antisemitismo e
l'antigiudaismo, nella dimensione teologica e nella ricorrenza delle
persecuzioni e delle stragi, cioè nella specificità della storia
ebraica. La Shoah non va isolata dai pogrom europei ma anche islamici,
dall'azione dell'Inquisizione, dalle espulsioni, dalle conversioni
forzate (al Cristianesimo ma anche all'Islam), dalle persecuzioni
antiche in Egitto e in Persia. Non per trasformare gli ebrei nelle
vittime eterne, che è proprio il ruolo metafisico dell'Ewige Jude che
non vogliamo, ma per indicare il problema vero, cioè l'insofferenza
millenaria nei confronti dei valori ebraici, della libertà e della
"ostinata" persistenza di un popolo che non ha rinunciato a conservare
il suo messaggio e a conservare se stesso, la sua differenza. Insomma
il ricordo del Giorno della Memoria può diventare pedagogico davvero
solo se illuminato dalla memoria che il nostro popolo ha di se stesso,
della sua identità profonda e della sua presenza nella Storia, se
quindi diventa anche nell'attuale in primo luogo difesa dello Stato di
Israele. Non si tratta semplicemente di ricordare le vittime e di
onorare i giusti in quanto tali, né di prescrivere il rifiuto delle
stragi, ma di spiegare che cos'è il popolo ebraico, qual è in esso il
nesso fra identità e valori religiosi. Perché è in nome di questo nesso
che sono state inferte e sopportate le persecuzioni, la Shoah e oggi il
nuovo tentativo di distruggere Israele, che mobilita in maniera più o
meno consapevole una buona parte del mondo.
Ugo
Volli
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Torino - Quel pregiudizio
che è difficile sradicare |
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"Italiani: ancora brava gente? Pregiudizio e antisemitismo nell’Italia
di oggi". Sarà dedicato a una densa riflessione sull'esistenza o meno
di solidi anticorpi al germe del razzismo nella società italiana, anche
alla luce di alcuni recenti spiacevoli fatti di cronaca, il convegno di
studi organizzato per questo pomeriggio dalla Comunità ebraica di
Torino e dal gruppo Anavim al Museo Regionale di Scienze Naturali(...)
continua
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