Anna
Foa,
storica
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Si è
inaugurata a Firenze, nell'ex carcere delle Murate, l'edizione italiana
della mostra tenutasi a Berlino nel 2011, e curata dagli storici Ulrich
Baumann e Lisa Hauff, "Il processo. Adolf Eichmann a giudizio.
1961-2011". L'importanza del processo Eichmann per la costruzione della
memoria della Shoah è fondamentale. Si trattò di un evento seguito
dalla stampa di tutto il mondo, in cui sfilarono decine e decine di
testimoni che raccontarono nei dettagli lo sterminio del popolo
ebraico. Un evento che raccolse insieme gli israeliani sopravvissuti ai
campi e quelli che venivano dai paesi arabi e non avevano conosciuto la
violenza nazista, che sollecitò nel mondo intero l'attenzione, la
commozione, la riflessione di storici, filosofi, gente comune,
politici, scrittori. Hannah Arendt scrisse dopo avervi assistito un
libro molto critico, La banalità del male, che suscitò vivaci polemiche
non ancora sopite. Lì, in quell'aula di tribunale, prese avvio
quel percorso di presa di coscienza, che la memorialistica fino a quel
momento aveva appena iniziato, su cui ancora riflettiamo, su cui ancora
ci poniamo domande, sui cui rapporti con l'oggi continuiamo a
tormentarci.
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“Italiani
ancora brava gente? Pregiudizio e antisemitismo nell’Italia di oggi”:
questo il titolo un po’ provocatorio del convegno ideato e organizzato
dall’associazione culturale Anavim, (gruppo nato in seno alla Comunità
di Torino nel 2010), presieduta da David Sorani, che si è svolto ieri
pomeriggio nelle sale del Museo di Scienze Naturali di Torino. Il
dibattito, sempre e ancora spiacevolmente attuale, ha avuto inizio a
partire dall’analisi di un dato sconcertante, emerso della recente
Indagine Conoscitiva Parlamentare sull’Antisemitismo, che vede il 44
per cento degli italiani esprimersi in termini assai critici nei
confronti degli ebrei. Le domande da porsi sono molteplici: come va
letto e interpretato questo dato? Cosa c’è alla base del nuovo
antisemitismo? È giusto parlare di “rancore sociale”? Questi e molti
altri interrogativi hanno dato il via agli interventi dei relatori e
dello stesso pubblico. Nella prima parte del convegno, moderata da
Sorani, si è cercato di svolgere un’analisi e valutazione
sociologica-psicologica del tema: Betty Guetta, della Fondazione Centro
di documentazione ebraica contemporanea, Dario Padovan, professore di
Lettere e Filosofia presso l’Università di Torino e Marcella Ravenna,
psicologa sociale dell'Università di Ferrara, attraverso la
presentazione delle loro ricerche e dei risultati da esse ottenuti,
hanno permesso di leggere in maniera critica quel 44 per cento: un dato
aggregato e quindi una semplificazione dello stato attuale
dell’antisemitismo. Una vera e propria ideologia antisemita si ritrova
in alcune frange dell’estrema destra e dell’estrema sinistra italiana,
che assieme costituiscono circa il 12 per cento della popolazione. Qual
è la priorità causale del pregiudizio antiebraico? È la mancanza di una
conoscenza diretta sugli ebrei, da cui deriva un’immagine fortemente
stereotipata e astratta. Il pregiudizio antiebraico non è un
fenomeno sociale statico o monolitico: si distinguono varie tipologie
di pregiudizio: quello definito “classico”, quello “moderno” e quello
“contingente”. Quest’ultimo risulta essere il più rilevante per
l’indagine attuale: si assiste alla polarizzazione della figura
dell’ebreo attorno a due tematiche: la memoria della Shoah e il
conflitto Arabo-Israeliano. Un altro dato allarmante è legato al
fatto che il 65 per cento delle persone che si dichiarano antisemite,
si definiscono anche anti-islamiche: si tratta di una confusione a
livello del pregiudizio stesso, che trasla da un target all’altro.
Invece solo il 20 per cento degli anti-islamici è anche antisemita. È
il caso di parlare di “traslatività del pregiudizio”? Nella
seconda sessione, moderata dallo storico Claudio Vercelli, si è
compiuta un’analisi di tipo storico-politico e si è cercato di capire
come “combattere” un sentimento irrazionale come l’odio verso il
diverso, in particolare l’odio verso gli ebrei. L'antisemitismo,
secondo rav Alfonso Arbib, rabbino capo della Comunità ebraica di
Milano, contiene qualcosa che sfugge al razionale, perciò è illusorio
combattere qualcosa di irrazionale con la razionalità. Un modo per
fronteggiare e combattere l'antisemitismo è esserci, continuare a
esserci, vivere da ebrei e farsi conoscere in quanto tali. Marco
Brunazzi, professore di Scienze Politiche e direttore dell'Istituto di
studi storici "Gaetano Salvemini" di Torino, definisce paradigmatico il
pregiudizio antiebraico, per via della capacità mimetica che ha avuto
nei secoli (se non nei millenni). I fenomeni contingenti da tenere in
considerazione sono il rancore sociale, la crisi economica e la
globalizzazione che comporta inevitabilmente una crisi dell’identità,
individuale o collettiva che sia. L’antisemitismo in Italia,
esplicitato dalle leggi razziste e dall’atteggiamento che ne è
conseguito, è stato “superato” attraverso la strategia dell’oblio e non
della memoria, in modo tale da non attribuire direttamente alcuna
responsabilità agli italiani stessi. Brunazzi solleva un’altra
questione importante: come avviene la formazione del pregiudizio oggi?
Quali sono i canali di trasmissione oltre al web? Segue
l’intervento di Gian Enrico Rusconi, professore di Scienze Politiche
presso l'Università di Torino, che propone di prendere in
considerazione non tanto il 44 per cento, ma di soffermarsi sul
restante 56 per cento e di instaurare un dialogo: è fondamentale
sviluppare un rapporto conoscitivo che vada al di là delle tematiche
Shoah-Stato d’Israele, che producono una “claustrofobia delle polarità”. Se
l’antisemitismo è una razionalizzazione dell’odio, ma l’odio è di per
sé irrazionale, non dovremmo chiederci da dove ha origine? Deriva dalla
paura, la paura dello sconosciuto. Per combattere l’odio è necessario
fugare la paura e questo è possibile solamente attraverso una profonda
e critica conoscenza. Il dibattito tra relatori e pubblico ha
lasciato aperte molte questioni e ha fatto emergere elementi nuovi su
cui varrebbe la pena continuare a ragionare: è necessaria la
comunicazione con l’esterno. L’impegno comune sarà di proseguire il
dibattito, organizzando altri incontri.
Alice Fubini
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In cornice - Le dieci piaghe
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Perché
sono rarissime le opere d'arte sulle dieci piaghe? Eppure, a leggere le
parashot di queste due settimane, nessun soggetto sembrerebbe più
adatto: acqua che si trasforma in sangue – ma solo per alcuni,
pulviscolo che diventa ulcera, la morte dei primogeniti. Una
combinazione di teatralità, sensazioni forti, spiritualità. Perfetto.
Ebbene, fatevi un giro su Google o su qualche libro specializzato: non
troverete quasi nulla. Pochissimi quadri (due splendidi Turner, un Alma
Tadema non troppo riuscito, un Pearce, un interessante Paoletti esposto
al Brera) e qualche arazzo. Un'inezia in mille anni di storia europea.
E quasi nulla anche nella nostra arte, nessun Chagall, nessun Soutine,
pochissime opere israeliane; perfino nelle haggadot illustrate, le
piaghe non ricevono di solito un'attenzione particolare. Eccovi allora
la mia prima idea sul perché di questa strana assenza; raccoglierei
però volentieri anche il vostro punto di vista. All'arte non
ebraica, le piaghe non interessano perché contraddicono una delle
principali accuse rivolte alla nostra religione, cioè che il Signore
sia lontano da noi e incurante, visione da cui i cristiani ricavano il
ruolo di Gesù. Quanto alla nostra arte, la ragione potrebbe essere che
la nostra religione, la nostra cultura, è sostanzialmente non
vendicativa. Non ci ha mai fatto piacere che gli Egiziani abbiano
sofferto. I commentatori mille volte si interrogano sul perché il
Signore abbia indurito il cuore del Faraone, causando così sventure al
suo popolo. Nel Seder, si versa nel piatto del vino al pronunciare di
ogni piaga, in modo che ciascuna diminuisca la nostra abbondanza
simboleggiata dal vino (ringrazio rav Della Rocca per questa
precisazione), e prima del pasto mangiamo l'uovo sodo che simboleggia
anche il lutto. Il male dei nemici non fa felici né noi né i nostri
artisti, e quindi è un soggetto che non ci interessa. Ci sono certo le
eccezioni – che balzano subito alla mente – ma non cambiano la sostanza.
Daniele Liberanome, critico d'arte
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Tea for two - Spettegolando |
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Il
pettegolezzo: un mormorio vicino al caminetto mentre si lavora a
maglia, un sibilo serpentino alle spalle. Alle volte un rumoroso fuoco
d'artificio che invade i rotocalchi. E proprio l'ultimo, è il caso che
fa per noi. Perché questo è un pettegolezzo innocente, la nascita di un
nuovo amore, lo spaccato di una dolce vita parigina, una storia alla
stregua di Vacanze romane. La principessa ce l'abbiamo e a fare le veci
del giornalista che si innamora di lei, abbiamo l'attore comico più
apprezzato di Francia. Non avete ancora capito di chi sto parlando?
Guardate lo schermo storcendo il naso? Suvvia, è una notizia troppo
ghiotta, tanto succosa da non poter essere ignorata nemmeno da chi
lancia settimanalmente anatemi ai giornali scandalistici. Ma non
indugiamo oltre. La principessa monegasca Charlotte Casiraghi avrebbe
lasciato il suo rampollo Alex Dellal per l'attore Gad Elmaleh. Ho
iniziato ad ammirare Charlotte al compimento dei suoi diciott'anni,
un'estate che ho trascorso, per la verità, a vedere le repliche
dell'ispettore Derrick (una prospettiva poco allettante, lo ammetto).
Il protagonista maschile di questo amour fou, Gad Elmaleh è
apprezzatissimo. I francesi trasferitisi in Israele non si perdono
nessuno dei suoi spettacoli esilaranti. Si, perché Gad è un ebreo
marocchino legatissimo alle sue origini. Ha girato anche un film, Coco,
nel quale è un cafone arricchito che vuole organizzare un mega Bar
Mitzvah per il suo figlioletto adorato, ma sopratutto per dimostrare a
tutti il suo status dorato. Anche l'ex storico di Charlotte, Dellal, è
di origine ebraica. Come si può però resistere al fascino del
simpaticissimo Elmaleh? Anche le donne altolocate non possono non
preferire la risata assicurata alla gabbia dorata. E con questa rima
del tutto spontanea, aspettiamo conferme o smentite.
Rachel
Silvera, studentessa
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A Coreglia Ligure un monumento per ricordare Nella Attias
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Inaugurato nella piazza di Coreglia Ligure il monumento alla memoria di di tutti i morti del campo di Calvari e di Nella
Attias, la bambina ebrea di 6 anni che venne deportata ad Auschwitz il
21 gennaio del 1944 e poi uccisa in una camera a gas. A
Calvari i nazisti avevano allestito un primo campo di
concentramento. Recandosi sul luogo il rabbino capo della Comunità
ebraica di Genova, Giuseppe Momigliano, il presidente della Provincia
di Genova, Aldo Repetto e Giorgio Viarengo in rappresentanza dell'Anpi,
hanno ricordato gli ebrei italiani imprigionati e uccisi a
Calvari.
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