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5 febbraio 2012 - 12 Shevat 5772
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Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino


La manna è un "pane" fresco. Se invecchia, anche solo di un giorno, marcisce ed è inutilizzabile. Così la vita che oggi viviamo, dice rav Shimshon Pinkus, deve essere usata oggi. Se la lasciamo passare, se la sprechiamo, non potremo utilizzarla domani. Domani sarà un altro giorno, con una nuova vita che ci viene dall'Alto.


David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
L’ossessione complottista è tornata a diffondersi nelle convinzioni collettive. Anche se apparentemente lontano “Edgar”, l’ultimo film diretto e sceneggiato da Clint Eastwood è una risposta indiretta, ma efficace, a questa sindrome. “Edgar”, infatti, solo apparentemente riguarda la biografia di un uomo o la storia di un continuo conflitto tra FBI e potere. Il centro del film  secondo me offre invece spunti di "riflessione archivistica" e di filosofia dell’archivio raramente radunati con efficacia in un solo prodotto culturale di massa: la centralità degli archivi è il “filo rosso” per tutto il film assieme all'idea che informazione è potere. Non riguarda solo l’utilizzo delle fonti, ma la loro organizzazione, la chiave in codice di dove collocare cose attraverso un sistema di classificazione che deve essere il più clandestino possibile e, alla fine, il vero segreto da tutelare. E che si riassume in alcuni passaggi essenziali del film: nelle raccomandazioni alla segretaria di organizzare l'archivio del nascente FBI secondo un vincolo basato su criteri tenuti nascosti, in modo che non potesse essere capito da alcuno; nella scena finale dove lei distrugge i fascicoli "particolari" a lei affidati; nelle note di coda che sottolineano come abbiamo minima traccia di queste cose grazie a "fascicoli collocati male". I complotti avvengono nella storia, ma la storia non si spiega con i complotti. Anche se molti ci credono, perché non hanno la voglia, il tempo, e la pazienza di osservare come funziona la vita reale.

davar
Dove vanno gli ortodossi - A colloquio con Samuel Heilman
Emanuele ColorniIl mondo degli ebrei ultraortodossi, i haredìm, è da mesi sotto i riflettori. Diversi episodi di cronaca hanno contribuito a focalizzare su di loro l’attenzione. Una bambina insultata per mancanza di modestia nel vestiario sulla strada verso la propria scuola nel villaggio di Bet Shemesh. Ragazzini in tradizionali abiti scuri e peyot (i riccioli che crescono agli angoli del viso) in piazza con la stella gialla sul petto proponendo il paragone tra la minaccia allo stile di vita che subiscono oggi e i tempi delle persecuzioni naziste. Autobus in cui uomini e donne occupano settori diversi. Episodi che hanno suscitato un grande clamore mediatico. Ma è lecito domandarsi se siano veramente rappresentativi di un mondo dalle mille sfaccettature, difficili da comprendere per chi non vi sia particolarmente familiare. “Anche se a un outsider i haredim possono apparire tutti uguali, con le loro barbe e gli indumenti scuri, la comunità haredi è frammentata almeno quanto lo è l’intera galassia ebraica”, spiega a Pagine Ebraiche Samuel Heilman, professore ordinario di Sociologia e direttore del Dipartimento di Studi ebraici al Queens College della City University of New York, nonché autore di numerosi libri e saggi che lo rendono uno dei massimi esperti mondiali delle dinamiche sociologiche delle comunità haredi.
Professor Heilman, che cosa significa studiare la sociologia delle comunità ultraortosse? Esaminare il ruolo della religione nella società ebraica contemporanea, in particolare mettendo in luce le differenze tra i haredim e coloro che si definiscono “modern orthodox”. A essere sincero però l’espressione ebrei “ultraortodossi” non mi convince. “Ultra” significa qualcosa che va più in là, che va oltre appunto. Mentre invece gli ebrei haredim non sono “più” religiosi degli altri, ma semplicemente osservanti in un modo diverso, e non necessariamente con una connotazione positiva.
Nel suo libro "Sliding to the right" (nell'immagine la pittura a olio in copertina a firma di Max Ferguson), lei fa rifemento a un progressivo scivolamento del mondo ebraico osservante verso un’ortodossia sempre maggiore.
È un’epoca in cui tutto si polarizza, secondo un fenomeno che io definisco “shrinking middle”, restringimento del centro. Il mondo ebraico non fa eccezione. Io sono cresciuto modern orthodox e non sono particolarmente cambiato nel tempo. Viceversa è cambiato l’ambiente intorno a me. Se prima il modo in cui vivo l’ebraismo lo si trovava al centro, oggi è considerato più a sinistra, più progressista. Ci sono diversi fattori che in particolare causano questo spostamento verso destra. Il mondo degli ebrei modern orthodox comincia ad avere dubbi a proposito della propria “modernità”. E c’è un altro fattore fondamentale connesso a questo punto. Per essere al passo coi tempi, gli ebrei modern orthodox hanno rinunciato a produrre figure educative. È ormai molto tempo che i giovani modern orthodox, uomini e donne, aspirano a diventare avvocati, medici, imprenditori, non certo rabbini o insegnanti. Così i professori delle materie ebraiche nelle scuole provengono sempre più dal mondo haredi, che in questo modo esercita un’influenza incredibile sulle nuove generazioni. Che sempre più spesso scelgono di seguire la strada tracciata dai loro maestri e di abbracciarne lo stile di vita.
La prima idea che si ha quando si pensa al mondo degli ebrei ultraortodossi è quella di un gruppo sociale che vive ricreando l’esistenza del passato. Corrisponde alla realtà?
Questa rappresentazione costituisce senza dubbio un falso mito. Loro idealizzano un passato che non è mai esistito nel modo in cui lo dipingono. Per esempio, si parla del mondo delle grandi yeshivot che esistevano negli scorsi secoli, ma in realtà non c’è mai stato nella storia un momento in cui studiavano nelle yeshivot più persone di quante ne studiano adesso. E questo è possibile proprio grazie al supporto che mette loro a disposizione il mondo moderno: dal punto di vista economico, ma anche di sicurezza, basti a pensare in Israele alla protezione che fornisce loro l’esercito, in cui gli ebrei haredim non devono nemmeno prestare servizio.
Israele e gli Stati Uniti sono i due paesi del mondo in cui le comunità ebraiche ultraortodosse sono numericamente significative.La maggior parte degli episodi che hanno suscitato tanto scalpore è accaduta in Israele. È un caso oppure ci sono delle differenze tra i haredim americani e quelli israeliani?
La più grande differenza è che in Israele gli ebrei haredim sentono che lo Stato debba appartenere a loro, mentre in America sono consci di essere la minoranza di una minoranza. E di conseguenza non sono pronti ad avanzare le stesse pretese. In Israele in alcuni quartieri haredi le strade sono chiuse al traffico di Shabbat. Negli Stati Uniti nessuno chiederebbe una cosa simile. Viceversa il rapporto di molti haredim con Israele ha qualcosa di paradossale: il loro punto di vista è quello di visitare o di vivere in una terra che è sacra non grazie allo Stato d’Israele, ma nonostante lo Stato d’Israele.
I posti separati sull’autobus, la modestia nell’abbigliamento. Il ruolo della donna in questi mesi è stato spesso al centro delle tensioni.
Il ruolo della donna è una delle più grandi sfide dell’ebraismo ortodosso contemporaneo. Un tempo per capire quanto un ebreo osservante fosse davvero “modern” si guardava a che tipo di laurea avesse conseguito, o alla sua professione. Oggi si deve guardare a quello che fa sua moglie. Anche nel mondo haredi le cose stanno cambiando. Le donne sono una fondamentale fonte di reddito nelle famiglie, perché gli uomini passano tutto o la maggior parte del loro tempo a studiare. Grazie alle nuove tecnologie, che consentono di lavorare anche da casa, il potere economico delle donne si è accentuato ancora di più. E dal potere economico scaturisce il potere sociale e politico. Oggi le donne haredi sono molto più istruite, sia dal punto di vista degli studi ebraici che secolari. E ci sono importanti movimenti ultraortodossi, come i Lubavitch, in cui il ruolo della donna è già centrale. Questo non significa che ci sia perfetta uguaglianza. Ma la condizione della donna nel mondo ebraico è già molto cambiata rispetto al passato e mi aspetto che cambi ancora di più nei prossimi anni.

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, febbraio 2012
Il personaggio - Il professore che narra le comunità haredì
heilmanSamuel Heilman è nato negli Stati Uniti nel 1946, figlio di genitori polacchi sopravvissuti alla Shoah. È professore di Sociologia al Queens College della City University of New York, dove dirige il Dipartimento di Studi ebraici, e ha insegnato in numerosi atenei in tutto il mondo, tra cui l’Università ebraica di Gerusalemme, l’Università di Melbourne e l’Università di Nanchino. La sua principale area di interesse scientifico sono le dinamiche sociali delle comunità ebraiche ortodosse, alle cui diverse sfaccettature ha dedicato numerosi libri. L’ultimo, scritto insieme a Menachem Friedman, professore emerito di sociologia della Bar Ilan Unversity, è stato pubblicato nel 2010 e si occupa della figura dell’ultimo rebbe del movimento chassidico Lubavitch: The Rebbe: the life and the afterlife of Menachem Mendel Schneerson. Un libro che ha fatto molto discutere e che ha conquistato numerosi riconoscimenti, tra cui il 2010 National Jewish Book Award nella categoria American Jewish Studies. Heilman collabora inoltre con diverse testate giornalistiche, ebraiche e non.

Pagine Ebraiche, febbraio 2012
“Così i media demonizzano il nostro modo di vivere”
ajoCercare un luogo dove poter seguire lo stile di vita che si è scelto rispecchiandosi nell’ambiente circostante. È questo quello che hanno fatto 25 anni or sono rav Michele Ajò e sua moglie, romano lui, israeliana lei, entrambi cresciuti in famiglie ebraiche non particolarmente osservanti. Quel luogo lo hanno trovato a Bnei Berak, quartiere (o città a sé) che si stacca e si confonde con Tel Aviv e che con i suoi 200 mila abitanti rappresenta uno dei cuori pulsanti della vita haredi in Israele. La giornata di Michele Ajò si divide tra lo studio della Torah e il lavoro nella divisione italiana dell’organizzazione Arachim, che si occupa di aiutare gli ebrei di tutto il mondo a mantenere e rinnovare i valori autentici dell’ebraismo, occupazione che lo porta a tornare a Roma diverse volte all’anno. Raggiunto al telefono da Pagine Ebraiche per offrire al lettore un punto di vista interno a proposito del clamore mediatico che si è levato intorno agli episodi di cronaca riguardanti il mondo degli ebrei ultraortodossi, risponde pazientemente che quello di cui si parla è lontano anni luce dalla sua esperienza di vita a Bnei Berak. “In 25 anni non è mai successo niente che mi disturbasse. Non dico che fenomeni di intolleranza o di violenza non possano essere accaduti. Come si usa dire, non esiste una reggia senza immondizia. Ma sono qualcosa di assolutamente marginale rispetto a quello che è veramente il mondo haredi - sottolinea - Io ho la sensazione che esista una sorta di antisemitismo nei confronti dei haredi: dal comportamento di un singolo, si demonizza l’intero gruppo. Come quando, nel triste passato europeo, bastava che un ebreo facesse qualcosa di sbagliato, perché venisse colpito l’intero popolo. Senza contare che nessuno si preoccupa di spiegare quanto siano profonde le differenze fra i diversi gruppi anche all’interno di quello che viene etichettato come un unico mondo ultraortodosso”. La Bnei Berak raccontata da Michele Ajò è un luogo dinamico, che è cambiato tanto negli ultimi anni, a dispetto delle credenze di chi vede gli ebrei ultraortodossi sempre uguali a se stessi. “Con la continua teshuvah, il risveglio dell’ebraismo, ci sono sempre nuove persone che vengono qui perché hanno un particolare interesse per la religione. Ma anche per fare acquisti di vestiario o di oggetti di judaica. La via principale, rehov Rabbì Akiva è sempre affollatissima” spiega. Ma soprattutto ci tiene a sottolineare che a Bnei Berak la gente si occupa di Torah, di studio e di lavoro. Alle storie sui giornali non fa caso, sono troppo lontane dall’apparato culturale di chi vive laggiù. “Quello che i media raccontano sui haredim sono pure e semplici strumentalizzazioni - conclude Michele Ajò - Provino i giornalisti a venire qui seriamente. Di una cosa si accorgerebbero subito: a comandare a Bnei Berak sono le donne!”.

Pagine Ebraiche, febbraio 2012
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Davar acher - A Gerusalemme con Fiamma Nirenstein
Ugo VolliHo letto tutto d'un fiato il nuovo libro di Fiamma Nirenstein, "A  Gerusalemme" (Rizzoli, pp. 215, €18). E' un testo assai più emozionante e più coinvolgente della maggior parte delle cose che si scrivono sulla storia, l'archeologia e la politica di Gerusalemme, perché contiene sì frammenti di tutti questi argomenti, ma è anche è soprattutto una love story, la storia dell'amore di una donna fiorentina per una città mediorientale carica di storia e di conflitti. Quest'amore non è geloso, non esclude nessuno, racconta di vicini arabi ambigui, di capi palestinesi che odiano Israele, di intellettuali scettici e politici affettuosi. Parla di luoghi, di case, di wadi, di negozi, di spese, di motorini, di caffè, della difficoltà di un figlio e di una grande festa di matrimonio. Racconta con angoscia e partecipazione gli anni delle stragi, in cui non c'era giorno senza che i terroristi facessero saltare  in aria un autobus o un luogo di ritrovo. Spiega il terrore del ritardo di un figlio, la doppia faccia di commessi simpatici che si rivelano sostenitori del terrore. Esplora i sotterranei del Monte del Tempio, descrive le vecchie case palestinesi, parla della ginnastica e del caffé al tempo delle stragi e delle colazioni dei giornalisti inviati a Gerusalemme. Racconta abbondantemente e con amore della sua famiglia, ricorda il terribile sconcerto del padre di fronte alla Shoah, le partite di pallone del figlio, la forza del marito. E' insomma un diario intimo e pubblico, costruito per frammenti, per associazioni, per emozioni. Un bel libro. Ma soprattutto è un documento del rapporto profondo, vero, non più libresco dopo millenni, che lo Stato di Israele ha permesso agli ebrei di istituire con Gerusalemme e Eretz Israel, quello che ci porta appena possiamo a prendere un aereo e a inventarsi cose da fare nel piccolo Stato ebraico: parenti, amici, lavoro, ricorrenze religiose, vacanze, non importa. L'importante è andarci, o stare lì, come Nirenstein, trasferirvisi come hanno fatto tanti ebrei italiani. Il rapporto che Fiamma Nirenstein disegna nel libro e pratica nella vita, e tanti altri come lei, è un legame d'amore, fisico, concreto, perfino sensuale con  Eretz Israel. Una curiosità, una necessità, una consuetudine, un attaccamento a tratti disperato, ma sempre pieno di speranza. Questo non capiscono, o capiscono fin troppo bene, quelli che la  detestano e la criticano, quelli anche di origini ebraiche che applaudono alle vignette che la ritraggono secondo i canoni dell'ideologia nazista col pretesto dell'infame lotta politica italiana, tutta segnata da partigianerie e piccinerie, da viltà e finti moralismi.  Fiamma Nirenstein non è solo una grande giornalista, non è solo un esempio di successo dell'impegno civile dell'ebraismo italiano, ma anche  la figura del rapporto autentico, emotivo, intimo, passionale con Israele, della condivisione del suo destino storico. Il suo libro parla  di questo, ancor più che della città di Gerusalemme. Farsene penetrare, condividere questa passione, pagina dopo pagina, è un piacere e un atto di partecipazione intellettuale e politico cui è bello abbandonarsi.  

Ugo Volli


notizieflash   rassegna stampa
La pallamano femminile italiana
in Israele per un Training Camp
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Sono partite alla volta di Tel Aviv le atlete della nazionale italiana femminile di pallamano, che saranno impegnate fino a giovedì in un Training Camp in Israele, in attuazione di un protocollo di cooperazione previsto nell’ambito dei paesi mediterranei. A Tel Aviv le ventuno ragazze selezionate dal direttore tecnico Marco Trespidi, affiancato dall’allenatore Roberto Deiana, svolgeranno quattro allenamenti e affronteranno la nazionale israeliana in tre amichevoli nelle giornate di lunedì, martedì e mercoledì.






 
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